Autorità e “dispositivo di blocco”: di un certo uso della teologia di J. Ratzinger
“Ad discendum item necessario dupliciter ducimur, auctoritate atque ratione.Tempore auctoritas, re autem ratio prior est” (Aug., De ord., II, IX, 26 [CCL, XXIX, 121, 2-122, 4].
Vorrei tornare con una certa precisione su un “modello di argomentazione” che a partire dagli anni ‘70 si è diffuso nel discorso magisteriale cattolico e ha assicurato progressivamente una vera e propria “paralisi” di quell’orientamento alla riforma e ai processi di aggiornamento, che il Concilio Vaticano II aveva provvidenzialmente reintrodotto nella vita della Chiesa. Altrove ho già trattato il fenomeno, identificando una sorta di “stile magisteriale”, che si basava su una strategia paradossale: negando la propria autorità, esso conserva tutta la sua autorità. (Cfr. http://www.cittadellaeditrice.com/munera/chiesa-in-uscita-e-esercizio-dellautorita-oltre-un-luogo-comune-del-magistero-recente/…). Riprendo qui brevemente il senso di quel primo ragionamento1.
1. Il problema della autorità
Nel testo citato osservavo come, nel dibattito ecclesiale scaturito dalle parole profetiche di papa Francesco sulla “Chiesa in uscita” e sul “superamento della autoreferenzialità”, non si fosse ancora chiaramente compreso quanto questa priorità, che giustamente il papa ha enunciato fin dai primi giorni del suo ministero – e che già era chiaramente presente nel suo testo presentato alla Congregazione dei Cardinali in conclave – richiedesse una profonda revisione dello stile con cui la Chiesa pensa e agisce rispetto al tema del “potere” e della “autorità”. Per poter “uscire dalla autoreferenzialità” e diventare davvero “eteroreferenziale” – ossia per non mettere al centro sé, ma l’Altro e l’altro – la Chiesa deve anzitutto riconoscere di essere investita di una reale ed efficace autorità. In altri termini, essa deve poter confidare nella possibilità di intervenire autorevolmente sulla propria dottrina e disciplina – su ciò che pensa di sé e su ciò che fa di sé -, senza cedere alla tentazione di “impedirsi un ripensamento”, magari in nome della fedeltà alla tradizione.
Se la Chiesa pensa che l’unico modo di essere fedele al Vangelo sia continuare in tutto e per tutto come prima – sia dottrinalmente sia disciplinarmente – si convincerà subito di dover restare assolutamente immobile per essere pienamente se stessa. Farà dell’immobilismo la sua ossessione. A questa tentazione Francesco ha voluto rispondere con tre anni di una parola profetica, che vuole anzitutto persuadere la Chiesa e il mondo di due cose:
– che la fedeltà è mediata dal movimento, dalla conversione, dall’uscire per strada, non dalla stasi, dalla paura e dal chiudersi tra le mura;
– che per muoversi occorre riconoscersi la autorità di stare nella storia della Chiesa e della salvezza in modo partecipe e attivo, non come spettatori muti e passivi o come semplici “notai”.
Ma questa considerazione trova più di una resistenza non soltanto nella inevitabile inerzia del modello da superare, ma anche in alcuni “luoghi comuni”, di cui vorrei considerare quello che possiamo esprimere come la riduzione della autorità alla “rinuncia alla autorità”. Si tratta di un luogo comune molto affascinante, che assume talvolta una notevole rilevanza nella esperienza ecclesiale e che il magistero può e deve utilizzare in passaggi complessi. Si traduce, formalmente, in una dichiarazione di “non possumus”. E’ questo uno dei punti chiave del “magistero negativo”, che la tradizione antica, medievale e moderna ha coltivato con attenzione e con cura. Si tratta, in ultima analisi, di una “autolimitazione del magistero”. Ma tale autolimitazione, che di per sé è a garanzia di “altro”, e che dunque dovrebbe arginare e ostacolare le forme della autoreferenzialità ecclesiale, è entrata con grande forza nella esperienza ecclesiale degli ultimi decenni, in particolare a partire dalla fine degli anni 70.
