Il trauma e la nostalgia: continuità tra prefetto, papa ed emerito
Considerevole valore deve essere attribuito a questo testo di J. Ratzinger, che interviene – dal silenzio interrotto del suo ritiro – sul tema degli abusi. Tema che con la sua attualità ha espressamente sollecitato il Vescovo emerito di Roma a prendere la parola. Dicevo “testo considerevole” perché permette di apprezzare, in una forma del tutto convincente, una grande continuità tra il pensiero dell’attuale “emerito”, quello di papa Benedetto XVI, ma anche quello del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Anzi, si potrebbe estendere la continuità fino all’Arcivescovo di Monaco: più di 40 anni appaiono segnati da una lettura traumatizzata e traumatica della svolta conciliare e del 68, come causa di tutti i mali della Chiesa, abusi compresi.
Già altrove, e non molto tempo fa, avevo richiamato la attenzione sulla lettura “apocalittica” con cui J. Ratzinger aveva presentato, nella sua autobiografia, agli inizi degli anni 80, la vicenda conciliare come una vera “tragedia” per la Chiesa. Ma in questo giudizio parlava in lui, già allora, più un pregiudizio che un giudizio. Egli scambiava, con troppa facilità, l’effetto con la causa e la causa con l’effetto. Come allora, anche oggi, il cambiamento teologico e pastorale che inizia con il Concilio, non viene letto come la “risposta ad una crisi”, ma come “la causa della crisi”. Si idealizza il preconcilio e così si fa violenza al Concilio. Se la riforma della liturgia, dei seminari, della teologia morale viene interpretata in questo modo unilaterale e viscerale, è inevitabile, oggi ancor più di 40 anni fa, che la diagnosi inclini alla “nostalgia per il bel tempo che fu”. Questo non è un ragionamento teologico, bensì un attaccamento del sentimento, una nostalgia del cuore.
Alcuni lampi del testo illuminano perfettamente questo orizzonte, in modo assai unilaterale:
– si lamenta che negli anni 80 i testi di Ratzinger fossero “censurati” in alcuni seminari. Ma non si ricorda che, 50 anni prima, erano i testi di Agostino o di Ambrogio a subire la stessa sorte;
– si dipinge la storia della teologia morale post-conciliare come se alla deriva resistesse solo “Veritatis splendor”, senza nulla dire della unilateralità con cui questo testo ha dovuto attendere “Amoris Laetitia” per essere finalmente ridimensionato nella sua pretesa fondamentalistica in campo morale;
– si ricorda la domanda di “massimi di pena più alti” contro i colpevoli di pedofilia, addebitando al “garantismo conciliare” quasi la protezione dei pedofili. Ma non si tiene conto che le riforme del diritto penale non si fanno alzando i massimi, ma i minimi della pena.
– si punta lo sguardo contro l’abuso, come se fosse una lotta tra la tutela dell’accusato e la tutela della fede. Ma non entra nello sguardo del testo quel soggetto decisivo che è la vittima dell’abuso e che esige dalla Chiesa una lettura non autoreferenziale della questione.
Diversi sono i passaggi del testo in cui la ricostruzione storica dei 30 anni post-conciliari diventa una caricatura, soggettivamente significativa, ma oggettivamente insostenibile. Il testo apocalittico conclusivo riprende una immagine che avevamo già ascoltato, la sera della commemorazione del 50esimo del Discorso della luna di papa Giovanni XXIII. In quella occasione, l’11 ottobre 2012, la “festa per il Concilio” si era trasformata in uno sfogo quasi disperato e aveva raggelato la piazza sottostante,. E al posto del Concilio era apparsa la barca della Chiesa ostacolata dai venti contrari, i pesci cattivi nella rete, la zizzania che cresce nel campo…Nulla oggi è cambiato da quella sera. Un papa che non capisce più il Concilio, di cui è stato un padre, può solo fare una cosa: prendere congedo. E lasciare la parola ad un figlio del Concilio. Essere riuscito in questo atto di servizio e di umiltà riscatta in lui ogni possibile mancanza, precedente o successiva. Per questo J. Ratzinger può anche concludere questa parola di disperazione ringraziando il suo successore, che ha riacceso la speranza. Il testo che ci ha consegnato in questa occasione da un lato rende ancora più grande il gesto profetico di 6 anni fa, ma dall’altro ci fa capire fino in fondo in quali meandri del risentimento e della nostalgia avremmo potuto cadere, se mai non lo avesse fatto.
