Donna e ministero: da impedimento a risorsa. Una soluzione inattesa dal Concilio di Trento?


ministerodonne

La evoluzione della riflessione intorno all’esercizio ministeriale della autorità femminile nella Chiesa chiede una rinnovata attenzione da parte dei teologi. Non mancano contributi di valore (ad es. qui), che mostrano come si possa aprire una nuova fase di riflessione, come preludio ad un esercizio della autorità ecclesiale, che spetta ai pastori e non ai teologi, ma alla quale i teologi possono offrire argomenti e motivazioni in parte nuove e in parte antiche.

Un punto di evidenza del tutto chiaro, e che di recente è tornato anche nelle argomentazioni offerte da papa Francesco, nel riferire sul risultato interlocutorio della Commissione pontificia sul diaconato femminile, è la esigenza di fornire un adeguato “fondamento teologico-dogmatico” per giustificare la possibile nuova introduzione del diaconato femminile. Di per sé lo spazio è aperto, anche se in negativo, perché sia Inter Insigniores sia Ordinatio Sacerdotalis parlano de limiti solo di Episcopato e di Presbiterato, non del Diaconato. Quindi lo spazio istituzionale per una apertura del diaconato alla ordinazione anche di donne è già stato acquisito formalmente.

Tuttavia, su questo punto specifico possiamo notare come, facilmente, il discorso teologico passi dal “contenuto” (la apertura del diaconato permanente al sesso femminile) alla “forma” (la mancanza di potere della Chiesa nel procedere a questo ampliamento). Come dire che la porta è aperta, ma non si ritiene di avere la autorizzazione a varcarla. In un certo senso, si passa facilmente dal “che cosa” al “come” con molta disinvoltura. E qui si può notare, sul piano sistematico, una interferenza profonda, tra logiche non coerenti, che meritano un chiarimento. Qui sta, a mio avviso, il punto di resistenza più delicato e che merita di essere meglio illuminato.

Noto infatti una facile interferenza tra una acquisizione del tutto pacifica nella storia della teologia cristiana e cattolica – ossia il limite di potestas ecclesiale di fronte al contenuto rivelato della tradizione, su cui la Chiesa non ha potere – e la tendenziale estensione di questo limite, per garantire alla Chiesa una apparente condizione di sicurezza e assicurarle una strutturale immobilità nella storia. Poiché, se di fronte ad ogni aspetto della tradizione sacramentale la Chiesa ritenesse di avere a che fare con la “sostanza del sacramento”, si vedrebbe costretta a ripetere semplicemente il passato, sicura di essere, per questo, nell’ambito della autentica e indefettibile tradizione ecclesiale. Una estensione troppo disinvolta della “sostanza del sacramento” rischia di impedire l’accendersi della sensibilità per il mutare delle circostanza, dei luoghi e dei tempi.

In altri contesti (ad es. qui) ho notato come questa argomentazione classica sia diventata, dopo il Concilio Vaticano II, una piccola e grande tentazione: la tentazione di “blocco della tradizione”, con cui la Chiesa, invocando una “mancanza di autorità”, mantiene esattamente lo stesso potere di prima, non si lascia interpellare dalla storia, non si mette in ascolto dei “segni dei tempi”, non si apre ad alcuna “conversione pastorale”. Il Concilio Vaticano II aveva aperto proprio su questo punto la Chiesa a un nuovo esercizio della autorità, dopo la lunga stagione dello scontro col modernismo, mentre dopo di esso, forse spaventati, si è tornati ad argomentazioni difensive e negativa: Papa Francesco ha identificato, proprio in questo meccanismo di negazione di autorità, una delle fonti della “autoreferenzialità” e del “clericalismo”, in quanto rischi di degenerazione della tradizione, incapaci di apertura e di “uscita”. Assumere il “fatto” del sesso maschile del diacono come un “dovere per sempre” appare una forzatura, legata ad un eccesso del metodo storico rispetto al metodo sistematico. Come diceva R. Guardini, la storia ci dice che cosa è stato, ma la sistematica ci dice che cosa deve essere. Questa differenza sembra oggi appannata, quasi dimenticata. E si preferisce spostare solo sul passato il compito di dirci che cosa debba essere il futuro. Ma per “primerear”, per prendere l’iniziativa, il passato non basta mai.

