Francesco è papa: presentimento e risentimento


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Francesco è papa: presentimento e risentimento

 

Su “Vatican Insider”, a firma di Andrea Tornielli, abbiamo letto, il 7 aprile, la notizia che qui riporto integralmente.

 

Müller suggerisce un nuovo compito per la Dottrina della fede

Il cardinale Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, in una delle numerose interviste concesse nelle ultime settimane e focalizzate sul prossimo Sinodo, ha parlato di un nuovo compito del suo dicastero. Un compito che non è stato mai citato nei documenti che riguardano le precise competenze dell’ex Sant’Uffizio. Il porporato tedesco, intervistato da «La Croix», ha infatti dichiarato: «L’arrivo sulla Cattedra di Pietro di un teologo come Benedetto XVI è probabilmente un’eccezione. Anche Giovanni XXIII non era un teologo di professione. Papa Francesco è anche più pastorale e la Congregazione per la Dottrina della Fede ha una missione di una strutturazione teologica di un pontificato». Dunque, da quanto dichiara Müller, l’ex Sant’Uffizio deve «strutturare teologicamente» il pontificato di Papa Francesco. Ed è probabilmente per questo motivo che il Prefetto interviene così spesso pubblicamente, come mai è accaduto prima. Si tratta di una significativa novità, dato che secondo l’articolo 48 della Costituzione apostolica sulla Curia Romana «Pastor bonus», promulgata da Giovanni Paolo II nel 1988, «compito proprio della Congregazione per la dottrina della fede è di promuovere e di tutelare la dottrina della fede e i costumi in tutto l’orbe cattolico». Mentre il Papa «per volontà di Cristo stesso», come ha ricordato in chiusura del Sinodo 2014 anche Francesco, è il «Pastore e Dottore supremo di tutti i fedeli» (canone 749). Fino a pochi decenni fa (l’ultimo a farlo è stato Paolo VI) era lo stesso Pontefice a presiedere in prima persona la Congregazione per la dottrina della fede, proprio in ragione di questo compito che solo a lui compete in virtù del primato petrino. Un primato che appartiene al vescovo di Roma, quello di presiedere «nella carità», dirimendo anche, nel caso sorgessero, questioni teologiche. Le parole del cardinale Müller, con l’introduzione dell’inedito e fino a oggi non ancora formalizzato compito di «strutturare teologicamente un pontificato», sono passate quasi inosservate. Se da un lato aprono scenari dottrinali nuovi rispetto alla tradizione della Chiesa, dall’altra sembrerebbero lasciar intendere che, secondo Müller, l’attuale pontificato – come peraltro anche quello di san Giovanni XXIII – non abbia sufficiente «struttura» teologica.

 

Di fronte a queste parole, che lasciano a dir poco sconcertati, occorre brevemente soffermarsi sulla valutazione del “fenomeno Francesco” da due angolature diverse, che illustrano in modo molto istruttivo il percorso che la coscienza ecclesiale ha attraversato negli ultimi due anni.

 

Il presentimento ecclesiale

Circa un anno fa, al primo anniversario dalla elezione del nuovo papa, Marciano Vidal, in una bella intervistarilasciata aF. Strazzari e L.Prezzi, pubblicata con il titolo “La morale: dalla scolastica ai poveri” (“Settimana, 6[2014], 8-10) , faceva queste illuminanti osservazioni:

Solo persone molto ottimiste, e dotate di un grado piuttosto elevato di ingenuità, potrebbero dire che si prospettava la rinuncia di Benedetto XVI. Quanto all’elezione del card. Bergoglio a papa, poteva essere prevista da analisti sagaci che conoscessero quanto accaduto nel conclave precedente, nel quale venne eletto papa il card. Ratzinger, e avessero preso nota degli orientamenti apparsi nelle discussioni cardinalizie previe all’ultimo conclave. Però sono convinto che nemmeno questi esperti analisti siano giunti a prevedere il terremoto nel sentire ecclesiale causato dalla prima presentazione di papa Francesco sul balcone spalancato verso Piazza San Pietro: abbandono di alcuni specifici abbigliamenti di identificazione papale, invito alla preghiera comune. Sicuramente non hanno previsto quanto successo in seguito. 

Ciò nonostante, se il fenomeno Francesco ha avuto un significato così ampio, è perché questo significato è stato riconosciuto. E, se è stato riconosciuto, è perché, in gran parte, era sperato, perché era pre-sentito. Non voglio fare giochi di parole. Voglio individuare una chiave di lettura per comprendere il fenomeno Francesco nell’attuale momento ecclesiale. E’ la maturità ecclesiale che spiega in gran parte questo fenomeno. Il modo di realizzare il ministero petrino da parte di papa Francesco non va controcorrente né ha bisogno di venire giustificato o spiegato. E’ qualcosa che si desiderava e che da parte di un buon numero, si attendeva.

