La donna e il ministero: alcune distinzioni di Michelina Tenace


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Sul ministero e la donna: le parole di M. Tenace al Simposio in Vaticano.

Tra “generare” e “mettere al mondo” una distinzione sistematica poco chiara

 

Non ho potuto seguire il recente Simposio sulla “teologia fondamentale del sacerdozio”, ma ho ricevuto la sbobinatura dell’intervento della Prof. Michelina Tenace, che tocca uno dei nodi sensibili della riflessione su “ministero/sacerdozio” e che merita di essere letto e commentato. Ovviamente mi rifaccio non ad un testo pubblicato, ma alla sbobinatura di un testo parlato. Con tutta la approssimazione che questo comporta sia per chi parla sia per chi ascolta e sbobina e infine per chi legge.

Cionondimeno credo sia una buona occasione per mettere a punto alcune idee di fondo, a cui ci richiama il testo breve ma intenso della prof. Tenace e del quale deve essere ringraziata.

Il tenore e l’impianto del discorso

Lo sbobinato del discorso, che immagino di circa 20 minuti, copre poco più di due pagine fitte. Ed è intenso il regime della argomentazione. Provo a dipanare la matassa.

I passaggi più importanti

Alcune parole appaiono immediatamente di grande rilievo. Presento qui le 4 più fondamentali:

a) Circa il ministero femminile, non si tratta di “ripristinare qualcosa”, ma di attingere profeticamente alla tradizione che viene non solo dal passato, ma dal futuro. Una sorta di “fedeltà al futuro” appare con grande forza nel testo, a partire dalla esperienza di collaborazione con la prima Commissione sul diaconato. Leggere la Scrittura e la tradizione indica che le donne hanno partecipato alla evangelizzazione della carità per tutti. Ripristinare è un anacronismo, mentre profetica è la ricerca di novità. Ha senso riflettere su ciò che alle donne non è stato dato, perché questo ha coinciso con una deriva maschilista e clericalista della Chiesa. Urgente è ripristinare ministeri istituiti per le donne “non per un riconoscimento della dignità delle donne, ma per un riconoscimento della vera identità della Chiesa”.

b) Se la chiesa non chiama, il ministero rischia di essere considerato un diritto. Servire non è un diritto, ma un dovere. Il dovere di servizio ha trovato una forma storica nella struttura gerarchica. E il discernimento sul ministero femminile riguarda il bene del popolo di Dio, nelle diverse culture. Di qui Tenace desume che “per non essere una risposta dettata dall’onda di un’ideologia (parentesi: “femminista” significa argomentare sul diritto), la riflessione sui ministeri ha dovuto tornare alla fonte. Qual è la fonte? Il Battesimo, da dove nasce e fiorisce ogni vocazione”. Una vera riscoperta del “sacerdozio di tutti i battezzati” viene sottolineata con grande forza e indicata come un compito da svolgere con convinzione, fuori da schemi maschilisti o androcentrici.

c) La dignità non riguarda solo il servizio sacerdotale: “Per questo è una contraddizione pensare che il sacerdozio concesso alle donne darebbe un modo di riconoscere la loro dignità”. Occorre chiedersi quali siano i bisogni reali degli uomini e delle donne di oggi, per evitare di ridurre la promozione dei laici alla zona di influenza della eucaristia e dell’altare. Di qui la conclusione: “Allora ci sembra che la questione del ministero delle donne soffra di due riduzioni: la riduzione della dignità di ogni ministero alla dignità del sacerdozio ministeriale, e la riduzione della dignità del sacerdozio ministeriale al sacerdozio di Cristo in quanto maschio”.

d) L’ultimo passaggio è molto denso: “Uomo e donna sono due realtà che esprimono una diversità complementare rispetto al generare: secondo il proprio genere gli uomini generano, le donne mettono al mondo (gli uomini generano, le donne mettono al mondo); così, simbolicamente, uomini e donne partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo che ha affidato la Chiesa a coloro che generano, in virtù del sacerdozio ministeriale, e a coloro che mettono al mondo, in virtù del sacerdozio comune, in una reciproca dipendenza e sostegno”.

