Intelligenza del sacrificio come “sacrificium intellectus”? Una risposta a Valli/Sarah
In un recente post sul suo blog, A.M.Valli riprende con ampiezza le parole di un articolo del Card. Sarah a proposito del senso dell'”intelligere” in Sacrosanctum Concilium. E’ una buona occasione per “comprendere” ciò che in questi testi non viene affatto compreso, ma gravemente frainteso. Riproduco qui sotto il testo di Valli/Sarah, cui faccio seguire la mia risposta.
Per non “scappare dalla Croce”
Nell’originale latino della costituzione del Concilio Vaticano II Sacrosanctum Concilium, dedicata alla sacra liturgia (dicembre 1963) il termine intellegere (comprensibilità) torna cinque volte, e sappiamo bene che nel nome della comprensibilità sono stati commessi molti abusi e ancora oggi ne avvengono di continuo. Ma il significato dell’espressione intellegere è illustrato molto bene quando nel testo (n. 34) si afferma che i riti, pur adattati alla capacità di comprensione dei fedeli, non devono aver bisogno di molte spiegazioni. L’importante è invece che essi «splendano per nobile semplicità».
Parte da qui la riflessione del cardinale Robert Sarah, prefetto per la Congregazione del culto divino e la disciplina dei sacramenti, proposta nel fascicolo di settembre del mensile Studi cattolici (p. 484) sotto il titolo Traduzioni liturgiche «comprensibili»?
Le virgolette attorno alla parola comprensibili fanno capire il problema posto dal cardinale. Che cosa significa, veramente, comprendere la liturgia? Il fatto di pronunciare i testi nella lingua usata dai fedeli risolve automaticamente la questione? E davvero occorre lavorare sulla liturgia per avvicinarla sempre di più alla mentalità delle persone che vi prendono parte?
La risposta, spiega Sarah, è naturalmente negativa. Noi possiamo tradurre tutto in lingua corrente, eppure la liturgia mantiene una sua complessità che, fra l’altro, dal Concilio in poi, è perfino aumentata rispetto alle capacità culturali e spirituali dei fedeli.
Se pensiamo, scrive Sarah, alla preghiera eucaristica, dobbiamo ammettere che il significato autentico, profondo, di molte affermazioni teologiche oggi rischia di sfuggirci in termini meramente umani e terreni, perché ci troviamo dentro un orizzonte di senso piuttosto lontano dalla cultura attuale.
Le domande del cardinale, a questo proposito, sono esplicite: «Chi capisce, oggi, il carattere espiatorio della morte di Cristo? E, per la stessa ragione, come possono essere intese espressioni del tipo “essere redenti col suo sangue”, “essere trasformati in offerta perenne”, “che la vittima di riconciliazione porti pace e salvezza”?».
Sono domande, scrive il cardinale, che si fanno più complicate di giorno in giorno, man mano che la nostra mentalità si allontana dalle forme concettuali all’interno delle quali questi aspetti centrali del mistero cristiano hanno trovato formulazione e sistemazione.
Tuttavia, spiega il cardinale, commettiamo un grave errore se, nel nome dell’intellegere, pretendiamo di sottomettere completamente la liturgia alle esigenze della comprensione umana.
Secondo Sarah, non bisogna spaventarsi della complessità e non se ne deve fuggire usando scorciatoie formali e teologiche: è bene anzi che la liturgia mantenga una sua complessità, nel senso che al centro deve restare «il Mistero dell’amore infinito e misericordioso di Dio per gli uomini, consumato nel sacrificio pasquale di Cristo».
Il cardinale scrive la parola Mistero con l’iniziale maiuscola e in questo modo dice due cose: prima di tutto, il mistero resta tale, per cui, di fronte a esso, l’uomo di fede non può che provare stupore, meraviglia e gratitudine, senza pretendere di addomesticarlo, di tradurlo in termini semplici o perfino banali; in secondo luogo si tratta di un mistero grandissimo, incommensurabile, superiore a ogni nostra possibilità di comprensione, tale per cui non resta che adorare in silenzio, perché davvero ogni parola umana è insufficiente.