2. Il “dispositivo di blocco”
Ora vorrei identificare con maggior chiarezza il cuore di tale argomentazione in un ragionamento artificioso – che per certi versi appare come una sorta di “sofisma” – e che non è difficile attribuire a J. Ratzinger, in una parabola temporale di almeno 35 anni, che va dal 1977 al 2012. Si tratta di un “dispositivo teorico” che realizza, mediante una indiscutibile finezza retorica, un risultato prestabilito: bloccare ogni cambiamento e far prevalere, affettivamente prima che concettualmente, un primato dell’antico sul moderno. E’ un “dispositivo di blocco”, che paralizza affettivamente, “per attaccamento”, identificando la tradizione con l’affetto, ogni progetto di riforma.
Prima di analizzare le tappe principali di questo interessante fenomeno, che per brevità chiamerò “dispositivo di blocco”, vorrei chiarire meglio la peculiarità del mio approccio:
a) L’apporto di questo “modello di pensiero” è assai significativo poiché riguarda prima il Ratzinger Arcivescovo, poi il Ratzinger Prefetto e infine il Ratzinger papa: è cioè il frutto non del “primo Ratzinger”, libero da impegni pastorali, ma del “secondo e ultimo Ratzinger”, impegnato con responsabilità crescenti a livello diocesano e poi, ben presto, di Chiesa universale.
b) Il cuore della argomentazione è il frutto non soltanto di una indiscutibile competenza teologica, ma anche della abdicazione alla ragione, in una forma piuttosto marcata, per dar spazio ad un “affetto”, o, ancora meglio, ad un “attachement”, ad una “attaccamento” irrinunciabile e assunto come auctoritas indiscutibile: la ratio cede ad una auctoritas affettivamente sovradeterminata, e per questo incontrollabile.
c) Per tale motivo oso attribuire al ragionamento la qualificazione di “dispositivo”: esso non spiega razionalmente, ma avvalora retoricamente e impone giuridicamente una soluzione che non ha solide basi se non in un affetto. Ciò determina l’effetto di far “evaporare” ogni legittima istanza di cambiamento, che trasforma immediatamente, e direi quasi violentemente, in una contraddizione con gli affetti e perciò in una negazione e in una minaccia della tradizione.
d) Funziona, infine o forse anzitutto, da supporto teorico perfetto, quasi da assioma indiscutibile,
per affermare un assetto resistente e immobile della Chiesa, di fronte ad un mondo minaccioso ed infido, al quale la Chiesa non deve piegarsi. Recuperando temi e motivi dell’antimodernismo di un secolo prima, il “dispositivo” funziona perfettamente da “blocco” contro un Concilio Vaticano II percepito, sempre meno come risorsa e sempre più come “deriva”.
In questo post vorrei mostrare questo “dispositivo di blocco” in 4 versioni, storicamente progressive, quasi come una “messa a punto” sempre più affinata e acuta di esso. La presentazione riguarderà, in ordine, 4 documenti ecclesiali del tutto caratteristici di questo approccio: la “Lettera sulla prima confessione” dell’Arcivescovo di Monaco, del 1977, la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 1994, la Istruzione Liturgiam authenticam del 2001, il Motu Proprio Summorum Pontificum, del 2007, a cui va aggiunta la “lettera ai Vescovi tedeschi” sulla questione del “pro multis”, del 2012. Al cuore di ognuno di questi documenti, in un arco di ben 35 anni, si trova lo stesso meccanismo argomentativo, chiaramente riconoscibile, affascinante e distraente, limpido e insieme oscuro, in cui attaccamento e ragione si fondono e si confondono. Una breve indagine sarà in grado di portarne alla luce il punto cieco, ma anche il debito che tutti abbiamo verso questo modo di ragionare e di impostare la riflessione sulla tradizione ecclesiale e dal quale, se vogliamo rileggere significativamente il Concilio Vaticano II, dovremmo prima o poi liberarci.
