La discussione sullo “stato di eccezione liturgica” continua: le domande del prof. Silvestre e le mie risposte


Juan José Silvestre

Ringrazio il Prof. Juan Silvestre (che insegna liturgia presso la Pontificia Università della Santa Croce) per avermi scritto a proposito del dibattito sollevato dalla Lettera Aperta sullo “stato di eccezione liturgica”, dalle obiezioni di M. Graulich e dalle mie risposte. Gli sono grato, come lo sono anche a M. Graulich, sia pure nell’ambito di uno scambio che ha avuto inevitabili toni e timbri polemici. Essere grati a chi ti critica, anche quando avviene duramente, non è un vezzo accademico, che nasconde solo ostilità. Devo invece ammettere che per quanto mi riguarda io riesco a pensare fino in fondo una questione solo quando trovo qualcuno che solleva obiezioni dirette e chiare contro le mie convinzioni più radicate. Per la teologia questo confronto con il “sed contra” deve essere “pane quotidiano”. La lunga stagione scolastica ha avuto nel “metodo delle questioni” la sua grandezza che ancora oggi è assai istruttiva. Per questo motivo ho riportato qui di seguito il testo del prof. Silvestre e rispondo direttamente, ad ogni sua affermazione critica, così il lettore troverà la sua parola inframezzata dalla mia. Aggiungo solo che con il prof. Silvestre il dialogo risale ormai a molti anni fa, e dura certamente da più di 10 anni. A maggior ragione è mio dovere valorizzarlo con risposte non sbrigative. D’altra parte, come il lettore vedrà, si tratta di obiezioni poste con grande garbo e potrei dire con cavalleria spagnola. 

Caro prof. Andrea Grillo

Ho letto attentamente la sua risposta al professor Graulich. Infatti, l’ho stampata e l’ho studiata con calma.

Dalla lettura, mi vengono in mente, alcuni commenti

a) Perché l’esistenza di due forme dello stesso rito è di per sé contraddittoria? Me lo chiedo perche:

– La storia medievale ci mostra una ricchezza di usi all’interno dello stesso rito romano;

Certo, la storia medievale attesta una “pluralità rituale” perché le diverse regioni dell’Impero e della Chiesa non avevano ancora un “centro unificatore” così forte, come sarà a partire dalla sintesi moderna tridentina. E la pluralità aveva una ragione geografica o storica, non ideologica. Questo, come potrai vedere, sarà il punto di discrimine successivo, che non permette di paragonare la condizione della Chiesa medievale o moderna con la storia contemporanea. Nessuno ha mai parlato, in quel tempo, di due forme dello stesso rito. Se eri della Gallia celebravi secondo un Ordo, e se eri della Spagna o della Germania con un altro. Vi era una unità nella differenza e una comunione nella diversità.

– La stessa situazione creatasi dopo il Messale del 1570 dove, accanto alla forma ordinaria che costituiva quel Messale promulgato da Pio V, troviamo tanti usi o forme “straordinarie” di carattere diocesano e religioso che rimasero in vigore dopo il 1570 perché avevano più di duecento anni e quindi vissero fino al XX secolo senza creare nessuna situazioni di emergenza;

Anche questa condizione “post-tridentina” non è una condizione eccezionale, non è giustificata da uno “stato di eccezione”, non sottrae competenze ai Vescovi, anzi le concede, sulla base di una differenziazione che è, anche in questo caso, storico-geografica o religioso-identitaria. Se a Milano o per i Domenicani si è concesso che il rito della Chiesa cattolica avesse forma differenziata, lo si è fatto per ragioni di una particolarità che non costituiva una contestazione della Chiesa romana e della sua storia.

– Attualmente, accanto al rito romano nella sua forma ordinaria, troviamo il rito romano per le diocesi dello Zaire, gli “usi” neocatecumenali, teoricamente gli usi della diocesi di Braga e… allo stesso tempo, forse con il tempo alcuni vorrebbero vedere fatto realtà un rito romano per la terra dell’Amazzonia…

Anche in questo terzo caso, ossia nel mondo contemporaneo, la logica della differenza, come tu stesso dici, è di tipo geografico-culturale. Ci sono tradizioni e culture, la cui espressione rituale resta “romana” anche se assume forme espressive, sequenze, canti, ministeri e formule particolari, legate allo sviluppo specifico di una data regione africana, sudamericana o europea. In nessun caso si tratta di una “forma straordinaria” che possa essere arbitrariamente sostituita a quella ordinaria fuori dallo spazio e dalle condizioni specifiche di quella tradizione.

