Intelligenza del sacrificio come “sacrificium intellectus”? Una risposta a Valli/Sarah


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In un recente post sul suo blog, A.M.Valli riprende con ampiezza le parole di un articolo del Card. Sarah a proposito del senso dell'”intelligere” in Sacrosanctum Concilium. E’ una buona occasione per “comprendere” ciò che in questi testi non viene affatto compreso, ma gravemente frainteso. Riproduco qui sotto il testo di Valli/Sarah, cui faccio seguire la mia risposta.

Per non “scappare dalla Croce”

Nell’originale latino della costituzione del Concilio Vaticano II Sacrosanctum Concilium, dedicata alla sacra liturgia (dicembre 1963)  il termine intellegere (comprensibilità) torna cinque volte, e sappiamo bene che nel nome della comprensibilità sono stati commessi molti abusi e ancora oggi ne avvengono di continuo. Ma il significato dell’espressione intellegere è illustrato molto bene quando nel testo (n. 34) si afferma che i riti, pur adattati alla capacità di comprensione dei fedeli, non devono aver bisogno di molte spiegazioni. L’importante è invece che essi «splendano per nobile semplicità».

Parte da qui la riflessione del cardinale Robert Sarah, prefetto per la Congregazione del culto divino e la disciplina dei sacramenti, proposta nel fascicolo di settembre del mensile Studi cattolici (p. 484) sotto il titolo Traduzioni liturgiche «comprensibili»?

Le virgolette attorno alla parola comprensibili fanno capire il problema posto dal cardinale. Che cosa significa, veramente, comprendere la liturgia? Il fatto di pronunciare i testi nella lingua usata dai fedeli risolve automaticamente la questione? E davvero occorre lavorare sulla liturgia per avvicinarla sempre di più alla mentalità delle persone che vi prendono parte?

La risposta, spiega Sarah, è naturalmente negativa. Noi possiamo tradurre tutto in lingua corrente, eppure la liturgia mantiene una sua complessità che, fra l’altro, dal Concilio in poi, è perfino aumentata rispetto alle capacità culturali e spirituali dei fedeli.

Se pensiamo, scrive Sarah, alla preghiera eucaristica, dobbiamo ammettere che il significato autentico, profondo, di molte affermazioni teologiche oggi rischia di sfuggirci in termini meramente umani e terreni, perché ci troviamo dentro un orizzonte di senso piuttosto lontano dalla cultura attuale.

Le domande del cardinale, a questo proposito, sono esplicite: «Chi capisce, oggi, il carattere espiatorio della morte di Cristo? E, per la stessa ragione, come possono essere intese espressioni del tipo “essere redenti col suo sangue”, “essere trasformati in offerta perenne”, “che la vittima di riconciliazione porti pace e salvezza”?».

Sono domande, scrive il cardinale, che si fanno più complicate di giorno in giorno, man mano che la nostra mentalità si allontana dalle forme concettuali all’interno delle quali questi aspetti centrali del mistero cristiano hanno trovato formulazione e sistemazione.

Tuttavia, spiega il cardinale, commettiamo un grave errore se, nel nome dell’intellegere,  pretendiamo di sottomettere completamente la liturgia alle esigenze della comprensione umana.

Secondo Sarah, non bisogna spaventarsi della complessità e non se ne deve fuggire usando scorciatoie formali e teologiche: è bene anzi che la liturgia mantenga una sua complessità, nel senso che al centro deve restare «il Mistero dell’amore infinito e misericordioso di Dio per gli uomini, consumato nel sacrificio pasquale di Cristo».

Il cardinale scrive la parola Mistero con l’iniziale maiuscola e in questo modo dice due cose: prima di tutto, il mistero resta tale, per cui, di fronte a esso, l’uomo di fede non può che provare stupore, meraviglia e gratitudine, senza pretendere di addomesticarlo, di tradurlo in termini semplici o perfino banali; in secondo luogo si tratta di un mistero grandissimo, incommensurabile, superiore a ogni nostra possibilità di comprensione, tale per cui non resta che adorare in silenzio, perché davvero ogni parola umana è insufficiente.

