Cultura civile e teologia (/7): la mancanza di una teologia laica (P. Consorti)
PIERLUIGI CONSORTI
La mancanza di una teologia laica
Qualche giorno fa Andrea Grillo ha pubblicato un post nel suo blog a commento del recente libro di G. Enrico Rusconi sulla teologia narrativa di papa Francesco. Rusconi, che è un intellettuale di alta classe, certamente non è un teologo: tanto che denuncia onestamente la propria “incompetenza teologica”. Va quindi a suo merito il coraggio di entrare in un campo che non ha coltivato e ancor più la capacità di accompagnare il lettore in argomentazioni suggestive. Tuttavia non sempre teologicamente fondate. L’assenza di una cultura teologica di buon livello è un annoso problema che assilla l’accademia italiana, e più in generale la cultura religiosa del nostro Paese, e Rusconi esprime bene lo spessore di questa mancanza.
Non è certamente il caso di personalizzare, vorrei quindi mettere da parte Rusconi per affrontare in termini propositivi un nodo emerso dalla lettura del suo ultimo libro, ossia la mancanza di cultura teologica nell’Università italiana. E’ appena il caso di ricordare che le Università degli studi sono nate come istituzioni ecclesiastiche basate principalmente sullo studio della teologia, con una inequivocabile propensione per la filosofia e il diritto, originariamente intese come discipline ancillari. Cattedre e facoltà di teologia sono sempre state presenti nelle Università storiche e in moltissimi Stati del mondo occidentale la teologia è una disciplina universitaria a pieno titolo. In Italia invece la tradizione teologica universitaria statale si è interrotta nel 1873, come conseguenza diretta dello scontro fra il Re e il papa (non più re). Gli insegnamenti teologici non erano forse particolarmente floridi, ma la soppressione delle Facoltà di teologia causò una ferita accademica che ancora non sembra essersi rimarginata. Non si può peraltro dimenticare che la chiusura degli insegnamenti teologici – se non consentì, almeno – favorì l’avvio di quelli filosofici. Per questa via in Italia specialmente la filosofia e la teologia, ma anche la teologia e il diritto, hanno cominciato a seguire strade molto diverse per non incontrarsi più, salvo accidenti del caso.
Pertanto oggi sembra del tutto normale che la cultura teologica non abiti più nelle Università pubbliche. Eccezion fatta per qualche spazio residuo recuperato in materie affini, da quelle più tradizionalmente vicine – come quelle filosofiche (con insegnamenti anche di “Filosofia della religione”) e giuridiche (l’insegnamento di “Diritto canonico” o “Diritto e religione” è presente negli studi giuridici e talvolta politici) – a quelle figlie di un rinnovato interesse per le scienze sociali, come quelle sociologiche (anche nella dimensione di una vera e propria “Sociologia delle religioni”), antropologiche o pedagogiche; che però in genere fanno tranquillamente a meno di una sufficiente cultura teologica. Come accade ad esempio nelle discipline storiche (“Storie delle religioni” o “Storia del Cristianesimo”) che – salvo forse eccezioni locali – utilizzano basi e metodi affatto storico e storiografici, senza avvertire l’esigenza di conoscenze teologiche.
L’assenza della teologia non è insomma avvertita come una mancanza. Anzi, negli ambienti accademici è molto diffusa l’idea che “la teologia non è una scienza”, per cui i teologi sono “affabulatori del nulla” (Cardia, 2001), oppure filosofi costretti a piegarsi alle esigenze di una verità confessionalmente orientata. Si tratta di un evidente pregiudizio figlio di una sottocultura areligiosa che vuole ascrivere l’universo spirituale all’area dell’irrazionalità, come tale necessariamente priva di metodo scientifico. Che tuttavia si basa su argomentazioni talvolta fondate, specialmente se si fa riferimento alla teologia insegnata nell’Ottocento.