Sebbene questo “stile” abbia singolari caratteri di novità negli ultimi 40 anni, riposa però su evidenze che la tradizione ha già elaborato e su cui, in modo sorprendente, ha saputo “prendere l’iniziativa” in forma molto efficace. Vorrei per questo considerare un testo del Concilio di Trento dal quale si può desumere una soluzione delle questioni molto diversa da quella che oggi proponiamo in generale, e nel caso specifico del diaconato femminile.

Comunione e potere della Chiesa

Come è noto, il Concilio di Trento ha affrontato con molta larghezza il tema del confronto con il protestantesimo in tema di eucaristia. In una delle Sessioni, la XXI, nel 1562, ha risolto il nodo della relazione tra “comunione sotto le due specie” e “comunione sotto una sola specie” invocando un principio generale che merita di essere riletto e considerato con cura: ecco il testo tratto dal Decreto della XXI sessione:

Il potere della chiesa circa la distribuzione del sacramento dell’eucaristia

“Il concilio dichiara, inoltre, che la chiesa ha sempre avuto il potere di stabilire e mutare nella distribuzione dei sacramenti, salva la loro sostanza, quegli elementi che ritenesse di maggiore utilità per chi li riceve o per la venerazione degli stessi sacramenti, a seconda delle circostanze, dei tempi e dei luoghi.

Cosa che l’apostolo sembra accennare chiaramente, quando dice: La gente ci ritenga servi di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio. (1 Cor 4,1 )

Ed è abbastanza noto che egli stesso si è servito di questo potere, sia in molte altre circostanze ( At 16,3At 21,26-27 ) che in relazione a questo stesso sacramento, quando, date alcune disposizioni circa l’uso di esso: Il resto, dice, lo disporrò quando verrò. ( 1 Cor 11,34 )

Perciò la santa madre chiesa, consapevole di questo suo potere nell’amministrazione dei sacramenti, anche se all’inizio della religione cristiana l’uso delle due specie non era stato infrequente, col progredire del tempo, tuttavia, mutato in larghissima parte della chiesa quell’uso, spinta da gravi e giusti motivi, approvò la consuetudine di dare la comunione solo sotto una sola specie e credette bene farne una legge, che non è lecito riprovare o cambiare a proprio capriccio, senza l’autorità della stessa chiesa”1.

Questo testo propone una ricostruzione della tradizione in cui la limitazione del potere della Chiesa riguarda la “sostanza dei sacramenti”, mentre la Chiesa “ha sempre avuto” un potere di “adattamento” e di “aggiornamento” che viene così determinato: “il potere di stabilire e mutare nella distribuzione dei sacramenti, salva la loro sostanza, quegli elementi che ritenesse di maggiore utilità per chi li riceve o per la venerazione degli stessi sacramenti, a seconda delle circostanze, dei tempi e dei luoghi”. La “sacramentorum dispensatio” può conoscere un mutamento che è legato a due criteri fondamentali:

– la utilità di chi li riceve

– la venerazione dello stesso sacramento

e ciò può mutare “a seconda delle circostanze, dei tempi e dei luoghi” (pro rerum temporum et locorum varietate).

Per giustificare la possibilità di “mutare” la prassi ecclesiale, così come era avvenuto con l’affermarsi della “comunione sotto una sola specie”, che sembrerebbe contraddire le parole di Gesù che chiede di mangiare del pane e di bere del vino, la Chiesa assume su di sé la responsabilità di una potestà, che muta la prassi ecclesiale – almeno per i laici – e la mantiene solo per coloro che presiedono la celebrazione, lasciando immutata la “sostanza del sacramento”.