Di conseguenza è illusorio, spiega il cardinale, ritenere che basti tradurre i testi liturgici per renderli «comprensibili». Anzi, le traduzioni non devono comportare alcun danno al messaggio che traducono, che è e resta il messaggio del Vangelo. Inoltre, colui che traduce non deve interpretare, perché ogni tentativo di interpretazione compete al pastore, che ha proprio questo compito, e non al filologo o al liturgista.

Purtroppo, spiega il cardinale, dopo il Concilio abbiamo assistito allo sforzo di piegare la liturgia alle esigenze di comprensione e non, al contrario, allo sforzo di formare meglio e di più i fedeli, in modo tale da renderli sempre più consapevoli della profondità e della grandezza del mistero eucaristico. Si sono avute così le tante deformazioni nel segno della banalizzazione formale e del fraintendimento teologico, con l’uomo, e non Dio, sempre più al centro dell’azione liturgica.

Notevoli e chiare, a questo proposito, le parole di Sarah: «La liturgia non deve essere un “laboratorio” del nostro agire; non è un progetto per portare a termine una rivoluzione antropocentrica che sposti Dio dal centro dell’azione di culto».

Arrendersi dunque alla complessità? Non si tratta di arrendersi, ma di assumerla. Non si può semplificare tutto. Di fronte al mistero, in larga parte inafferrabile per la finitezza della mente umana, non c’è che un atteggiamento al quale abbandonarsi, «l’accoglienza mediante l’adorazione».

Tutto ciò significa che non bisogna fare nulla per facilitare la comprensione della liturgia da parte dei fedeli ma anche dei ministri?

Certamente no, ma la risposta è quella di prima: non si tratta di banalizzare la liturgia, piegandola alla mentalità del tempo o, addirittura, al «politicamente corretto». Si tratta invece di formare i fedeli, aiutandoli a raggiungere una maggiore consapevolezza di ciò che la liturgia è.

Un punto sta particolarmente a cuore al cardinale Sarah. Secondo una certa linea teologica, spiega, i testi liturgici trasmessi dalla tradizione, a causa dei loro contenuti, costituirebbero un ostacolo verso un’evangelizzazione efficace, per cui sarebbe il caso di modificarli. Stando a questa linea teologica, tutta la terminologia sacrificale, in particolare, offrirebbe «un’immagine di Dio non credibile per l’uomo attuale o, almeno, molto lontana dalla sua sensibilità».  Di qui l’idea di annacquare la dimensione sacrificale così da non provocare nell’uomo di oggi un allontanamento se non addirittura una ripulsa. Una preoccupazione da condividere?

Assolutamente no, risponde Sarah, che spiega: «A dire il vero, mi domando se queste categorie sacrificali, raccolte da tutto il magistero recente, siano realmente sfasate e debbano essere sostituite per rendere possibile l’evangelizzazione. Dobbiamo stare attenti, perché tutti possiamo subire la tentazione di pretendere di scappare dal sacrificio, dalla croce».

Particolarmente attuali sono le parole di papa Francesco pronunciate nella sua prima messa celebrata da vescovo di Roma (Cappella Sistina, 14 marzo 2013): «Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore».

Forte è la tentazione di ritenere che siamo noi ad amare Dio e non è lui ad amare noi, non è lui che ama per primo e che proprio per amore ha mandato suo figlio come vittima, in espiazione dei nostri peccati.  Tutte le espressioni sacrificali che si trovano nel messale, chiarisce Sarah, non impediscono l’evangelizzazione: ne sono anzi il fondamento.

Quindi, se è vero che sono legittimi i tentativi di rendere la liturgia più intellegibile senza snaturarla e impoverirla, è altrettanto vero, come disse Benedetto XVI (discorso ai parroci e al clero della diocesi di Roma, 14 febbraio 2013) che «solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità».