Mi è difficile capire perché vari usi o forme non possono trovare posto nello stesso rito. Come di una stessa persona troviamo sempre la stessa persona benché la si veda in fotografie di diversi anni. È sempre la stessa e non pare la cosa più ragionevole rinnegare di se stessi… Non si capisce bene come la persona vecchia (quella del 2020) non accetta e rinnega della giovane (quella del 1970) secondo il tuo esempio, vale a dire perché il Messale di 1970-2008 dovrebbe rinnegare e non poter convivere con la sua giovinezza e la sua radice che è il Messale di 1962 come questo stesso Messale non ha rinnegato dei suoi predecessori.

Qui, caro prof. Silvestre, c’è il passaggio più delicato. Non si tratta di “rinnegare”. Non è che il giovane che diventa adulto debba rinnegare quello che è stato. Ma certo deve cambiare tempi, modi, parole, luoghi e forme della vita giovanile nel momento in cui inizia a lavorare, si sposa, ha figli…Perché dico questo? Perché proprio questo passaggio ha una sua irreversibilità. Esattamente come accade al messale del rito romano del 1962, che è stato riformato, perché era diventato inadeguato. La Chiesa non cresce “per divertimento”, ma per necessità. Il passaggio da 1962 a 1970 è irreversibile, proprio perché conserva tutto ciò che sta nel 1962, ma in una forma necessariamente nuova. La decisione con cui il Concilio Vaticano II non delega semplicemente Paolo VI a fare una riforma, ma indica i criteri specifici di essa, rende il rito romano del 1962 “fuori uso” a causa dei difetti che il Concilio ha denunciato e voluto esplicitamente superare. Il 1970 non rinnega il 1962, ma ne nega i difetti. Per questo ritengo contraddittorio che ad un prete si lasci la libertà di celebrare “difettosamente”. Questa è una palese contraddizione con la tradizione, che Summorum Pontificum introduce ex-novo nel 2007, che non ha precedenti. Questa sì che è una rottura. Che si può giustificare in uno “stato di eccezione”, per un motivo di emergenza (fare la pace con i Lefebvriani), ma non può durare. Se il risultato non è conseguito (come è evidente) bisogna smontare l’apparato artificiale della doppia forma.

Capisco che una forma liturgica sparisca quando tutte le persone che la vivevano sono morte o perché tutti rinnegano di quella forma liturgica (qualcosa del genere troviamo nella sparizione della liturgia del nord del Africa nei primi secoli o in quella di tanti usi religiosi dopo il Concilio Vaticano II che sono stati abbandonati dei religiosi che vivevano questi usi per decisione presa in Capitolo) ma non vedo chiaro che una forma liturgica ortodossa possa essere soppressa o proibita tranne se si capisce la liturgia come un codice di leggi o rubriche. Io preferisco mettere la liturgia e i libri liturgici nello stesso gruppo delle professio fidei o delle versione della Scrittura che benché nel tempo c’è ne sono state successive mai una rinnega dell’altra, mai un Credo abolisce il precedente, mai una versione della Sacra Scrittura lascia di essere Parola di Dio. Preferisco pensare che la liturgia forma parte della Tradizione della Chiesa ed è più che un insieme di leggi che si possono cambiare o proibire dall’autorità.

Anche io seguo questa stessa logica, ma con una differenza fondamentale. La tradizione non è un catalogo nel quale posso trovare di volta in volta la “formula” che più mi piace. Se la Chiesa, non con un Motu Proprio o con una Enciclica, ma con una Costituzione di un Concilio Ecumenico, ritiene che una forma rituale, per quanto antica e piena di meriti, non risponde più alla identità ecclesiale, crea separazione nel corpo della Chiesa, delega la celebrazione soltanto ai chierici, privilegia la “messa senza popolo” alla messa col popolo, non prevede una partecipazione attiva della assemblea, allora la forma rituale che scaturisce da questa riforma diventa inevitabilmente vincolante per tutti. Chi vuole ricorrere alla forma precedente assume, come sempre mi è capitato di costatare, un atteggiamento molto critico verso il Concilio e verso la riforma che esso ha determinato: così si chiama fuori dal cammino comune e lacera il corpo ecclesiale.