3. Quattro esempi del “dispositivo”
3.1. Nelle premesse è insinuata la conclusione: Lettera sulla prima confessione
Il primo “luogo dottrinale” in cui è messo in opera il “dispositivo di blocco” è il rapporto tra prima confessione e prima comunione, che l’allora Arcivescovo di Colonia reimposta “contro” la svolta impressa dal suo predecessore, card. J. Doepfner, il quale aveva spostato la prima confessione dopo la prima comunione. La pretesa è di contrastare un “uso pedagogico” della tradizione, ma la teologia che dovrebbe guidare il nuovo avviso si identifica, semplicemente, con la “evidenza affettiva” del principio di autorità. Nel testo della lettera pastorale “Prima confessione e prima comunione dei fanciulli” (1977) Ratzinger arriva a capovolgere il senso della tradizione, pur di garantire la sopravvivenza della prassi (per lui) più tradizionale, affermando un primato di un sacramento di guarigione rispetto ad un sacramento di iniziazione, in grave tensione addirittura con il Concilio di Trento e con la differenza “di dignità” che esso esige sia riconosciuta tra i sacramenti. Egli afferma infatti: “solo con la confessione personale diventano vere le invocazioni di perdono della liturgia eucaristica e questa liturgia eucaristica della Chiesa conserva la sua grande profondità personale che per altro è il presupposto della vera comunione” (9). Giunge così a subordinare la comunione eucaristica alla confessione personale, come regola di approccio originario al senso della comunione stessa, con una evidente e grave forzatura della tradizione. Tutto questo, oltretutto, argomentato con una motivazione davvero sorprendente: il nuovo Arcivescovo chiede agli operatori pastorali di “lasciare le proprie idee più care per il bene della comunità”, ma di fatto, con questa lettera, egli impone le proprie idee più care – quelle per lui affettivamente più urgenti – a scapito del cammino di maturazione della comunità. Usare la Didaché come testo-chiave per affermare il primato della confessione individuale sulla comunione eucaristica è una argomentazione molto arrischiata, con un uso della “auctoritas” del tutto anacronistico e privo di riscontro storico. Ma qui, per la prima volta, salvo errore, appare il “dispositivo di blocco”: argomentando senza vero rigore, e in modo puramente affettivo, egli ottiene soltanto una “conformazione autoritaria” del comportamento, senza motivazione teologica consistente.
3.2. Documenti non infallibili e prassi infallibili: la spiegazione di Ordinatio Sacerdotalis
Molti anni dopo, nel 1994, con Ordinatio sacerdotalis, di cui Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede fu il grande ispiratore, sul tema della “ordinazione delle donne al sacerdozio”, Giovanni Paolo II riprende con forza questo stile, dichiarando che “la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”. Con una dichiarazione di “non autorità”, e di cui lo stesso Prefetto chiarisce più tardi, la natura “non infallibile”, si vuole chiudere la questione, pur non escludendo che “altre ordinazioni” siano percorribili. La negazione della autorità determina la conferma della forma classica del potere ecclesiale e addirittura pretende di riconoscere, non infallibilmente, una tradizione infallibile. Sposta la infallibilità dal documento alla tradizione, con un salto mortale argomentativo assai azzardato. Senza assumere alcuna nuova autorità, si riconosce autorità soltanto al passato, senza tematizzazione alcuna delle novità culturali, antropologiche ed ecclesiali che l’ultimo secolo aveva recato, come se la storia non fosse. Nel cuore del documento, e della sua esplicazione successiva, appare con chiarezza, di nuovo, il “dispositivo di blocco”: affetto, attaccamento e autorità sostituiscono la ragione teologica. Sentimento e potere, al posto della ragione. Anzi, la ragione dovrebbe, a posteriori, limitarsi a giustificare il sentimento di attaccamento e il principio di autorità. Ratzinger sa bene, con Agostino (cfr. esergo iniziale di questo post), che il solo principio di autorità non basta, che occorre anche trovare una “ratio”, ma auspica un lavoro razionale solo “a valle”, non “a monte”.