C’è anche una generazione piuttosto ampia di cattolici che erano stati toccati dalla illusione di Giovanni XXIII e dalla profonda esperienza ecclesiale (teologica, liturgica, spirituale, pastorale) del concilio Vaticano II. Quello che vedono in papa Francesco sembra loro la realizzazione, naturalmente in forma aggiornata, di quel sogno primaverile degli anni ’60 del XX secolo. Ritengo che papa Francesco sia il frutto maturo del concilio Vaticano II. Lo vedo maturo perché dà per acquisito quello spirito e non si sente in obbligo di giustificare la sua attuazione ricorrendo a specifici testi conciliari. Quanti oggi benedicono Dio per il modo di agire del papa sono i continuatori di quella cosiddetta maggioranza conciliare che, dalla prima sessione conciliare del 1962, cominciarono a intravedere qualcosa di nuovo. Non voglio pensare che la dura e potente minoranza conciliare di allora trovi il suo parallelo nei settori cattolici (e non cattolici) critici davanti a certi gesti (per esempio, lavari i piedi a una donna, per di più musulmana, durante il rito del giovedì santo) e davanti ad alcune espressioni (“Chi sono io per giudicare!”) del nuovo papa.
E’ trascorso molto tempo fra le speranze suscitate dal Vaticano II e il loro compimento. Questo è, almeno, quello che sembra a molti di noi che, ai tempi del concilio, avevano fra i 25 e i 30 anni. Per molti di questi, i tempi del dopo concilio sono stati tempi inclementi e di gelo – lo annunciò il grande teologo Karl Rahner -. La corda che impediva il rinnovamento veniva stringendosi sempre di più attorno a teologi, pastoralisti, comunità di base. La corda era stata tirata troppo. Vi erano indizi che la situazione era insopportabile. Proprio per questo, il fenomeno papa Francesco, senza poter essere del tutto prevedibile, era senz’altro desiderato e pre-sentito. E’ stato visto e accettato, da una parte, come una liberazione e, dall’altra, come la realizzazione di una promessa.”

Provenendo da un uomo nato nel 1937, che ha dedicato tutta la sua vita alla fede e alla teologia, questo bilancio del primo anno di papa Francesco assumeva allora un significato del tutto singolare. Anzitutto si doveva notare la bella intuizione di riferire il “fenomeno Francesco” a un presentimento ecclesiale, ossia alla speranza e al desiderio di una Chiesa matura, figlia della grande stagione conciliare di 50 anni fa. Il primo papa figlio del Concilio” non era soltanto il frutto dello Spirito Santo, che con libertà sovrana orienta e guida la vita dei fedeli, ma anche figlio di una Chiesa che non dimenticava la irreversibilità di grazia della propria storia. Mi sembra che, a quasi un anno dalla sua elezione, papa Francesco potesse essere giustamente compreso come questa sorpresa e come questa conferma.

Per lo stesso motivo una seconda ragione, espressa allora da Vidal, mi pare debba essere sottolineata: papa Francesco non aveva bisogno di giustificare se stesso, nella sua novità, ma poteva semplicemente essere figlio di una Chiesa che, 50 anni prima, aveva conosciuto la possibilità di un rinnovamento e di un aggiornamento, di una riforma e di una primavera, che ora essa può riconoscere facilmente nelle parole e nelle opere, nelle azioni e nelle omissioni del nuovo Vescovo di Roma. La prassi semplice con cui Francesco incomincia le sue giornate – concelebrando l’eucaristia e tenendo sempre l’omelia – sono, sul piano liturgico, le più evidenti conferme di questa normalità sorprendente”.
Restava, evidentemente, la questione forse decisiva: se è stata anche la maturità ecclesiale a poter riconoscere in Francesco il proprio papa, saprà, questa stessa Chiesa, non deludere Francesco nel suo slancio gioioso e benedicente, nel suo desiderio ardente di aprire porte e finestre, di uscire dalla autoreferenzialità, di correre alle periferie? Saprà la Chiesa, che ha riconosciuto in Francesco il papa che attendeva e che aveva a suo modo preparato, farsi riconoscere da Francesco come quel “campo profughi” nel quale la misericordia di Dio si rende accessibile ad ogni donna e ad ogni uomo?