A questo principio, affermato dal Concilio di Trento, dovremmo aggiungere la prosecuzione di esso nel Concilio Vaticano II, che fa della autorità ecclesiale, che muta il “rivestimento” della sostanza della antica dottrina del depositum fidei, il cuore stesso della sua “indole pastorale”. Il passo in avanti consiste qui nel fatto che il mutare non è soltanto una possibilità di esercizio della autorità ecclesiale, ma anche una esigenza che sorge dal depositum fidei stesso, che esige di essere comunicato secondo le circostanze mutate, i diversi tempi e i diversi luoghi. La acquisizione della differenza storica e geografica della evangelizzazione diventa principio di identità ecclesiale.

La diversità della domanda sulla comunione e sul ministero femminile

Il caso del “ministero femminile” sembra rientrare facilmente in questo ragionamento tridentino ripreso e ampliato dal Concilio Vaticano II. La Chiesa, cioè, non solo può, ma deve tener conto del mutare delle circostanze, dei tempi e dei luoghi. La Chiesa tridentina, pur confrontandosi duramente con una grande novità come la contestazione luterana e protestante, che chiedeva di tornare all’originaria forma della comunione, non recedeva dalla possibilità di “mutare la tradizione”, recependo la autorevolezza delle circostanze, dei luoghi e dei tempi. Dunque un primo guadagno importante, grazie al contributo de testo tridentino, è il superamento del pregiudizio secondo cui “assumere circostanze, tempi e luoghi”, nella loro variazione, sia un “cedimento allo spirito del mondo. Piuttosto fa parte della costitutiva tradizione della Chiesa aprirsi alla novità e recepirla adeguatamente.

Vi è, però, un secondo livello di obiezione alla praticabilità di questa argomentazione. E’ facile infatti considerare che la espressione “sostanza del sacramento”, che delimita il campo della variazione storica, si adatti molto bene alla tradizione eucaristica, ma sia più complessa e accidentata quando si tratta del sacramento dell’ordine. Il modo di pensare la “ordinazione” infatti, storicamente, è avvenuta piuttosto con le categorie della “validità/impedimenti” che non mediante le categorie di “sostanza/uso”. Qui usiamo una analogia che non è lineare e che deve essere attentamente controllata.

Questa diversità ha subito una certa accelerazione nell’ultimo secolo, a partire dal sorgere del Codice di Diritto Canonico nel 1917, che ha formalizzato una definizione della ordinazione, in cui il “vir” – dunque il sesso maschile – diventa “requisito sostanziale per la esistenza del sacramento”. Pur nella somiglianza del risultato, altra cosa è pensare la ordinazione come un procedimento ecclesiale che ha nel “sesso femminile” un impedimento, come faceva la tradizione medievale e moderna; altra cose è pensare la ordinazione come un fenomeno che abbia, originariamente, il sesso maschile come criterio sostanziale di esistenza2.

Se provassimo a tradurre, sul piano del ministero, il ragionamento tridentino sulla comunione, potremmo dire così: salva la sostanza del sacramento, che è la vocazione e il servizio diaconale di un soggetto battezzato, cresimato e in comunione, circa il diaconato permanente, come forma rinnovata del primo grado del ministero, può esservi una dispensatio sacramenti “nella forma unius sexus” oppure “nella forma utriusque sexus”. Pensare che l’uso del sacramento possa avvenire in una declinazione solo maschile, oppure maschile e femminile, lascerebbe immutata la sua sostanza, permettendo alla Chiesa, e alle singole Chiese, l’esercizio della autorità di adottare per il diaconato permanente una sola o entrambe le soluzioni, Ciò, ovviamente, dovrebbe essere trattato con grande cautela, ma avrebbe, quanto al come, un precedente storico chiaro. La analogia permetterebbe di giustificare la continuità della tradizione nel mutamento della prassi.