Di conseguenza è illusorio, spiega il cardinale, ritenere che basti tradurre i testi liturgici per renderli «comprensibili». Anzi, le traduzioni non devono comportare alcun danno al messaggio che traducono, che è e resta il messaggio del Vangelo. Inoltre, colui che traduce non deve interpretare, perché ogni tentativo di interpretazione compete al pastore, che ha proprio questo compito, e non al filologo o al liturgista.
Purtroppo, spiega il cardinale, dopo il Concilio abbiamo assistito allo sforzo di piegare la liturgia alle esigenze di comprensione e non, al contrario, allo sforzo di formare meglio e di più i fedeli, in modo tale da renderli sempre più consapevoli della profondità e della grandezza del mistero eucaristico. Si sono avute così le tante deformazioni nel segno della banalizzazione formale e del fraintendimento teologico, con l’uomo, e non Dio, sempre più al centro dell’azione liturgica.
Notevoli e chiare, a questo proposito, le parole di Sarah: «La liturgia non deve essere un “laboratorio” del nostro agire; non è un progetto per portare a termine una rivoluzione antropocentrica che sposti Dio dal centro dell’azione di culto».
Arrendersi dunque alla complessità? Non si tratta di arrendersi, ma di assumerla. Non si può semplificare tutto. Di fronte al mistero, in larga parte inafferrabile per la finitezza della mente umana, non c’è che un atteggiamento al quale abbandonarsi, «l’accoglienza mediante l’adorazione».
Tutto ciò significa che non bisogna fare nulla per facilitare la comprensione della liturgia da parte dei fedeli ma anche dei ministri?
Certamente no, ma la risposta è quella di prima: non si tratta di banalizzare la liturgia, piegandola alla mentalità del tempo o, addirittura, al «politicamente corretto». Si tratta invece di formare i fedeli, aiutandoli a raggiungere una maggiore consapevolezza di ciò che la liturgia è.
Un punto sta particolarmente a cuore al cardinale Sarah. Secondo una certa linea teologica, spiega, i testi liturgici trasmessi dalla tradizione, a causa dei loro contenuti, costituirebbero un ostacolo verso un’evangelizzazione efficace, per cui sarebbe il caso di modificarli. Stando a questa linea teologica, tutta la terminologia sacrificale, in particolare, offrirebbe «un’immagine di Dio non credibile per l’uomo attuale o, almeno, molto lontana dalla sua sensibilità». Di qui l’idea di annacquare la dimensione sacrificale così da non provocare nell’uomo di oggi un allontanamento se non addirittura una ripulsa. Una preoccupazione da condividere?
Assolutamente no, risponde Sarah, che spiega: «A dire il vero, mi domando se queste categorie sacrificali, raccolte da tutto il magistero recente, siano realmente sfasate e debbano essere sostituite per rendere possibile l’evangelizzazione. Dobbiamo stare attenti, perché tutti possiamo subire la tentazione di pretendere di scappare dal sacrificio, dalla croce».
Particolarmente attuali sono le parole di papa Francesco pronunciate nella sua prima messa celebrata da vescovo di Roma (Cappella Sistina, 14 marzo 2013): «Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore».
Forte è la tentazione di ritenere che siamo noi ad amare Dio e non è lui ad amare noi, non è lui che ama per primo e che proprio per amore ha mandato suo figlio come vittima, in espiazione dei nostri peccati. Tutte le espressioni sacrificali che si trovano nel messale, chiarisce Sarah, non impediscono l’evangelizzazione: ne sono anzi il fondamento.
Quindi, se è vero che sono legittimi i tentativi di rendere la liturgia più intellegibile senza snaturarla e impoverirla, è altrettanto vero, come disse Benedetto XVI (discorso ai parroci e al clero della diocesi di Roma, 14 febbraio 2013) che «solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità».
E per percorrere questa strada, conclude il cardinale Sarah, ci vuole tanta umiltà: «La liturgia si riceve nella Chiesa come un dono vivente che ci supera, ci sovrasta e al tempo stesso ci unisce all’obbedienza amorosa del Figlio eterno a suo padre nello Spirito Santo».
Umiltà è parola su cui riflettere. Perché spesso nelle nostre chiese più che di umiltà si lavora di fantasia, se non di eccentricità. Con tutti i risultati che purtroppo conosciamo bene.