I punti che meritano una discussione

Dal testo emergono almeno tre punti su cui il Simposio può aver avuto il merito di sollevare la attenzione e di alimentare la discussione. Provo a formulare le domande a cui M. Tenace ha offerto risposte importanti, ma non univoche e talora non persuasive:

a) Le logiche di dovere e di diritto (nel servizio) come si intrecciano sul tema della “dignità”?

Se la dignità alla donna viene dal “sacerdozio battesimale”, e poi dalla possibilità di “servire” il corpo della Chiesa, proprio il battesimo, nella sua logica di servizio, di acquisizione delle virtù e di sviluppo dei carismi, piò aprirsi alle strade del matrimonio e del ministero ordinato. La logica sacramentale è chiara: la Chiesa ha bisogno di sopperire ai limiti dei soggetti individuali: vuole una istituzione matrimoniale ed una istituzione ecclesiale. Il fatto che l’accesso al ministero ordinato debba essere considerato escluso sulla base della dignità, riferita per la donna esclusivamente al sacerdozio battesimale, non è un punto sistematicamente chiaro. Che la “vocazione femminile” sia al matrimonio ma non al ministero ordinato è certo una pacifica evidenza della società chiusa. Ma quando la società e la chiesa si apre, come possiamo ricostruire la dignità del soggetto in modo non predeterminato? Un percorso differenziato di “dignità” tra uomini e donne rischia di usare un concetto di “dignitas” che non è stato messo alla prova di “Dignitatis Humanae”. Questa è la mia prima perplessità, che pongo al ricco testo di M. Tenace.

b) In quale senso dovrebbe essere evidente che le donne “non hanno diritto al sacerdozio”?

Qui, come è noto, si debbono usare fonti necessariamente: da un lato abbiamo pronunciamenti che, senza argomentazioni forti e con riferimento soltanto al passato, escludono la possibilità che la donna possa essere soggetto di “ordinazione sacerdotale”, ma senza escludere che possa accedere al diaconato. Tuttavia questo testo del 1994 (Ordinatio sacerdotalis) non esclude affatto che si dia una teologia che lavori sulle ragioni di questo divieto. E che si interroghi, però, non solo “apologeticamente”, ma “in mondo fondamentale”. Sappiamo che una tradizione interna alla teologia cattolica vorrebbe limitare la funzione del teologo a dare sostegno alle posizioni che il magistero di volta in volta assume. Vi è però, soprattutto sulle questioni che non sono pacifiche, la funzione di una teologia che esplora il campo delle argomentazioni che permettono al magistero di dire in modo più pieno e più completo la verità. Una duplice postura del magistero della cattedra magistrale rispetto al magistero della cattedra pastorale è vitale soprattutto sui temi più delicati. Come già diceva W. Boeckenfoerde, su questo punto specifico il diritto canonico del 1983, che prescriverebbe il silenzio teologico di fronte ai veri problemi, è un arretramento rispetto al 1917. Dobbiamo pacatamente discutere sulle evidenze che cambiano. Altrimenti facciamo solo teologia di autorità. E questo è sempre un segno di debolezza e di irrilevanza.

c) In che modo la “differenza tra maschile e femminile” potrebbe essere veramente compresa in termini di “generare maschile” e di “mettere al mondo femminile”?