Senza approfondire questi aspetti, occorre segnalare un dato di fatto inequivocabile: da 150 anni gli studi teologici in Italia sono chiusi nell’ambito di istituzioni confessionali, specialmente cattoliche, non sempre all’altezza della qualità della formazione universitaria e certamente in larga parte inclini alla necessità di salvaguardare conoscenze piuttosto catechistiche che non critiche, più ripetizione di fatti noti che non laboratori di ricerca. Si tratta sovente peraltro di scuole riservate ad una platea prevalentemente formata da ecclesiastici e apertamente indirizzata alla formazione intraecclesiale (quest’ultimo fenomeno ha toccato anche la Facoltà valdese, che pure è espressione di una scienza teologica più libera di quella comune alle scuole cattoliche). Anche le grandi Università romane, da quelle più antiche a quelle di più recente costituzione, sono rimaste frequentemente espressione di una necessità piuttosto didattica che non finalizzata alla ricerca. Comunque manifestazione di un mondo parallelo rispetto a quello delle Università pubbliche italiane, che restano affatto separate dalle istituzioni universitarie confessionali.
Tuttavia negli anni più recenti la teologia anche cattolica ha mostrato una capacità di crescita scientifica senza eguali. La teologia si è allontanata dalla ripetitività di schemi precostituiti ed ha avuto il coraggio di proporre piste di ricerca che hanno rinnovato con audacia la sua tradizionale ermeneutica. In particolare, teologi laici e teologhe (laiche e non laiche) hanno da un lato introdotto temi di ricerca nuovi e da un altro lato innovato il modo di vedere anche i temi di ricerca tradizionali. Necessità pastorali e un rinnovato attaccamento alla Parola di Dio hanno offerto nuovi punti di vista alla teologia cattolica; sensibilità ecumeniche e prassi dialogiche hanno aiutato ad utilizzare strumenti e metodi in grado di dissodare campi vecchi e nuovi. La teologia contemporanea non si presenta più come una scienza ripetitiva di formule morali o pastorali, ma come un luogo di riflessione scientifica e plurale sulla dimensione della relazioni umane sotto lo sguardo di Dio.
I Quaderni di diritto e politica ecclesiastica nel 2001 dettero vita ad un dibattito sulla possibilità di introdurre nuovamente la scienza teologica nelle Università italiane. La lettura degli interventi pubblicati in quel fascicolo rende ragione del percorso sviluppato negli ultimi quindici anni. Leggendo quelle pagine si avvertono gli echi di una questione allora forse posta ancora in modo prematuro. Con toni talvolta apologetici e tutto sommato acerbi, che meritano di essere oggi ripresi con uno slancio più adulto.
La questione religiosa contemporanea presenta contorni molto diversi dal passato. Questo impone una conoscenza approfondita delle religioni e delle loro teologie che l’Italia non può più permettersi di confinare solo in luoghi confessionalmente orientati. L’analfabetismo religioso produce danni sociali inimmaginabili, che non possono essere contrastati con una formazione religiosa minimale e minimalista. Abbiamo bisogno di sviluppare una scienza teologica viva e plurale. Per crescere le teologie hanno bisogno di spazi laici; e questi ultimi hanno bisogno della teologia.
Non vorrei essere frainteso, non credo che le Università italiane debbano cedere alla teologia; avverto crescere dal basso un bisogno sociale di ricerca e conoscenza teologica plurale che impone alle Università italiane di aprirsi laicamente alle scienze teologiche. Mi sembra che i tempi siano maturi per proseguire una riflessione possibilmente corale. Se mi è concessa una battuta: per evitare che altri Colleghi laici debbano in futuro scrivere un libro sulla teologia, senza averne però conoscenze sufficienti.