Aldo Maria Valli (fonte: http://www.aldomariavalli.it/2016/09/08/per-non-scappare-dalla-croce/)
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“Id bene intelligentes per ritus et preces” (SC 48): la partecipazione attiva e la necessaria intelligenza del popolo di Dio
Così come impostata da A.M.Valli – sulla base di un testo ampiamente citato del Card. Sarah – sembra che la questione della “intelligenza del mistero” in SC possa totalmente prescindere dal “tradurre in modo comprensibile”. Vi è forse qualche ragione diversa del “tradurre” se non nella possibilità di rendere comprensibile un testo che non lo è più? Se neghiamo questa evidenza primaria, e scriviamo sempre “comprendere” tra virgolette, come possiamo poi recuperare un senso della realtà della tradizione e della stessa esperienza di fede?
Ovviamente il semplicismo di questa impostazione – che è di Valli, ma in origine di Sarah e della Congregazione per il Culto Divino, da almeno 15 anni – conduce a conseguenze paradossali. Vi si legge infatti che la umiltà orienterebbe a non aver la pretesa di comprendere, mentre io credo che questa non sia umiltà, ma presunzione. La vera umiltà consiste nella “fatica della traduzione”, non nella pretesa di non tradurre. Porsi la domanda se le traduzioni debbano essere “comprensibili” rivela – già di per sé – una distorsione dello sguardo. Ogni traduzione è giustificata soltanto dal rendere accessibile un testo (o un gesto, o un canto o uno spazio o un tempo) che tale non è più. Ovviamente le traduzioni in ogni caso si possono fare bene o male, ricche o povere: ma non c’è ad esse alternativa.
Ma cerchiamo di capire meglio dove sta il problema. La origine – delle parole di Sarah e della ripresa di Valli – sta in un documento del 2001 – Liturgiam Authenticam – al quale ho dedicato, con preziose collaborazioni di colleghi, numerosi post, qualche mese fa (li si trova su questo blog, sotto il titolo “Identikit della VI Istruzione/…). Esso stabilisce infatti criteri per la traduzione che rendono impossibile tradurre in modo comprensibile. Sembra un testo umile, ma è un testo altamente presuntuoso. Perché, contro tutta la tradizione antica e moderna, osa affermare che la fedeltà al testo passa soltanto attraverso la “traduzione letterale”, parola per parola. Questo è stato negato da tutta la tradizione, che sapeva come spesso proprio la traduzione letterale risultasse la più infedele.
Ma se analizziamo SC, vediamo bene come la questione della “intelligenza” sia del tutto centrale per la definizione della “novità” più decisiva del testo. Ed è veramente sconfortante leggere in Valli – e purtroppo anche in Sarah – che la traduzione ha portato solo ad abusi. SC chiede che “la intelligenza del mistero eucaristico avvenga attraverso riti e preghiere”. Ossia che le azioni rituali e le parole della preghiera divengano mediazione comune a tutti i fedeli.
Questa è una nuova prospettiva sulla tradizione, che implica e impone diversi tipi di traduzioni:
– traduzioni di testi
– traduzioni di gesti, azioni, movimenti
– traduzioni di musiche e canti
– traduzioni di spazi e tempi
– traduzione di ministeri
Le competenze messe in campo non solo solo letterarie, ma rituali, musicali, temporali, spaziali. La grande tradizione può e deve essere tradotta per restare se stessa. Perché di “intelligenza del mistero” hanno fame e sete tutti i membri del popolo di Dio.
Questo è il compito che ha preso la forma di una grande e necessaria Riforma Liturgica. Che è una grande fatica di “intelligenza”, ma non per semplificare o ridurre la tradizione, ma per restituirle tutta la sua complessità.
Non è solo il latino, non è solo il gregoriano, non è solo il tabernacolo sull’altare maggiore, non è solo la immobilità del popolo di Dio nei banchi, non è solo l’altare alla parete e non è solo l’assenza di ambone a garantire la tradizione. Anzi, su tutto questo si è aperto un grande cantiere, che ha arricchito la tradizione. Certo anche con esagerazioni e mancanze, come era inevitabile. Ma non si può tornare indietro. Ogni pretesa di “fare a meno del tradurre” è mancanza di umiltà e resistenza nella presunzione.