Il risentimento curiale

A distanza di un altro anno da quel fatidico 13 marzo appaiono come segni evidenti – accanto ai presentimenti confermati dal sentimento diffuso di gratitudine e dal “sensus ecclesiae” meravigliato e stupito dalla efficacia del nuovo pastore – le resistenze, le chiusure, le opposizioni, che arrivano ad assumere la forma di un vero e proprio “risentimento”. Esso può esprimersi nella forma di un non dissimulato “disagio” di fronte ad una potente “profezia dall’alto”: il singolo cristiano, il presbitero, anche il vescovo, si trovano continuamente scavalcati da quel “prendere l”iniziativa” di un Vescovo di Roma che non si lascia inscatolare in nessuna logica statica. Ma tale risentimenti può esprimersi anche semplicemente in una “lettura superficiale” del fenomeno: ossia attraverso una imbarazzata svalutazione del linguaggio e dei contenuti di papa Francesco, considerati come troppo “semplici” o “semplicistici” addirittura, senza riuscire minimamente a riconoscere che, invece, la qualità “diversa” del linguaggio e dei gesti di Francesco risulta più complessa e più ricca, più profonda e più sorprendente della “ordinaria amministrazione” episcopale e presbiterale.

Tuttavia, finora, nessuno aveva ancora teorizzato, dal centro stesso della Curia romana, una esigenza di “normalizzazione del pontificato”, così come appare dalle citate parole del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Credo che qui si debba costatare con preoccupazione che questo appare, fino ad ora, il più sostanziale fraintendimento – nello stesso tempo – dei pontificati di Giovanni XXIII e di Francesco, curiosamente unificati dalla caratteristica di avere “scarsa struttura teologica”. Ciò che costituisce un obiettivo incremento della dottrina ecclesiale e della profezia evangelica degli ultimi 60 anni viene letto, proprio dal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, come “mancanza di struttura teologica”.

Questo giudizio, così ingiusto e distorto, pone un serio problema ecclesiale, che non può essere aggirato. Non è certo la prima volta che si crea una tensione tra Prefetto del S. Ufficio e Vescovo di Roma. Pensiamo a che cosa era accaduto molti anni fa tra Ottaviani e Paolo VI, più di recente tra Ratzinger e Giovanni Paolo II. Ma mai nessuno aveva nemmeno lontanamente voluto teorizzare che la Congregazione del S. Ufficio dovesse “dare struttura teologica” ad un pontificato.

Il “presentimento” che ha permesso di riconoscere di colpo Francesco come papa evidentemente non è ancora entrato in alcuni “sacri palazzi”, che risultano così privi di “presentimento” da arrivare a teorizzare una Congregazione per la Dottrina della Fede che garantisca una “continuità dottrinale” a scapito della profezia e della parresia di un pontefice. Le forme con cui l’assenza di presentimento sa capovolgersi in amaro risentimento hanno ormai superato la soglia di guardia. Fino a configurare, in modo tutt’altro che nascosto, una strutturale incomprensione del pontificato di Francesco da parte di alti responsabili della Curia romana. E dobbiamo chiederci: può il pontificato di Francesco – insieme a quello di Giovanni XXIII – subire un così grave fraintendimento proprio dall’organo che dovrebbe servirlo con maggiore zelo? E può il Prefetto di una Congregazione, che rivendichi questa autonomia dal Vescovo di Roma, avere la pretesa di parlare a nome non dico della Chiesa o della Curia Romana, ma della stessa Congregazione che presiede? Credo che la Riforma della Curia dovrà occuparsi con urgenza di questo clamoroso fraintendimento. La maturità ecclesiale, che ha permesso di riconoscere Francesco come papa fin dalle prime sue parole, deve poter avere accesso anche ai sacri palazzi. E si ha la sensazione che molti toni e molti temi del Vaticano II suonerebbero, in quelle stanze, come parole del tutto nuove.

Il presentimento che riconosce subito Francesco come papa è figlio del Vaticano II, mentre il risentimento verso di lui sembra proprio il frutto di una strutturale estraneità al Vaticano II. A questa “strutturale estraneità al Vaticano II (et quidem a Francesco)” che abita la Curia romana deve essere posto rimedio. Soprattutto a motivo del fatto che la Congregazione per la dottrina della fede non ha affatto il compito di imporre una vecchia struttura teologica al pontificato di Giovanni XXIII o di Francesco, ma deve piuttosto imparare e servire una nuova struttura teologica, che da Giovanni XXIII a Francesco ha saputo riformare la vita e l’ azione ecclesiale. E deve farlo con giusto presentimento ecclesiale e senza alcun risentimento curiale.

 

( Questo post è stato ripreso su “Settimana” 15/2015, pp. 8-9 con questa titolazione: In margine ad una intervista del card. Gerhard Ludwig Müller. Il cupolone e il sant’Uffizio. Per il Prefetto al Congregazione della dottrina della fede sarebbe chiamata a dare «strutturazione teologica di un pontificato». Per la costituzione apostolica Pastor bonus la curia è «uno strumento nelle mani del papa, talché essa non ha alcuna autorità né alcun potere all’infuori di quelli che riceve dal supremo pastore» (EV 11/808). La differenza fra aiuto e condizionamento. Un dibattito delicato e necessario)

 

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