Caro Grillo, ho letto il tuo intervento su “cultura civile e teologia”, e gli altri che hai inserito in seguito, e mi piacerebbe offrire un mio contributo alla discussione. Per il momento, non sapendo dove inserire un commento, lo metto qua, in calce a questo ultimo intervento. Conosci il mio pensiero, avendo seguito la stesura del mio libro “Democrazia regale”. Sai anche che io ho sempre preferito definirmi filosofo, perché è nome dai connotati più “laici” (diciamo così, nella falsa accezione che si dà alla parola, attribuendole i connotati di cattolicità che dovrebbe andare invece con l’aggettivo “cattolico”), ma non credo assolutamente in una filosofia autonoma. Condivido a questo riguardo le osservazioni critiche di Biancu sulla pretesa di incondizionatezza delle discipline accademicamente legittimate, che nella sua insostenibilità ha largamente fatto delle nostre università (europee tanto quanto americane) non più luoghi di ricerca della verità, ma di menzogna sistematica. La menzogna è ben rappresentata dalla pretesa kantiana di essere diventati “mundig”, cioè uomini maturi, rispetto alla minorità degli uomini del passato: è come dire, è avvenuto nella storia qualcosa di nuovo, un “dopo (aggiungici quel che ti pare)” che ha surclassato il “dopo Cristo”. Si chiama “modernismo”, racconto mitologico della storia che conduce fino a noi, uomini di oggi, relegando chi non è d’accordo con noi nel passato, perciò stesso escluso dal dialogo razionale. Mi ha sempre perciò dato da pensare lo statuto epistemologico della teologia: in che senso essa costituisca sapere, qualificabile e difendibile come tale, ovvero come davvero sapere o, per dirla tomasianamente, , “scienza”. Da quando ho cominciato i miei studi filosofico-teologici in una università protestante, ho avvertito che il problema principale, per una simile qualifica. è costituito dalla “fede”: che ne farebbe un sapere destinato a una certa cerchia di uomini, e non erge omnes. L’imbarazzo che mi suscitava il parlare di “fede” non è purtroppo cessato quando dall’ambiente protestante sono passato un ambiente universitario cattolico, nel quale ho ritrovato lo stesso uso delimitante della parola. Mi sembra che stia qua il limite di gran parte della teologia odierna, che continua a fare da contraltare alla falsa pretesa di incondizionatezza dei sé dicenti laici – in un rapporto analogo a quello che condusse alla esclusione della teologia dalle università italiane. Una teologia che non sia erga omes, indirizzata cioè cattolicamente a tutti gli uomini, tradisce l’essenza stessa del cristianesimo, quando portava e porta la sua predicazione precisamente a uomini che non erano cristiani. L’errore, come ho scritto nel mio libro, e come non mi stanco di ripetere, sta nel non rendersi conto che la parola “fede” non è parola cristiana, ma prescristiana, e sta a significare la dimensione ineliminabile di fiducia, produttiva di persuasione, che caratterizza i rapporti umani. Il suo uso, soprattutto paolino, non sta a significare quindi una delimitazione dell’ambito di validità del discorso teologico, ma la sua apertura, appunto, erge omnes, riconoscendo in Cristo l’autorità capace di abbracciare la fede, appunto, di tutti gli uomini. Con una simile realizzazione la teologia potrebbe riguadagnare il suo stato di disciplina universitaria, anche a correzione delle false pretese di universalità delle discipline che invece nelle università some ammesse. Non a caso nel cristianesimo cattolico e ortodosso la fede è stata prodromo all’esercizio logico della ragione, o se preferisci della dialettica, indirizzata a qualunque possibile interlocutore, senza neanche bisogno di richiamare tematicamente la necessità umana della fides per l’interlocuzione, ed è stato all’origine in ambito cattolico dell’università. Paradossale è stata quindi l’esclusione del pensiero cristiano, chiamiamolo teologia, dall’università, asservita a una ragione che si dichiara indipendente da qualunque fede, e perciò stesso si annulla nel sentimentalismo. Modello di una ragione che trova nella fede cristiana la capacità di universalizzarsi, è stato per me in anni recenti il santo e filosofo Antonio Rosmini, che si poneva problemi come i nostri prima dell’unità d’Italia, chiarendone i termini meglio di quanto non facciano i più citati tedeschi, da Kant a Heidegger.
Caro Giorgio
Grazie per il tuo contributo.