Ma questa cautela, oltre che dalla differenza del sacramento dell’ordine rispetto al sacramento dell’eucaristia, discende anche dal modo con cui la tradizione ha argomentato intorno alla ragione dell’impedimentum sexus: esemplare è, da questo punto di vista, il nitido argomentare tomista, che radica la “necessitas sacramenti” dell’impedimento sessuale nella “assenza di eminenza di autorità della donna”, una differenza che Tommaso giustifica creaturalmente, antropologicamente, naturalmente, biologicamente, fisologicamente. La radice della esclusione non è dogmatica, ma culturale. Per Tommaso il criterio di giustificazione dell’impedimento di ordinazione della donna trova il suo fondamento in un “ordine sociale strutturalmente inaequalis” che induce anche una rilettura biologica e antropologica “sbilanciata”. E’ legittimo chiedersi se, nel momento in cui le circostanze dei tempi, almeno in alcuni luoghi della esperienza ecclesiale, hanno elaborato un modello diverso di cultura, di società, di biologia e di fisiologia, non sia possibile far accedere anche le donne all’esercizio della autorità ecclesiale, introducendole nell’ambito del ministero ordinato, al grado del diaconato, su cui i pronunciamenti recenti non dicono nulla.

Una seconda differenza: la parola e il silenzio 

Vi è poi una seconda distinzione su cui occorre meditare: la potestà che la Chiesa si è riconosciuta a Trento, sulla prassi eucaristica, aveva a che fare con una esplicita parola di Gesù, che nei sinottici e in Giovanni, ma anche indirettamente nelle attestazioni paoline, si riferisce alla comunione come ad una azione “col pane e con il calice”, come un “mangiate e bevete”. Anche di fronte ad una parola esplicita di Gesù, grazie ad una serie di distinzioni sistematiche, la Chiesa ha potuto riconoscersi fedele al suo Signore, pur nella variazione rispetto alle sue parole letterali: essa infatti, distinguendo tra sostanza e uso, poi distinguendo tra chierici e laici, proprio mediante la elaborazione di queste due distinzioni, ha potuto garantire il permanere della tradizione intatta solo nella prassi dei chierici “celebranti” (che consumano sempre e pane e vino) e ha potuto giustificare la semplificazione della prassi per i laici (che si limitano al pane), in vista di un beneficio che era ritenuto di utilità soggettiva e di venerazione oggettiva. Questo non ha impedito, poi, al Concilio Vaticano II, di recuperare, invece, la pienezza del segno come criterio diverso di utilità soggettiva e di venerazione oggettiva.

Ora, è possibile chiedersi se, in modo analogo, non si possa considerare “a fortiori” abilitata la Chiesa ad un mutamento della prassi di ordinazione che si confronta con una tradizione che:

– non è fondata su una parola esplicita di Gesù, che non ha detto nulla sul tema del ministero femminile;

– è radicata in una prassi che ha giustificato la esclusione della donna con argomenti troppo deboli o addirittura irripetibili;

– può generare un beneficio soggettivo per le donne battezzate e un beneficio oggettivo per una autorevolezza più ampia, più articolata e più capillare del sacramento.

Una elaborazione di questa differenza potrebbe essere assai feconda. Sia perché il silenzio di Gesù non può essere elaborato con argomentazioni troppo congetturali. Non si può dire, ad es.: “se Gesù avesse voluto ordinare le donne, lo avrebbe fatto. Se non lo ha fatto è perché lo ha escluso”. L’argomento, nella sua struttura logica, si può capovolgere facilmente: “Se Gesù avesse voluto escludere le donne dalla ordinazione lo avrebbe detto. Se non lo ha detto, significa che non le ha escluse”3. In altri termini, il silenzio sul tema della ordinazione apre la Chiesa ad un ambito di esercizio della potestà, che non può essere negato sulla base di una formulazione giuridica del 1917, che introduce il sesso maschile nella “sostanza” del sacramento dell’ordine.