E per percorrere questa strada, conclude il cardinale Sarah, ci vuole tanta umiltà: «La liturgia si riceve nella Chiesa come un dono vivente che ci supera, ci sovrasta e al tempo stesso ci unisce all’obbedienza amorosa del Figlio eterno a suo padre nello Spirito Santo».

Umiltà è parola su cui riflettere. Perché spesso nelle nostre chiese più che di umiltà si lavora di fantasia, se non di eccentricità. Con tutti i risultati che purtroppo conosciamo bene.

Aldo Maria Valli (fonte: http://www.aldomariavalli.it/2016/09/08/per-non-scappare-dalla-croce/)

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“Id bene intelligentes per ritus et preces” (SC 48): la partecipazione attiva e la necessaria intelligenza del popolo di Dio

Così come impostata da A.M.Valli – sulla base di un testo ampiamente citato del Card. Sarah – sembra che la questione della “intelligenza del mistero” in SC  possa totalmente prescindere dal “tradurre in modo comprensibile”. Vi è forse qualche ragione diversa del “tradurre” se non nella possibilità di rendere comprensibile un testo che non lo è più? Se neghiamo questa evidenza primaria, e scriviamo sempre “comprendere” tra virgolette, come possiamo poi recuperare un senso della realtà della tradizione e della stessa esperienza di fede?

Ovviamente il semplicismo di questa impostazione – che è di Valli, ma in origine di Sarah e della Congregazione per il Culto Divino, da almeno 15 anni – conduce a conseguenze paradossali. Vi si legge infatti che la umiltà orienterebbe a non aver la pretesa di comprendere, mentre io credo che questa non sia umiltà, ma presunzione. La vera umiltà consiste nella “fatica della traduzione”, non nella pretesa di non tradurre. Porsi la domanda se le traduzioni debbano essere “comprensibili” rivela – già di per sé – una distorsione dello sguardo. Ogni traduzione è giustificata soltanto dal rendere accessibile un testo (o un gesto, o un canto o uno spazio o un tempo) che tale non è più. Ovviamente le traduzioni in ogni caso si possono fare bene o male, ricche o povere: ma non c’è ad esse alternativa.

Ma cerchiamo di capire meglio dove sta il problema. La origine – delle parole di Sarah e della ripresa di Valli – sta in un documento del 2001 – Liturgiam Authenticam – al quale ho dedicato, con preziose collaborazioni di colleghi, numerosi post, qualche mese fa (li si trova su questo blog, sotto il titolo “Identikit della VI Istruzione/…). Esso stabilisce infatti criteri per la traduzione che rendono impossibile tradurre in modo comprensibile. Sembra un testo umile, ma è un testo altamente presuntuoso. Perché, contro tutta la tradizione antica e moderna, osa affermare che la fedeltà al testo passa soltanto attraverso la “traduzione letterale”, parola per parola. Questo è stato negato da tutta la tradizione, che sapeva come spesso proprio la traduzione letterale risultasse la più infedele.

Ma se analizziamo SC, vediamo bene come la questione della “intelligenza” sia del tutto centrale per la definizione della “novità” più decisiva del testo. Ed è veramente sconfortante leggere in Valli – e purtroppo anche in Sarah – che la traduzione ha portato solo ad abusi. SC chiede che “la intelligenza del mistero eucaristico avvenga attraverso riti e preghiere”. Ossia che le azioni rituali e le parole della preghiera divengano mediazione comune a tutti i fedeli.

Questa è una nuova prospettiva sulla tradizione, che implica e impone diversi tipi di traduzioni:

– traduzioni di testi

– traduzioni di gesti, azioni, movimenti

– traduzioni di musiche e canti

– traduzioni di spazi e tempi

– traduzione di ministeri

Le competenze messe in campo non solo solo letterarie, ma rituali, musicali, temporali, spaziali. La grande tradizione può e deve essere tradotta per restare se stessa. Perché di “intelligenza del mistero” hanno fame e sete tutti i membri del popolo di Dio.