3.3 Per contraddire l’esperienza: traduzione letterale, anche senza destinatario in “Liturgiam authenticam” e nella lettera sul “pro multis”
Alcuni anni dopo, nel 2001, fu Ratzinger l’ispiratore della V Istruzione sulla Riforma Liturgica Liturgiam authenticam, dalla quale scaturiva una nuova versione del “dispositivo di blocco”, con la assoluta affermazione del “primato del latino” sulle “lingue vernacole”. L’effetto di questa teoria sulla traduzione, priva di fondamento storico – nella quale si arrivava a stabilire la irrilevanza della lingua dei destinatari e la pretesa di “traslitterare le figure retoriche latine” – era duplice: la paralisi del rapporto tra periferia e centro nella gestione delle traduzioni liturgiche e la dimenticanza che la “vita ecclesiale” non pulsava più nelle vene del latino, ma in quelle delle lingue nazionali, che non erano più, ormai da 50 anni, lingue di traduzione, ma lingue di esperienza e di creazione. Una ripresa successiva, nella Pasqua del 2012, da parte di papa Benedetto, di una lettera ai Vescovi tedeschi, sulla questione del “pro multis” metteva in luce, ancora una volta, la forza del “dispositivo di blocco”: la traduzione letterale “fuer viele” (per molti) doveva imporsi “affettivamente” e “autoritativamente”, mentre sul piano concettuale doveva essere smentita da una catechesi accurata, che spiegasse come “per molti” significhi “per tutti”. Una immagine di singolare evidenza della contraddizione interna al “dispositivo di blocco”.
3.4. Parallelismo rituale, con effetto anarchico: Summorum Pontificum, monstrum romanae curiae
L’ultima tappa di questo percorso efficace del “dispositivo” si incontra nel 2007, con il Motu Proprio “Summorum Pontificum”, mediante il quale, mentre si creava un parallelismo di forme rituali del medesimo “rito romano”, ci si spogliava della autorità di orientare la liturgia ecclesiale lungo le linee della Riforma Liturgica e si rimettevano in pieno vigore i riti che la Riforma stessa aveva voluto superare, denunciandone i limiti e le distorsioni. Anche in questo caso il Magistero “si autolimita”, perde potere, poiché non avrebbe la autorità di orientare la tradizione e le scelte dei singoli ministri ordinati, ma in tal modo restituisce autorità a forme di esperienza preconciliare. Il “dispositivo di blocco” qui argomenta di nuovo in modo astorico: “ciò che è stato santo una volta, deve poterlo essere sempre”. Dunque la Chiesa non si riconosce alcun potere di Riforma. Ciò che è stato di per sé si perpetua senza alcuna possibilità di orientamento o conversione. E un principio argomentativo, di per sé negativo e puramente astorico, dà causa ad effetti storici assai gravi: perdita di controllo dei Vescovi diocesani sulla prassi liturgica, accentramento del controllo in un organo “affettivamente condizionato” – la Commissione Ecclesia Dei -, il diffondersi di una rilevanza “politica” – in senso ecclesiale e in senso mondano – della “forma straordinaria” come “forma reazionaria”. Il “dispositivo di blocco” non ha fermato le cose: ha sicuramente bloccato lo sviluppo della Riforma e ha generato un vero e proprio “monstrum romanae curiae”, con conseguenze laceranti facilmente prevedibili e oggi finalmente superate.
4. Francesco e il superamento del “dispositivo di blocco”
Come è evidente, tutti questi impieghi del “dispositivo”, sia pure nella loro diversità di contesti e di intenti, fanno ricorso ad un “luogo comune” del magistero. Hanno tutti in comune una sottile dialettica tra “perdita di potere” e “assunzione di potere”: nel momento in cui il magistero dice di “non avere autorità”, lascia in una autorevolezza assoluta e indiscussa solo lo “status quo”. Esso tende ad identificare ciò che è con ciò che deve essere. E pertanto blocca il dibattito sulla relazione tra iniziazione e guarigione, sul ruolo ministeriale delle donne, sulle forme della inculturazione liturgica e sul cammino organico della riforma liturgica. Non è difficile notare come questo “non riconoscimento di autorità” si identifichi con una conservazione del potere acquisito, spesso diventando principio e alimento di una rischiosa inclinazione alla autoreferenzialità. E, come abbiamo visto, nel “dispositivo di blocco” questo risultato è ottenuto mediante una originale sintesi tra “attaccamento affettivo” e “ragione teologica ridotta al principio di autorità”.