Il fatto che SC ci dica che la partecipazione intelligente accade “per ritus et preces” significa che essa non avviene solo “a parole”, ma attraverso tutti i linguaggi di cui è ricca la tradizione. Ma, attenzione: anche questi linguaggi devono subire un processo di “traduzione”, perché possano restare nella tradizione. Va precisato, però: tradurre non è “allontanamento” dal testo/rito, ma “avvicinamento” al testo/rito. Questo sembra sfuggire completamente a Valli/Sarah.
La liturgia non è anzitutto “dentro”, ma “fuori”. Non solo nella parole dette, ma anche nelle azioni compiute, nei canti intonati, negli spazi vissuti e nei tempi ritmati. Questo grande “cantiere” ha bisogno della convinzione creatrice anzitutto della Congregazione. La quale dovrebbe anzitutto accompagnare in positivo la crescita dei nostri usi, piuttosto che elencare in negativo infiniti elenchi di abusi.
Il controllo ossessivo degli abusi è il peggior modo di “scappare dalla Croce”. Ci si lavano le mani, piuttosto che accompagnare il necessario cambiamento. Una traduzione “comprensibile” non è uno scandalo, ma ciò a cui la Chiesa è chiamata da sempre. Solo negli ultimi decenni abbiamo preteso di “comprendere senza tradurre”: questa è la mancanza di umiltà fondamentale, dalla quale dobbiamo liberarci. Per la “comprensione del sacrificio” non possiamo mai rifugiarci nel “sacrificio della comprensione”. Questa soluzione semplicistica, che Valli riprende da Sarah, dimostra una incomprensione grave della tradizione liturgica ed ecclesiale, sulla quale non si può consentire. Una traduzione non è comprensibile perché “riduce il mistero”, ma perché lo rende ancora più ricco. Che il tradurre sia impoverimento è il presupposto di una lettura sbagliata della storia e della Chiesa. Al tradurre non c’è alternativa: ma la garanzia di buone traduzioni non è soltanto la lettera del testo. Detto ancora più nettamente: per essere umili e fedeli occorre essere creativi e fantasiosi. Quando nei primi secoli, a Roma, si passò dal greco al latino in liturgia, non si fecero traduzioni, ma nuove formulazioni. Se si rinuncia alla creatività e alla fantasia, si diventa molto facilmente presuntuosi. E la presunzione degli ultimi due decenni ha prodotto o traduzioni inutilizzabili o traduzioni non approvate. Non è forse questo l’abuso peggiore? Chi potrà sentirsi garantito dalla paralisi della tradizione? E paralisi e umiltà possono davvero suonare come sinonimi? Fare teologia “in ginocchio” non significa mai equiparare l’ “intellectus sacrificii” col “sacrificium intellectus”. Una intelligenza “più ampia”, non “più stretta”, della tradizione è non solo il nostro compito, ma il nostro destino.
Leggo con molto interesse la risposta del prof. Grillo. Una prima cosa che mi sorprende della risposta è che sembra che il lungo articolo del Cardinale Robert Sarah, più di sette pagine, pubblicato nel fascicolo di settembre del mensile Studi cattolici (p. 484) sotto il titolo Traduzioni liturgiche «comprensibili»? non è stato letto o al meno non è stato ben letto.
Per primo quando nell’articolo il cardinale Sarah si riferisce a una cattiva comprensibilità o intelligibilità delle traduzioni si muove nella lunghezza d’onda di Benedetto XVI quando diceva: «Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di
una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere» (Benedetto XVI, Discorso ai parroci e al clero della diocesi di Roma, 14-2- 2013).
In questo senso non sembra che l’articolo del Cardinale, come tra l’altro si vede della citazione del Papa emerito, sia critico con la traduzione nelle lingue parlate. Di fatto nell’articolo si legge: “la traduzione in una lingua viva dei testi liturgici suppone una ricchezza che deve essere protetta e salvaguardata”. Ma effettivamente aggiunge subito “In questo senso, una falsa soluzione sarebbe quella di una traduzione comprensibile che,
per semplificare i problemi, banalizzasse alcune verità della fede oppure le mettesse da parte. Un aspetto particolare e pernicioso di questa posizione sarebbe la sottomissione alla politically correctness o alla ricerca di un linguaggio inclusivo”.