Proprio ciò che M. Tenace elabora come contributo sistematicamente più fine, vale a dire i due concetti del “generare” e del “mettere al mondo”, come qualificazioni della specifico maschile e femminile, dovrebbe funzionare come giustificazione sistematica alla prospettiva assunta. Ma qui io fatico a seguire e avrei bisogno di capire più a fondo la legittimazione sistematica di questa distinzione. Che cosa ha alle spalle? Una antropologia fondamentale tradotta in “funzioni ecclesiali”? Una ripresa della similitudine dei due “princìpi” (petrino e mariano) elaborati da Von Balthasar? Come la differenza tra “generare” e “mettere al mondo” permetterebbe di escludere che la donna possa partecipare non solo del sacerdozio battesimale, ma anche di quello ministeriale, mi risulta ancora piuttosto oscuro. Ad una lettura sicuramente non del tutto fedele e forse neppure corretta, potrebbe sembrare quasi una forma di resistenza apologetica a nuove forme di riconoscimento della dignità della donna. Ciò che Tenace chiama “femminismo” e che collega direttamente e criticamente alla “domanda di diritti”, non credo che possa essere letto semplicemente come una ideologia. Come se la domanda di diritti della donna (ma due secoli prima anche dell’uomo) non fosse un punto decisivo per la acquisizione di quella “humana dignitas”, che ha profondamente modificato l’approccio alla tradizione, ovviamente solo dopo che la “libertà di coscienza” è stata riconosciuta da “Dignitatis Humanae”. Qui, a me pare, si apre uno spazio di riflessione che non trovo sviluppato, ma direi solo delimitato, nel testo di Tenace e che potrebbe aiutare a elaborare categorie sistematiche meno suscettibili di una ingiusta riduzione apologetica. Questo corrisponderebbe meglio alla intenzione originaria con cui il “tema femminile” è entrato nel dibattico cattolico ufficiale, proprio con il testo singolarmente profetico di “Pacem in terris”, a quale vorrei dedicare l’ultimo passaggio.

Dignità e “spazio pubblico”

Ciò che risulta centrale, nel testo dell’ultima enciclica di papa Giovanni, è un “atto di riconoscimento”, un riconoscimento di autorità. Il percorso è stato lungo e accidentato e ha trovato, a lungo, una profonda sordità ecclesiale. La esclusione delle donne da ogni autorità trovava, fin da Tertulliano, parole di sostegno. Anche quando veniva ammessa, era profondamente limitata all’ambito privato. Le donne potevano leggere, insegnare e battezzare, ma solo in privato. La novità è entrata nel magistero della Chiesa cattolica con Pacem in terris (1963), che mette il dito nella piaga, invitando a considerare come un “segno dei tempi” l’ingresso della donna nella vita pubblica. Riascoltiamo le parole di papa Giovanni, del 1963, quando ricordava:

un fatto a tutti noto, e cioè l’ingresso della donna nella vita pubblica: più accentuatamente, forse, nei popoli di civiltà cristiana; più lentamente, ma sempre su larga scala, tra le genti di altre tradizioni o civiltà. Nella donna, infatti, diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica.”

E poco più avanti aggiungeva:

In moltissimi esseri umani si va così dissolvendo il complesso di inferiorità protrattosi per secoli e millenni; mentre in altri si attenua e tende a scomparire il rispettivo complesso di superiorità, derivante dal privilegio economico-sociale o dal sesso o dalla posizione politica”.

Questo testo, nella sua potente semplicità, mi pare che ci dovrebbe aiutare a non utilizzare criteri sistematici nei quali, in modo più o meno diretto, continua a sopravvivere quel criterio per cui gli uomini stanno in pubblico e le donne in privato. E’ difficile aggirare questo ostacolo, che era la evidenza di una società chiusa, nella quale la funzione “pubblica” della autorità sacerdotale non poteva in nessun modo riguardare una donna. E non credo che una “antropologia” o una “teologia” possa pensare di restaurare, sul piano sistematico, ciò che si è rivelato come una ideologia sociale e culturale. Qui ideologico non è parlare di diritto delle donne, ma non parlarne. Il loro servizio può essere davvero tale solo se corrisponde ad una pienezza di autorità possibile, da cui nessuno è escluso, non perché lo faccia valere come un diritto, ma perché la Chiesa possa davvero trovare risposta ai suoi bisogni, senza preclusioni o pregiudizi. Per questo motivo né il femminismo, né il riferimento al diritto possono essere ridotti ad “apriori negativi”, rinunciando ai quali il teologo cattolico costruisce la sua argomentazione “de muliere”, “de ministerio” ed anche “de sacerdotio”. Un dibattito favorito dalla bella sintesi offerta da M. Tenace, che sappia integrare questi aspetti problematici, sarebbe in grado di dire una parola veramente fresca e davvero nuova nel quadro della tradizione cattolica sul rapporto tra donna e ministero, senza dover forzare la distinzione tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale a fungere anche come una differenza di genere.

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