Gent.mo dott. prof. Grillo,
mi perdonerà, ma trovo invece illuminanti queste parole di Ratzinger, degna risposta ai precedenti post sulle “cerimonie ecumeniche”:
“Ma largamente dominante è un altro atteggiamento: non domina un nuovo profondo rispetto di fronte alla presenza della morte e risurrezio ne di Cristo, ma un modo di trattare con lui che distrugge la grandezza del mistero. La calante partecipazione alla celebrazione domenicale dell’Eucaristia mostra quanto poco noi cristiani di oggi siamo in grado di valutare la grandezza del dono che consiste nella Sua presenza reale. L’Eucaristia è declassata a gesto cerimoniale quando si considera ovvio che le buone maniere esigano che sia distribuita a tutti gli invitati a ra gione della loro appartenenza al parentado, in occasione di feste familia ri o eventi come matrimoni e funerali. L’ovvietà con la quale in alcuni luoghi i presenti, semplicemente perché tali, ricevono il Santissimo Sacramento mostra come nella Comunione si veda ormai solo un gesto cerimoniale. Se riflettiamo sul da farsi, è chiaro che non abbiamo bisogno di un’altra Chiesa inventata da noi. Quel che è necessario è invece il rinnovamento della fede nella realtà di Gesù Cristo donata a noi nel Sacramento”.
Non ho nulla da aggiungere; le prevedibilmente acide reazioni sono proprio la cartina al tornasole che le parole del papa emerito hanno colpito il segno giusto.
Ratzinger si conferma un grande, capace di insperate sorprese. Il resto è davvero, se permette, noia, come molta parte del ritualismo attuale: eucarestie (e minuscola) dove si adora, con la scusa di un pezzo di pane e di un bicchiere di vino, l’uomo che vuole salvarsi da solo, sostituendosi a Dio.
Grazie comunque per questo spazio di confronto,
Matteo Benedetti
Gent.mo dott. prof. Grillo,
trovo che questo passaggio sia direttamente indirizzato a teologi come lei.
“Di fronte all’estensione delle colpe di pedofilia, viene in mente una parola di Gesù che dice: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare» (Mc 9,42). Nel suo significato originario questa parola non parla dell’adescamento di bambini a scopo sessuale. Il termine «i piccoli» nel linguaggio di Gesù designa i credenti semplici, che potrebbero essere scossi nella loro fede dalla superbia intellettuale di quelli che si credono intelligenti. Gesù qui allora protegge il bene della fede con una perentoria minaccia di pena per coloro che le recano offesa.”
BXVI
Se io ho offeso la fede, lei dovrebbe dirmi dove e come. Se invece non lo sa, perché dovrebbe pensare che quel testo sia rivolto proprio contro di me?
Ringrazio il Signore per le parole di verità del papa emerito Benedetto XVI. Come ringrazio, di cuore, per l’intervento pieno di cuore e di vera ecclesialità di mons. Robert Baker, vescovo di Birmingham, in Alabama. Qui si respira la Fede Cattolica, l’Intercessione, il richiamo alla conversione personale. Prima si respirava solo la volontà di denuncia, di giustizialismo. Riguardo poi all’intervento di Andrea Grillo: non vedo riflessione, ragionamento, ma solo volontà di selezione. Questo è prima di, questo è dopo di, questo è pre-conciliare, questo è post-conciliare: selezione della razza! Nulla di vero approfondimento, di ragionamento, di confronto. In un pieno stile farisaico. Che tristezza!
p. Agostino Milesi
Caro P. Agostino, la accusa di razzismo, tra le tante che mi vengono rivolte, è la prima volta che appare. Può vantare lei ora questo primato. Credo che i pregiudizi non riguardino però anzitutto il giudizio su di me, che è poco importante, ma quello sulla fede cristiana e cattolica, che mi pare poco sereno. Ciononostante, nel dialogo, credo che diventiamo migliori.