E prosegue l’articolo: “La liturgia non deve essere un «laboratorio» del nostro agire; non è un progetto per portare a termine una rivoluzione antropocentrica che sposti Dio dal centro dell’azione di culto. Perciò le traduzioni non devono comportare alcun danno al messaggio che traducono, che è il messaggio del Vangelo, vale a dire, il mistero dell’amore infinito e misericordioso di Dio per gli uomini consumato nel sacrificio pasquale di Cristo. Questo messaggio richiede una risposta che non può essere altra se non l’accoglienza mediante la adorazione. Facendo eco a papa Francesco voglio ricordare che «noi abbiamo perso un po’ il senso dell’adorazione. Gli orientali lo conservano, loro lodano Dio, loro adorano Dio, cantano, il tempo non conta. Il centro è Dio» (Francesco, Conferenza stampa durante il volo di ritorno a Roma, 28-7- 2013).
Ricuperare il primato di Dio è essenziale nella liturgia anche per la sua comprensibilità”.
Nell’articolo del cardinale si parla di Liturgiam authenticam. E si legge con realismo: “sinceramente considero uno strumento di grande aiuto per superare gli ostacoli appena segnalati. Ma al tempo stesso non mi sfugge che quel documento non è stato sempre ben accolto. Alcuni ambienti parlano di una certa impasse nelle traduzioni dei libri liturgici, conseguenza di una eccessiva preoccupazione per la letteralità che, dicono, è al centro stesso dell’architettura di Liturgiam authenticam. Non mancano perfino coloro che affermano che i testi nati secondo i criteri dell’istruzione semplicemente non servono per la preghiera della comunità”.
Il cardinale risponde a questa critica dicendo: “Eppure, dinanzi a tali critiche, la realtà è che diversi libri liturgici editi dopo la pubblicazione di Liturgiam authenticam sono stati serenamente accolti in molte chiese locali, dove si utilizzano senza problemi, con gratitudine e profitto spirituale. Basti pensare, senza andare lontano, alle diverse edizioni del Messale Romano in lingua spagnola e inglese già approvati, oppure al rituale del matrimonio nell’edizione italiana e spagnola, o al rituale delle esequie in versione italiana”.
E dopo fa un commento che il cristiano della strada probabilmente si è fatto: “Questo stato di cose mi porta a esprimere una perplessità: siamo abituati a leggere tutti i giorni gli interventi del Romano Pontefice immediatamente tradotti in diverse lingue e lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica, con tutta la complessità di un’opera del genere, è stato
tradotto in una grande quantità di lingue. Allora, a che cosa si deve la difficoltà nella traduzione del Messale Romano in certe lingue?”
La risposta che formula il cardinale senz’altro è interessante e vale la pena riportarla per continuare lo studio e il dibattito senza cadere in luoghi comuni sulla riforma, la situazione della liturgia prima della riforma… Il problema delle traduzioni per il cardinale mi pare si trova qui: “La risposta alla difficoltà nella traduzione del Messale romano probabilmente si trova in una somma di fattori molto diversi, ma io vorrei concentrarmi su un aspetto che mi sembra decisivo: non si cerca in realtà una traduzione che offra una versione in un’altra lingua, ma qualcosa di più. Molti traduttori, nello svolgere il loro lavoro si sentono chiamati ad apportare un’interpretazione del testo che favorisca l’inculturazione e la riforma della
Chiesa. Ma questo lavoro di re-interpretazione è compito dei traduttori? Chi ha conferito loro tale incarico? Traduttori e pastori hanno ciascuno la propria funzione nei rispettivi ambiti di competenza. La conoscenza degli esperti e degli eruditi è importante, ma non può soppiantare le decisioni dei pastori, che continuano a essere i responsabili della missione di discernere che cosa aiuta e che cosa non aiuta a celebrare con fede i sacramenti. Con umiltà voglio far notare ai pastori che in certe occasioni le traduzioni degliesperti non sono «semplicemente» traduzioni, bensì interpretazioni personali, in alcuni casi molto discutibili, al fine di orientare la riforma o l’inculturazione della liturgia, e pertanto della Chiesa stessa, nella direzione delle loro opinioni teologiche ed ecclesiologiche”
L’articolo del cardinale dopo aver fatto riferimento a lungo alla Lettera di Benedetto XVI al Presidente della Conferenza episcopale tedesca, 14-4- 2010 parlando sulle traduzioni, lettera che tra l’altro sarebbe buono leggere, conclude dicendo: “è vero che l’interpretazione fa parte del processo che permette e facilita la comprensione della liturgia, ma il compito principale dei traduttori consiste nell’offrire una versione il cui
significato sia il più vicino possibile al senso della parola originale. I fedeli hanno il diritto di ricevere i testi liturgici nell’integrità, freschezza e originalità con cui sono usciti dalla penna dei loro autori, siano essi del periodo aureo della patristica, nel medioevo, dell’epoca tridentina o di nuova composizione nella editio tipica attuale. Il difficile e lodevole compito
dei traduttori consiste nel rendere fedelmente questi testi nelle lingue vive.