In paragone a ciò, il “ritorno al Concilio” di papa Francesco appare segnato dalla esigenza di “ridare autorità” all’azione ecclesiale. Così di fatto è avvenuto su tutti e 4 i fronti che ho tentato di presentare: a partire dal 2017, una serie di documenti, che hanno la forma di Lettere “motu proprio”, hanno modificato profondamente sia la relazione tra lingua latina e lingue parlate (Magnum principium), sia la “riserva maschile dei ministeri istituiti” (Spiritus Domini e Antiquum ministerium) sia il parallelismo rituale tra diversi “ordines” del rito romano (Traditionis custodes), Solo così si può uscire dalla “tentazione della autoreferenzialità”. Ma per farlo occorre assumere un diverso approccio verso la tradizione. La Chiesa non si riconosce come una “storia chiusa”, come un “museo di verità da custodire”, ma come un “giardino da coltivare”. Per questo sarebbe molto utile rileggere il pontificato di Francesco, a quasi 10 anni dal suo inizio, non come una forma incerta e “soft” di ministero pastorale, ma come un ripensamento della forma della tradizione con cui la Chiesa non rinuncia ad esercitare la autorità e perciò supera il “dispositivo di blocco” che J. Ratzinger aveva messo a punto con tanta finezza per 35 anni. E’ una visione della tradizione che crea una discontinuità tra Francesco e i suoi predecessori. Francesco assume la esigenza di esercizio della autorità che i suoi predecessori avevano come sospeso, determinando spesso degli esiti caratterizzati da “paralisi”. Non è azzardato affermare che Francesco ha iniziato a disinserire il dispositivo di blocco, cambiando sia il ruolo dell’attaccamento affettivo, sia il ruolo della ragione teologica, sia la destinazione ecclesiale del magistero. Qui, a me pare, si colloca un elemento di profonda continuità con il Concilio Vaticano II e di inevitabile discontinuità rispetto al regime controllato dal “dispositivo di blocco”. La cui incidenza, tuttavia, non è ancora tramontata, neppure su alcuni aspetti dello stesso magistero di Francesco.
1Ho svolto più ampiamente il mio ragionamento nel volumetto A. Grillo, Da museo a giardino. La tradizione della Chiesa oltre il “dispositivo di blocco”, Assisi, Cittadella, 2019.
Ma questo suo commento non fa che confermare che la confusione di fondo è sull’essenza e sul ruolo del magistero! Oracolo delfico capace di fare e disfare la Chiesa: errore comune a certo progressismo e a certo tradizionalismo.
Mi dica, ha qualche pregio o è tutta da buttare questa affermazione della Pastor Aeternus? “Lo Spirito Santo infatti, non è stato promesso ai successori di Pietro per rivelare, con la sua ispirazione, una nuova dottrina, ma per custodire con scrupolo e per far conoscere con fedeltà, con la sua assistenza, la rivelazione trasmessa dagli Apostoli, cioè il deposito della fede”.
Ma se ciò che esige la tradizione altro non è che una “fedeltà creativa”, con che serietà intellettuale lei, professor Grillo, può affermare che la vigenza contemporanea di due forme del rito romano è qualcosa di totalmente alieno, contrario alla tradizione?
Come può imbufalirsi su quella pagliuzza, ignorando la trave che è una “riforma generale del rito romano”, che pure la storia mai ha visto?
Con che coerenza accetta (anzi, dogmatizza) la seconda ma rigetta la prima, posto anche che entrambe promanano dalla sua unica vera fonte della rivelazione, il Santo Magistero “illimitato”?