Probabilmente mi sbaglio, ma forse non si concepisce questa diversità di usi al interno di un stesso rito per il motivo seguente che mi pare costituisce un a priori di tutta la discussione.

b) I libri che hanno preceduto la riforma liturgica sono in contrasto con il Concilio Vaticano II? Entrando più nel dettaglio, potremmo chiederci se vivere i libri prima della riforma del Concilio Vaticano II sia sinonimo di essere uno spettatore muto? Erano Guardini, Jungmann, Bouyer, Casel e tanti altri spettatori muti quando partecipavano alla Messa nei suoi anni di giovinezza? Erano liturgisti nonostante i libri liturgici che cercavano di vivere e celebrare quando celebravano la Messa con quel Messale di 1570-1962?

La sua domanda, prof. Silvestre, è molto delicata. Come impariamo da nostro Signore, la prima cosa da fare, spesso, è contestare la domanda stessa. Non sono i libri ad essere contrari al Vaticano II. E’ il Vaticano II che chiede che vengano cambiati. Il motivo di questo cambiamento è che quei libri non permettono la “actuosa participatio”. Ora tu ti chiedi: e tutti i grandi liturgisti degli anni 20,30,40? Anzitutto erano tutti preti, non dimentichiamolo! E i preti, anche con il rito antico, qualche esperienza l’hanno sempre fatta. Il problema è che loro, pur essendo preti, o, meglio, proprio perché erano davvero preti, capivano che quella “forma rituale” non permetteva alla assemblea di celebrare. E per questo si sono battuti, almeno alcuni tra loro, anche per la riforma di quei riti.

Mi viene con forza la domanda: Sono così chiari i punti del Messale del 1570-1962 che sono contrario alla costituzione Sacrosanctum Concilium? Ne siamo certi che non è possibile la partecipazione cosciente, attiva, fruttuosa con i libri precedenti alla riforma? Mi pare capire che per te c’è una contradizione tra il Messale di 1962 e SC48… ho capito bene? In fondo i libri liturgici con i quali hanno celebrato i padri conciliari sono anticonciliari?

Anche qui, caro professore, lei dice quasi un poco scandalizzato, delle grandi verità. Che vanno comprese bene. Per capire facciamo anzitutto un esempio, molto impressionante. Che cosa facevano i Vescovi, al Concilio, durante la messa che apriva ogni sessione? Lo sa? Per lo più “dicevano il breviario”. Perché ognuno aveva già celebrato la messa, da solo. La riforma liturgica ci ha restituito non solo la “concelebrazione” ma anche la “veritas horarum”: secondo cui non si può “dire vespro” alle nove del mattino, mentre si ascolta la messa…come probabilmente facevano con tranquillità i vescovi al Concilio. La contraddizione del messale del 1962 non è solo con SC 48, ma anche con SC 49,50,51,52,53,54,55,56,57. Sono tutti i numeri che chiedono, apertis verbis, un messale romano (e un lezionario) che sia ricco di parola biblica, che recuperi la omelia, la preghiera universale, la unità delle due mense, le lingue vernacole, la concelebrazione e la comunione sotto le due specie. Il messale del 1962 non ha nulla di tutto questo. Non è colpa del messale del 1962 se è stato approvato un anno prima del testo di SC. E tu sai che Giovanni XXIII, quando nel 1960 ha messo in moto la commissione che avrebbe approntato il messale del 1962, aveva ben chiaro che quel messale sarebbe stato provvisorio, fino al momento in cui il Concilio non avesse provveduto ad approvarne uno nuovo, secondo gli “altiora principia” che il Concilio stesso avrebbe identificato. Tutta la storia è del tutto chiara. Non c’è alcuna possibilità sistematica di giustificare “due forme parallele” dell’unico rito romano. C’è piuttosto un’unico rito romano, che passa storicamente da una forma non adeguata ad una adeguata. Per questo la “ipotesi” di due forme parallele deve essere rapidamente accantonata. Perché non è giustificata né sul piano sistematico, né sul piano storico.