L’interpretazione, sempre necessaria, compete ai pastori della Chiesa illuminati dallo Spirito Santo”. In questo senso bisogna domandarsi se sono i traduttori quelli che devono creare la liturgia
Un ultimo punto che porta alla considerazione dei lettori l’articolo del cardinale è anche molto suggestivo: “riguarda l’opinione di coloro che dicono che appartenga pure alla missione di una traduzione autentica la vigilanza per l’adeguamento evangelico delle versioni dei liturgici. Così alcune pubblicazioni recenti sottolineano come certe categorie teologiche dei testi liturgici trasmessi dalla tradizione costituirebbero, così come sono
enunciati, un serio ostacolo per una evangelizzazione efficace. In questo senso si potrebbero citare le espressioni e i concetti coniati intorno alle categorie di espiazione, soddisfazione e, in generale tutta la terminologia sacrificale dell’Ordo Missae, che offrirebbero un’immagine di Dio non credibile per l’uomo attuale o, almeno, molto lontana dalla sua sensibilità. Per questo tali categorie non si dovrebbero tradurre, ma andrebbero semplicemente sostituite da altre più conforme alle premesse culturali odierne. Un tale modo di procedere, come ricorda Louis Bouyer, fu portato a termine nell’immediato dopoconcilio. L’autore indica con dispiacere che un bel giorno l’ente con il quale collaborava come traduttore decise di evitare determinate espressioni sacrificali dell’Ordo Missae e come, dinanzi al suo diniego di piegarsi a questo dettame, fu incoraggiato a sospendere i suoi lavori”. Qui mi pare si trova la giustificazione al titolo dell’articolo di Valli.
Il Cardinale risponde a questa critica alle espressioni sacrificali con diversi testi del papa Francesco, ai quali si potrebbe aggiungere l’udienza di questo sabato scorso parlando sulla parola redenzione. ” La parola “redenzione” è poco usata, eppure è fondamentale perché indica la più radicale liberazione che Dio poteva compiere per noi, per tutta l’umanità e per l’intera creazione. Sembra che l’uomo di oggi non ami più pensare di essere liberato e salvato da un intervento di Dio; l’uomo di oggi si illude infatti della propria libertà come forza per ottenere tutto. Si vanta anche di questo. Ma in realtà non è così” (FRANCESCO, Udienza 10.IX.2016)
Nell’articolo del cardinale si legge tra l’altro: “A dire il vero, mi
domando se queste categorie sacrificali, raccolte da tutto il magistero recente, siano realmente sfasate e debbano essere sostituite per rendere possibile l’evangelizzazione. Dobbiamo stare attenti, poiché tutti possiamo subire la tentazione di pretendere di scappare dal sacrificio, dalla croce, Come ricordava papa Francesco, «il tentatore cerca di distogliere Gesù dal progetto del Padre, ossia dalla via del sacrificio, dell’amore che offre
sé stesso in espiazione, per fargli prendere una strada facile, di successo e di potenza»
Un po’ più avanti dirà “Le categorie sacrificali che troviamo nel Messale Romano non impediscono l’evangelizzazione, ma la presuppongono poiché, come dice Papa Francesco «la messa «non è una rappresentazione; è un’altra cosa. È proprio l’Ultima Cena; è proprio vivere un’altra volta la passione e la morte redentrice del Signore. È una teofania: il Signore si fa presente sull’altare per essere offerto al Padre per la salvezza del mondo».