Il parallelismo rituale di due forme del medesimo rito romano è una contraddizione in termini, che si può sopportare solo nel trapasso tra una forma e l’altra, non come ordinaria soluzione. Non porta pace, ma guerra. Questa è la trave, che per lei è pagliuzza, mentre lei considera trave la legittima riforma del rito romano voluta da un Concilio ecumenico e da un Papa. E si stupisce che io non sia d’accordo?
Evidentemente ha pure un concetto confuso di guerra e di pace.
Mi vien da sorridere vedendole invocare, dopo tutto quanto ha scritto più sopra, il principio d’autorità: “un Concilio ecumenico e un Papa” (che poi è tutta da vedere la corrispondenza Concilio-Riforma – non basta ripetere abbastanza volte una bugia perché diventi verità), quando anch’io potrei tranquillamente citare non meno di due papi a favore della “parallela vigenza”.
Quel che volevo dire, e che evidentemente le è sfuggito, è che se è assurdo che per fiat papale il rito romano esista magicamente in due forme, è altrettanto assurdo che per fiat papale il rito romano (o qualsiasi altro rito cattolico) sia reinventato da capo a piedi. Entrambe le cose mai si son viste nella storia. Ma dal momento che accetta la prima “contraddizione”, non vedo come possa rigettare la seconda; soprattutto quando lei per primo riconosce al magistero l’autorità di secondare la “azione ecclesiale“ verso monstra (questi sì veri) come l’ordinazione femminile, se ho ben capito dove voleva andare a parare.
Non è assurdo che un Concilio voglia la riforma del rito romano. E’ assurdo che un papa faccia finta di niente e ripristini l’ordo che il COncilio ha voluto esplicitamente superare. Qui non è il principio di autorità, o un sofisma, ma il buon senso ad essere in gioco.
Professore, prima di tutto auguri sinceri per una buona salute ritrovata. Poi, mi consenta, esistono in sede storica seri dubbi sul fatto che sia stato il Concili0 a volere il novus ordo così com’è. Lei avrà certo letto le memorie del cardinale Antonelli, suppongo. Dalla SC si deduce chiaramente la volontà di una messa con molta lingua volgare ma anche con molto latino. Il latino non è una mania, ma un simbolo di continuità. Papa Roncalli ne definisce perfettamente ruolo significato e importanza nella Veterum Sapientia, che non fu una concessione a quei tromboni di Ottaviani e Bacci, ma un documento importante voluto dal papa dove si parla chiaramente anche dei rischi di un abbandono totale della vecchia lingua liturgica. Poi è arrivato quello che de Lubac chiamava il paraconcilio. Il cardinale Martini testimoniava per iscritto nel 2007 sul fatto che papa Roncalli riteneva la VS uno dei documenti più importanti del suo pontificato.
E, mi vien di aggiungere, tutto il suo ragionamento lascia presupporre una trita ermeneutica del sospetto, di modo che qualsivoglia riaffermazione dello status quo, di principi, dottrine e prassi più o meno consolidate altro non sia, gratta gratta, che un esercizio despotico di potere clericale (foss’anche inconsapevole, interiorizzato, in buona fede).
Non mi pare ermeneutica del sospetto, ma della costatazione. Provi lei a dimostrare che non si tratta di sofismi, ma di argomentazioni fondate.
Non solo lei non è tenuto a provare intenzioni recondite e surrettizie (quando se c’è una cosa che proprio non si può disconoscere al magistero post-conciliare è di fornire ampie argomentazioni teologiche e antropologiche alle proprie asserzioni), ma addirittura incomberebbe a me l’onere di provare (insieme alla solidità dei vari argomenti) che tali intenzioni recondite e surrettizie non esistevano!
De internis, neque ecclesia; professor tantum.