La verità è che mi domando se non sarebbe il momento di confrontare i due Messali, lasciando da parte gli abusi da entrambe le parti? Penso che sia giunto il momento di un vero dialogo teologico-liturgico perché a volte questo dibattito viene sostituito da pregiudizi sociologici di ambedue le parti… Mi sembra che confrontare l’uomo del 1970 e l’uomo del 2020 può sembrare evidente che l’uomo del 2020 supera l’uomo del 1970 perché nella vita dell’uomo 50 anni sono molti anni. Ma nella vita della liturgia con 2000 anni di antichità cosa sono 50 anni? Nel suo esempio penso che sarebbe più giusto metteremmo a confronto l’uomo del 2010 con quello del 2020 e in questo caso le differenze non sono così tante… siamo sicuri che queste due fotografie dello stesso soggetto sono così diverse?

Le fotografie da comparare sono 1962 e 2020. Io credo che oggi non vi sia più alcuna ragione per tenere in piedi una finzione “a fin di bene” che si è trasformata in una mistificazione lacerante: è durata già troppo. Del rito romano abbiamo una sola forma adeguata, quella del 1970. Se si vuole usare quella del 1962 è solo perché non si accetta il passaggio del Concilio, che è stato voluto da due papi e da 2000 vescovi. E che è irreversibile. Chi non la vuole lavora contro la storia e contro la Chiesa.

Caro professore e collega infine metto alla prova la tua pazienza e vorrei farti un’ultima domanda:

– quando è qualcosa di abituale e lodevole avere una creatività liturgica all’interno del rito romano che vede ogni tipo di sperimentazione ed esperienza senza apparentemente rompere la comunione ecclesiale e senza che i Vescovi del luogo siano troppo preoccupati, perché vivere una forma che ha quasi mille anni è così pericolosa per la comunione ecclesiale da costituire una situazione di emergenza? Non potrebbe essere, tornando alle considerazioni del punto b, che è inquietante che la validità dei libri prima e dopo il Concilio possa mostrarci che la Chiesa, i sacramenti e la fede non sono cambiati, perché non possono cambiare? Un cambiamento nelle forme non significa un cambiamento nella fede, o mi sbaglio? Per alcuni una liturgia rinnovata include egualmente una espressione differente della fede e dei cambiamenti teologici, tu la pensi così?

I livelli sono tre: c’è il livello della fede, c’è il livello del rito (ordo) e c’è il livello della tradizione concreta, con cui la fede si esprime nel rito e il rito dà voce, canto, movimento, luce alla fede. Non credo, però, che una identità di rito possa fare a meno di interrogarsi sul rapporto tra forme diverse. Altra cosa è, infatti, se la differenza di forma deriva da una diversa modalità di esprimere la stessa fede, legata a differenze di carattere culturale, geografico o di tradizione. Altra cosa è se le diverse forme sono in stretto rapporto genealogico e la seconda ha intenzionalmente voluto sostituire la prima, con una decisione assunta al più alto livello da parte di un Concilio Ecumenico. In questo caso il persistere dell’uso della forma precedente può essere solo concesso “ad tempus”, per situazioni particolari, la cui esistenza, già nel 1984, H. U. Von Balthasar considerava abbastanza rara. Di certo questo non può valere nella modalità che si è pretesa con la disciplina introdotta da Summorum Pontificum. Ogni persistenza strutturale della forma precedente costituisce di fatto un attentato al valore liturgico, ecclesiale e spirituale della forma successiva.

P.S. Penso che per il grande pubblico darebbe molta più forza alla lettera aperta se si mettese dove insegnano o dove sono teologi questi benemeriti 180 firmatari della lettera

Il tuo suggerimento è prezioso. Vorrei in questi giorni dare forma più completa all’elenco dei firmatari, precisando i luoghi di insegnamento dei firmatari.

 Grazie mille Andrea per la tua pazienza e la tua comprensione. Continuerò a leggere il tuo blog con interesse come faccio da tanto tempo, anche se non condivido tante volte quello che dici ma è sempre interessante potersi confrontare con altre idee per migliorare la comprensione e l’amore per la liturgia.

Un abbraccio pasquale,

Prof. Silvestre

Caro Juan, il nostro dialogo penso che possa risultare prezioso. Ti sono grato e ricambio gli auguri per il tempo pasquale, che ci accompagnerà ancora per lunghi giorni, dando luce a tempi incerti e travagliati.

Un bel saluto

Andrea

 

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