Non voglio allungarmi di più. Semplicemente mi pare che è molto buona e necessaria la discussione ma questa si deve fare sui testi. Nell’articolo del Cardinale non si parla, e non appare, la parola abuso in nessun momento. Si parla di tante cose e sarebbe buono un colloquio, un dibattito sereno su questi argumenti e non su luoghi comuni o valutazioni affrettate.
Prof. Juan José Silvestre
caro Juan
io ho commentato il post di Valli non il testo di Sarah. Non escludo affatto che il testo del cardinale possa essere più ricco. Non credo possa dire il contrario. Resta il fatto di una Congregazione che ha paralizzato se stessa. Potrebbe uscirne solo con una VI ISTRUZIONE.
Cordialmente
Andrea
Caro Andrea,
Penso che sarebbe buono non chiudersi e aprire un dialogo come ci consiglia continuamente il nostro buon Papa Francesco. Con parresia ma dialogando. Il Cardinale ha scritto un testo con le sue idee sul problema con le traduzioni non capisco perché la risposta deve essere un chiudersi che semplicemente dica che la Congregazione ha paralizzato se stessa.
Cordialmente,
Juan
caro Juan
noi siamo titolari di un ministero nella Chiesa. Dobbiamo dire la verità. Finché avremo Liturgiam Authenticam ogni dialogo sarà falsato. Se vogliamo dialogare davvero dobbiamo eliminare questo scandalo. Solo dopo vi sarà dialogo. Altrimenti come spieghi che molte Conferenze episcopali non presentano più i loro rituali?
La congregazione ha rotto il dialogo. Per aprirlo deve uscire dall’angolo in cui si è chiusa. questa è la verità.
Caro Juan,
aggiungo un punto. Ho letto ora l’articolo del Card. Sarah nella sua versione originale. Ovviamente contiene molte cose in più rispetto alla sintesi di Valli. Ma vorrei farti notare che nel suo centro ha, come per me era ovvio, quella teoria pericolosa e paralizzante, secondo la quale “tradurre non è interpretare”. QUesta è la stessa teoria che sta al cuore di LA e che oggi paralizza la Chiesa cattolica. Perché trasforma la tradizione in un museo. A sostegno di questa teoria Sarah chiama anche J. Ratzinger e Benedetto XVI. E proprio qui sta uno dei punti più delicati della questione. Anche Benedetto XVI ha utilizzato questa teoria più volte, ultimamente nella lettera ai Vescovi tedeschi sul “pro multis”. Alla radice dello stesso MP Summorum Pontificum c’è la medesima teoria. Ossia che l’accesso alla tradizione non abbia bisogno di interpretazione. Che la “traduzione letterale” dispensi dall’interpretare. Io dico invece – e con me tutta la più aggiornata linguistica e teoria del testo – che la “interpretazione letterale” è spesso il modo peggiore di trattare la tradizione. Se pensiamo di poter “leggere senza interpretare” ci collochiamo fuori dalla tradizione. Per continuare a far vivere la tradizione, abbiamo bisogno di traduzioni che offrano “buone interpretazioni”. La lamentela per cui alcune traduzione post-conciliari sarebbero interpretazioni è vuota e presuntuosa. Solo il lavoro accurato delle Conferenze Episcopali e della Congregazione, senza criteri rigidi di valutazioni, può offrire alla tradizione ecclesiale testi credibili e utilizzabili. L’irrigidimento portato da LA a partire dal 2001 genera solo mostri. Di questo il Cardinale non sembra avere se non una lontana percezione. Le soluzioni che propone sono infatti rimedi peggiori del male. Ti saluto cordialmente. Andrea
La liturgia eucaristica secondo il Messale di Pio V riportava testi della Sacra Scrittura che erano stati, in gran parte, tradotti dal greco in lingua latina. Il popolo presente alla celebrazione dei Santi Misteri recitava il rosario silenzioso mentre il sacerdote celebrava in una lingua spesso storpiata e incomprensibile per tutti.