Questo è il compito che ha preso la forma di una grande e necessaria Riforma Liturgica. Che è una grande fatica di “intelligenza”, ma non per semplificare o ridurre la tradizione, ma per restituirle tutta la sua complessità.

Non è solo il latino, non è solo il gregoriano, non è solo il tabernacolo sull’altare maggiore, non è solo la immobilità del popolo di Dio nei banchi, non è solo l’altare alla parete e non è solo l’assenza di ambone  a garantire la tradizione. Anzi, su tutto questo si è aperto un grande cantiere, che ha arricchito la tradizione. Certo anche con esagerazioni e mancanze, come era inevitabile. Ma non si può tornare indietro. Ogni pretesa di “fare a meno del tradurre” è mancanza di umiltà e resistenza nella presunzione.

Il fatto che SC ci dica che la partecipazione intelligente accade “per ritus et preces” significa che essa non avviene solo “a parole”, ma attraverso tutti i linguaggi di cui è ricca la tradizione. Ma, attenzione: anche questi linguaggi devono subire un processo di “traduzione”, perché possano restare nella tradizione. Va precisato, però: tradurre non è “allontanamento” dal testo/rito, ma “avvicinamento” al testo/rito. Questo sembra sfuggire completamente a Valli/Sarah.

La liturgia non è anzitutto “dentro”, ma “fuori”. Non solo nella parole dette, ma anche nelle azioni compiute, nei canti intonati, negli spazi vissuti e nei tempi ritmati. Questo grande “cantiere” ha bisogno della convinzione creatrice anzitutto della Congregazione. La quale dovrebbe anzitutto accompagnare in positivo la crescita dei nostri usi, piuttosto che elencare in negativo infiniti elenchi di abusi.

Il controllo ossessivo degli abusi è il peggior modo di “scappare dalla Croce”. Ci si lavano le mani, piuttosto che accompagnare il necessario cambiamento.  Una traduzione “comprensibile” non è uno scandalo, ma ciò a cui la Chiesa è chiamata da sempre. Solo negli ultimi decenni abbiamo preteso di “comprendere senza tradurre”: questa è la mancanza di umiltà fondamentale, dalla quale dobbiamo liberarci. Per la “comprensione del sacrificio” non possiamo mai rifugiarci nel “sacrificio della comprensione”. Questa soluzione semplicistica, che Valli riprende da Sarah, dimostra una incomprensione grave della tradizione liturgica ed ecclesiale, sulla quale non si può consentire. Una traduzione non è comprensibile perché “riduce il mistero”, ma perché lo rende ancora più ricco. Che il tradurre sia impoverimento è il presupposto di una lettura sbagliata della storia e della Chiesa. Al tradurre non c’è alternativa: ma la garanzia di buone traduzioni non è soltanto la lettera del testo.  Detto ancora più nettamente: per essere umili e fedeli occorre essere creativi e fantasiosi. Quando nei primi secoli, a Roma, si passò dal greco al latino in liturgia, non si fecero traduzioni, ma nuove formulazioni. Se si rinuncia alla creatività e alla fantasia, si diventa molto facilmente presuntuosi. E la presunzione degli ultimi due decenni ha prodotto o traduzioni inutilizzabili o traduzioni non approvate. Non è forse questo l’abuso peggiore? Chi potrà sentirsi garantito dalla paralisi della tradizione? E paralisi e umiltà possono davvero suonare come sinonimi? Fare teologia “in ginocchio” non significa mai equiparare l’ “intellectus sacrificii” col “sacrificium intellectus”. Una intelligenza “più ampia”, non “più stretta”, della tradizione è non solo il nostro compito, ma il nostro destino.

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