Gent.mo Grillo,
Lei fa una lettura legittima e puntuale della situazione, e la propone all’attenzione dei Lettori del suo blog come La lettura corretta e unica possibilità logica e razionale; tuttavia faccio presente che non è automatico che la Sua interpretazione dei documenti da Lei citati sia quella giusta e, fra l’altro, Lei non considera che la Grazia di stato da cui ogni Papa è sostenuto, a differenza mia e Sua, è garanzia di un insegnamento dottrinale autentico.
Lei non ha condiviso su molti punti la guida della Chiesa universale da parte di Benedetto XVI, e ne rigetta il MP Summorum P. perché non collima con le Sue idee e la Sua visione teologica; d’altra parte non ha problemi ad accettare un altro MP, TC, in quale è allo stesso modo un documento di autorità del Papa, che questa volta Lei condivide e dunque le va bene e merita di essere accolto, anzi, deve essere accolto. Io penso che questo modo di porsi non sia corretto. Le faccio presente che non entro nel merito di tutto ciò che ha detto e che, per alcuni pochi aspetti posso anche condividere, anche se sono così pochi che in generale posso dire di non condividere in linea generale.
Ovviamente sarò tacciato di tradizionalismo; la definizione non mi appartiene, anche perché a mio avviso, insieme a “progressista”, è una categoria che non trova più spazio serio nella discussione teologica, serve solo ad incasellare idee e soprattutto persone e, parlando di teologia e di prassi, mi pare che le categorie ben poco abbiano a che fare col Vangelo.
Aggiungo anche che non devo difendere nessuno, tantomeno Benedetto XVI, il quale col suo magistero ha detto e dato tanto alla Chiesa, così come Francesco o Giovanni Paolo o gli altri che lo hanno preceduto, ciascuno con le proprie peculiarità.
Concludo osservando che mi sembra necessario sottolineare che i fratelli e le sorelle legati al cosiddetto vetus ordo, che di fatto continua ad essere celebrato per il ministero di molti presbiteri e vescovi, nasce per lo più da una richiesta “dal basso” e che quelle famiglie religiose che lo usano come forma “preferita” sostanzialmente non lo usano per rinnegare il Vaticano II (forse lo negano di più coloro che violentano il Messale che per brevità chiamo di Paolo VI) ma piuttosto perché riescono a pregare meglio e a vivere meglio l’azione liturgica.
Il fatto che i più giovani siano nati dopo il Concilio Vaticano II non implica automaticamente che sia a loro estraneo: lo usano quindi fa parte del loro vissuto attuale e dunque è un rito vivo, attraverso cui incontrano il Signore e i fratelli.
In ultima battuta, e poi concludo davvero e mi scuso della mia lungaggine, sottolineo che personalmente non ho mai ne celebrato con suddetto rito ne partecipato a Celebrazioni in rito 1962; ma sono certo che la parola usata da Benedetto XVI sia vera e innegabile: ciò che era sacro per le precedenti generazioni… non può essere ritenuto dannoso.
Stessa Eucaristia, stesso Cristo, stessa Chiesa.
Un cordiale saluto, lieto della ripresa della Sua salute.
Il mio discorso non è di “preferenze”, ma di rigore sistematico. La presenza contemporanea di due riti contraddittori non è sistematicamente possibile e causa un grande caos. Qui non si tratta di grazia di stato, ma di principio di non contraddizione.
È qui che a mio parere il discorso non fila: Lei vede contraddizione tra i due riti, io vedo continuità. Ma questo non implica automaticamente che la Sua sia La visione. E mi pare che il Suo punto di vista sia intollerante di quello altrui.
Il fatto che ci sia un indulto più o meno diffuso per la celebrazione col rito precedente al 1969, mostra chiaramente che quel rito non è abrogato, ma tuttora in vigore anche se per indulto. Se fosse abrogato non ci sarebbe alcun indulto per nessuno e per nessun motivo.
Fra l’altro faccio sommessamente notare che nel celebrare secondo il rito attuale, si assiste ad un continuo “preferire” da parte di vescovi, preti, diaconi e laici, i quali, per imperizia, imprudenza e anche impudenza, aggiungono, tolgono, inventano, trasformano i riti con risultati “ai limiti dell’insopportabile” come ha ripetuto il Papa in TC; la mia domanda è: aiuta a pregare e incontrare il Signore questo modo di celebrare? Vede che il “preferire” nella realtà concreta la fa da padrone.