Ora questi grandi uomini cosa vogliono ancora. Il popolo comprende e comprende secondo la personale preparazione. Quanti sacerdoti oggi sono al pari della preparazione del popolo santo di DIo?
Il peccato mortale di tutti i traditionnalismi et tutti i traditionnalisti è di voler rendere statico quello che è dinamico, mecanico quello che è organico, morto quello che è vivante. Per i traditionnalisti fra i quali sono anche cardinali, il loro compito è di impedire la respirazione normale e la vita. La parola che odiano si chiama libertà. Rendono rigido tutto quello che toccano. Devono pregare e meditare la parola latina del Veni Sancte Spiritus : Flecte quod est rigidum !
Caro Andrea,
Lego con molto interesse la tua risposta perché effettivamente il puntum dolens è se la traduzione ha per compito la interpretazione creativa o se ha per compito offrire una versione il cui significato sia il più vicino possibile al senso della parola originale.
In realtà non capisco bene perché tradurre il Messale romano deva essere diverso di tradurre la Parola di Dio o il Magistero. In questi casi il traduttore cerca di avvicinarsi il più possibile al testo originale. Non ha paura ne diffida del testo originale. Tra l’altro mi sembra che i fedeli hanno il diritto di ricevere la Parola di Dio, il magistero ma anche i testi liturgici nell’integrità, freschezza e originalità con cui sono usciti dalla penna dei loro autori, siano essi del periodo aureo della patristica, nel medioevo, dell’epoca tridentina o di nuova composizione nella editio tipica attuale: in ogni tappa della storia della Chiesa la Celebrazione eucaristica, quale fonte e culmine della sua vita e missione, risplende nel rito liturgico in tutta la sua multiforme ricchezza.
Di fatto questo è quello che hanno fatto gli autori del Messale romano nella sua editio typica tertia risultato e frutto del Concilio Vaticano II come si legge dalla sua prima pagina. Perqué cè questa diffidenza del testo originale latino? C’è qualcosa che non piace? C’è qualche sbaglio teologico che bisogna togliere per medievale? In questi testi assunti o creati dopo il Concilio Vaticano II ci sono preghiere che non rispecchiano la fede? Allora diciamolo con chiarezza, confrontiamoci e dialoghiamo sulla teologia…
Nella liturgia, logicamente perché è viva c’e continuità e per questo possiamo guardare alla storia bimillenaria della Chiesa di Dio, guidata dalla sapiente azione dello Spirito Santo, e ammirare, pieni di gratitudine, lo sviluppo, ordinato nel tempo, delle forme rituali in cui facciamo memoria dell’evento della nostra salvezza. Dalle molteplici forme dei primi secoli, che ancora splendono nei riti delle antiche Chiese di Oriente, fino alla diffusione del rito romano; dalle chiare indicazioni del Concilio di Trento e del Messale di san Pio V fino al rinnovamento liturgico voluto dal Concilio Vaticano II. Penso che si può dire, forse scherzando un po’, che lo Spirito Santo non se ne è andato in vacanza dopo il concilio Vaticano II ma neppure prima.
caro Juan,
il punto debole della tua replica sta proprio in una teoria inadeguata della traduzione. Ogni traduzione è sempre interpretativa. se non ammetti questo non si riesce a dialogare. questo è l errore irrimediabile di LA. che presuppone una teoria della tradizione come museo e della chiesa come societas perfecta. La pretesa che si debba tradurre alla lettera dal latino significa mortificare per paura la storia della salvezza. E ridurla a repertorio di cose passate. Nessuno pensa di trattare così né la Scrittura né il Magistero.
Caro Juan,
voglio aggiungere ancora un elemento che mi pare decisivo. La traduzione per essere fedele deve considerare non solo la lingua di origine ma anche la lingua materna di destinazione. LA commette l errore imperdonabile di trattare la lingua madre solo come strumento. Questo impedisce l atto stesso del tradurre. Per questo oggi tutto è bloccato. Per questo sospetto verso tutto ciò che non è antico. c è alla radice un viscerale antimodernismo irrisolto. Che blocca tutto.
un caro saluto
Andrea