In questa svolta recentissima, le ragioni del passaggio dalla logica dell’impedimento, alla logica della sostanza, sono molteplici. Tra di esse si può sicuramente trovare una nuova interpretazione della “potestas ecclesiae”, limitata all’interno delle leggi vigenti. E’ una tipica rappresentazione tardo-moderna, influenzata profondamente dal Codice Napoleone e dalla sua concezione della legge e del potere. Il recupero di una proposizione tridentina, con la sua antichità e nella sua differenza rispetto ai linguaggi dell’ultimo secolo, può contribuire a guardare all’esercizio della autorità ecclesiale come ad un atto che, fondato sulla tradizione, sa che il mutare delle circostanze, dei tempi e dei luoghi permette di configurare mutamenti in cui non è in gioco la sostanza del sacramento. Servire da diaconi permanenti la Chiesa di Cristo non sembra esigere, come requisito sostanziale, il sesso maschile, cosa che può essere confermata anche da Inter Insigniores e da Ordinatio sacerdotalis: come si ricorda in sede giuridica il can. 1024 parla in generale di “sacra ordinazione” del maschio battezzato, ma la Sacra Congregazione per la dottrina della fede, nella dichiarazione Inter insigniores del 15 ottobre 1976, approvata da Paolo VI, ha precisato che per diritto divino il requisito del sesso maschile non riguarda tutti i gradi dell’ordine, ma segnatamente il presbiterato e l’episcopato. Questa affermazione, che non ha nulla di sorprendente, può essere giustificata se si evita di dogmatizzare il sesso maschile come “sostanza del sacramento dell’ordine” e si recupera una più elastica logica degli “impedimenti”, sottoponendola però alla critica accurata dovuta al mutare delle circostanze, dei tempi e dei luoghi. E’ sufficiente essere fedelmente tridentini per scoprire nuove possibilità per la tradizione ministeriale. Infatti nella società aperta l’impedimentum sexus subisce una profonda trasformazione, al punto da avere, come impedimentum, solo due alternative: o si dogmatizza o sparisce. Il sesso femminile, pensato nel ministero ecclesiale non più come impedimento, ma come risorsa, è il segno del sorgere di un mondo nuovo, che ecclesialmente dobbiamo ancora iniziare a comprendere e ad amministrare.

 

1 Ecco il testo latino: “Praeterea declarat hanc potestatem perpetuo in Ecclesia fuisse ut in sacramentorum dispensatione salva illorum substantia ea statueret vel mutaret quae suscipientium utilitati seu ipsorum sacramentorum venerationi pro rerum temporum et locorum varietate magis expedire iudicaret. Id autem apostolus non obscure visus est innuisse cum ait: sic nos existimet homo ut ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei; atque ipsum quidem hac potestate usum esse satis constat cum in multis aliis tum in hoc ipso sacramento cum ordinatis nonnullis circa eius usum: cetera inquit cum venero disponam. Quare agnoscens sancta mater Ecclesia hanc suam in administratione sacramentorum auctoritatem licet ab initio christianae religionis non infrequens utriusque speciei usus fuisset tamen progressu temporis latissime iam mutata illa consuetudine gravibus et iustis causis adducta hanc consuetudinem sub altera specie communicandi approbavit et pro lege habendam decrevit quam reprobare aut sine ipsius Ecclesiae auctoritate pro libito mutare non licet”.

2Come riconosce un autore di diritto canonico, le fonti della definizione del codice del 17 e dell’83 sono tutte del XX secolo: “La costante prassi della Chiesa è sempre stata quella di ammettere al presbiterato unicamente persone di sesso maschile. Se ci si riferisce alla fonti relative ai cann. 968 § 1 CIC/17 e 1024 CIC/83 si può comprendere come l’attenzione relativa all’ordinazione dei soli maschi sia una problematica che potremmo definire “moderna”, se non addirittura contemporanea, poiché i pronunciamenti ufficiali sull’argomento emergono solo a partire dal XX secolo. Questa considerazione è di per sé sufficiente per affermare che ci si trova dinanzi ad uno sviluppo armonico dell’istituto in oggetto, dove per millenni non si è messa in dubbio una prassi che non si è contraddetta lungo i secoli. Ciò è ulteriormente avvalorato dal fatto che anche la prassi della Chiesa orientale coincide con quella dell’occidente” (P. Giorgio Degiorgi, Le condizioni soggettive per la valida ordinazione. Prima parte, “Universitas Canonica”, 2/48(2015), 103-188, qui 114.

3L’altro argomento del “sesso maschile” di Gesù, che imporrebbe una coerenza di sesso maschile del ministro, dovrebbe confrontarsi con l’argomento della “maschilità circoncisa di Gesù”, che già la seconda generazione, dal Concilio di Gerusalemme, elabora in modo diverso. Una “imitazione di Gesù” come identità fisica sembra un filone non particolarmente forte e autorevole della tradizione.

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