Confermo in ogni caso che non è mio compito difendere in rito 1962, ma riconoscerne la santità questa è questione di mia onestà intellettuale.
La continuità c’è storicamente, non contestualmente. Se un Concilio ritiene che vi siano motivi per introdurre novità importanti nell’ordo Missae, l’unica possibile continuità è introdurre le novità (ricchezza biblica, omelia, lingua volgare, concelebrazione ecc. ecc) e superare il rito inadeguato, che è stato santo ma non lo è più. Pertanto la retorica secondo cui ciò che è stato santo resta sempre santo è una frase retorica senza fondamento. L’onestà intellettuale non consiste nel dire una cosa e il suo contrario.
È qui il punto nodale: ciò che è santo resta santo. Se non lo fosse più, non lo sarebbe mai stato e sarebbe proibito in ogni caso e senza eccezioni. Non è pensabile che la Chiesa tolleri una realtà non santa riguardo ai riti sacramentali.
Un cordiale saluto.
Caro prof. Grillo,
mi permetta una domanda.
Quanto tempo dovremo ancora attendere per vedere realizzarsi nella prassi della vita della Chiesa le eventuali, possibili, timide aperture dottrinali che la nuova impostazione del Concilio aveva, quantomeno programmaticamente, impostato o reso possibili in base ad una nuova concezione del rapporto tra depositum fidei, tradizione e storia / segni dei tempi?
Sono nato proprio alla fine del Concilio Vaticano II; nel 1969 (anno peraltro della Umanae Vitae di un già titubante Paolo VI) entra in vigore la riforma liturgica; da allora in poi, dagli anni settanta, entra in vigore il cd “dispositivo di blocco” che qualifica e giustifica l’immobilismo di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI per quasi 40 anni; nel 2013 con Francesco si vorrebbe tornare allo Spirito del Concilio, ma la Chiesa si divide e i tradizionalisti minacciano scismi ad ogni (anche piccola) ipotesi di riforma.
Morale: ormai son quasi vecchio da pensione e non solo non ho visto sostanziali riforme nel modo di pensare e di agire della Chiesa, ma, di questo passo, nemmeno le vedranno i miei figli ormai quasi trentenni.
Nessuno si accorge che i tempi del mondo, la velocità con cui il mondo cambia, si evolve, in tutte le sue dimensioni ed espressioni, non è più quella del primo e del secondo millennio??
Io (e i miei figli ancora di più) non sono (più) disposto ad accettare i tempi di riforma infinitamente lunghi che la Chiesa si prende per ogni cosa.
Che importanza potrà mai avere per me se la Chiesa cambierà la sua dottrina su aspetti essenziali della vita delle persone tra 20, 50, 100 anni???
Io vivo ora e credo che i tempi siano maturi per riforme sostanziali da realizzare celermente e in profondità.
Un cambio di paradigma non si realizza mai troppo velocemente. Ogni generazione dà il suo contributo e deve essere disposta a sperare ciò che non può vedere.
Una risposta un po’ scontata, scolastica.
Prendo a prestito un tema esemplare, che lei stesso più volte ha messo in rilievo: quello del ruolo della donna nella Chiesa.
Per quanto tempo ancora le donne contemporanee, le mie figlie tra i 20 e i 30 anni per essere concreti, saranno disposte ad accettare una situazione di oggettiva subalternità, evidente in tutte le espressioni ecclesiali o ecclesistiche, senza concludere che questa Chiesa, così come fatta non è (più) credibile (e si priva senza motivo alcuno di una ricchezza inestimabile)?
Quale cavolo di dogma “non negoziabile” riferito alla figura di Gesù (ai valori ed alle/a verità che Gesù stesso ha testimoniato e vissuto) si scomoda se si procede celermente a riformare questo inaccettabile status quo?