La materia dell’eucaristia e il microscopio della Congregazione. A proposito della lettera ai Vescovi del 15 giugno 2017
Se la Congregazione per il Culto divino, sulla scia di Redemptionis Sacramentum (2004) e della circolare sul “rito di pace” (2014) , si occupasse di “materia eucaristica” (“sul pane e il vino per l’Eucaristia”) e lo facesse preoccupata soltanto di “combattere gli abusi”, dimenticando di essere stata trasformata dal Concilio Vaticano II in struttura ufficiale di formazione all’uso prima che di lotta all’abuso – allora ancora una volta ci troveremmo di fronte ad una paradosso: proprio dal centro della curia romana verrebbero discorsi che – pur apparendo in sé corretti – contribuirebbero per la loro impostazione a distorcere gravemente la esperienza eucaristica e non aiuterebbero alla crescita degli usi, limitandosi semplicemente a “combattere abusi”. La realtà è purtroppo già oltre questa mera ipotesi. Propongo qui alcune riflessioni, un poco scandalizzate dal nuovo testo del 15 giugno scorso, e che potranno forse contenerne l’impatto negativo sulle comunità cristiane.
Il testo
Si tratta di un testo breve, di soli 7 numeri, che mira a frenare alcune “degenerazioni” ritenute assai dannose per la vita eucaristica e spirituale delle comunità. Tali degenerazioni riguardano la produzione e la commercializzazione del pane e vino destinati alla eucaristia. Si richiamano i pronunciamenti precedenti e si invitano le conferenze episcopali a definire strategie più adeguate per il controllo della produzione e del mercato nazionale.
La miopia dell’approccio
L’approccio alle questioni si muove all’interno del classico sapere sulla “materia valida” e ritiene che il rapporto con la “materia” possa ridursi semplicemente alla eliminazione di nuovi e vecchi abusi. Il testo sembra aver totalmente dimenticato quello che SC stabilisce in modo chiaro. Ossia che la relazione con la liturgia – non solo eucaristica – non può essere ridotta alle condizioni di validità di una materia, ma deve estendersi all’uso della materia stessa secondo codici e linguaggi molteplici. La tradizione dell’ultimo secolo ha sviluppato una più ricca coscienza dello spessore della “materia”, che non è mai solo “materia prima”, ma anche “materia storica” e “materia simbolica”. Il livello su cui la lettera spende tutte le sue parole è soltanto quello della “materia fisica”, livello sicuramente necessario, ma mai sufficiente a definire il quadro di una esperienza autenticamente sacramentale. Il “pane” e il “vino” non sono mai semplicemente la loro “composizione chimica”, ma sono “storie di vita” e “simboli di riconoscimento” che devono essere onorati tanto quanto il livello materiale. Risolvere gli abusi eucaristici solo sul piano fisico, sul piano della produzione o della commercializzazione, e dimenticare che la materia media sempre anche una storia di popoli e una simbolica di comunione e di libertà è una grave forma di autoreferenzialità, della quale la Chiesa dovrebbe liberarsi, e che non dovrebbe invece essere addirittura ribadita con una lettera ai Vescovi da parte della Congregazione!
Le questioni non toccate
Ciò che con questo approccio viene totalmente rimosso e messo a tacere è che “pane” e “vino”, non essendo mai soltanto “materia”, debbono entrare in una cultura e in una simbolica, che da almeno 200 anni non è più soltanto quella europea o mediterranea. Le diverse culture di 5 continenti vivono le simboliche e le storie di “pane” e di “vino” in modo assai diverso da Roma. Recenti studi di teologi africani dimostrano, ad esempio, che ai tempi di Gesù, in Palestina, il pane non fosse di frumento, ma di miglio. Questo non ha impedito alla Chiesa di assumere il “pane di frumento” come materia ordinaria della eucaristia, ma perché mai un “uso diverso” dovrebbe apparire – immediatamente e recisamente – come un “abuso”? E’ qui in opera la stessa logica in base alla quale il “canto di pace” dovrebbe essere considerato sempre un “abuso”, sulla base della assolutizzazione di una “assenza di canto” che nella tradizione corrispondeva alla “assenza del rito di pace”.
Le soluzioni semplicistiche
La stessa perplessità dovrebbe essere sollevata per il modo con cui nella lettera viene affrontata la “celiachia” o la produzione della materia mediante “ogm”: non onorare una nuova consapevolezza patologica insorta nella comunità civile e trascurare le problematiche produttive intorno al “grano” e all’”uva” costituiscono una conferma della impostazione riduttiva e direi “meschina” della lettera. Meschino è pretendere di affrontare le questioni riguardanti “pane” e “vino” con un glossario e con un immaginario che vede solo “materie valide o invalide” e non vede affatto “cammini storici” e “luoghi simbolici”. Questo impedisce alla Congregazione di esercitare una funzione autorevole. E la rinchiude nel gioco di specchi di un linguaggio autoimplicativo, vecchio e senza rapporto con le questioni reali.
Tutta la attenzione sulla “materia”, abbassata al livello di “garanzie di produzione”, perde non solo il livello storico e simbolico della esperienza eucaristica, ma anche orienta la Chiesa verso una grave dimenticanza: l’effetto ultimo della eucaristia, infatti, non è il pane e vino che diventano “corpo di Cristo”, ma è la unità della Chiesa, che diventa “corpo di Cristo”. Una attenzione ossessiva circa gli “abusi intorno alla materia fisica” è spesso soltanto il frutto di una teologia eucaristica troppo fragile, troppo limitata e troppo unilaterale. Uno scrupolo troppo esasperato sulla materia rivela il pericolo di uno scivolone materialistico, con cui si pretenderebbe di difendersi dalla storia e dalla cultura, recludendo le questioni nel campo visivo di un microscopio. Ma di “makrothumia”, non di “mikrothumia” abbiamo bisogno!
Sono solo parzialmente d’accordo con lei. La materia della Eucaristía ha a che vedere con la Pasqua d’Israele e con la veritâ del’Incarnazione in tanto Jesucristo ê la vera incarnazione del Verbo, e lo fâ in un popolo, in una religione, una cultura e una storia. E solo con questa reale e vera incarnazione si puô sostenera sia la sacramentalitâ della Chiesa che l’inculturazione del cristessimo in tutte le culture, popoli e momenti della storia.
Altrimenti faremmo dei sacrementi e dell’Incarnazione una semplice ideologîa o pure un idealismo o spiritualismo molto lontano della vita della fede sia catolica che ortodossa.
Nella Pasqua si usa pane di mazzat e vino kosher.
“Sovente sulle mense del popolo d’Israele era presente il pane di orzo. Tuttavia per l’offerta dei pani al tempio e per celebrare la Pasqua si usava il pane più nobile, cioè di frumento, come attesta ancora oggi la tradizione ebraica. Se a causa di una diversa datazione dell’Ultima cena di Gesù, nella Chiesa d’Oriente (salvo qualche eccezione) si usa il pane fermentato e in Occidente quello azzimo (senza lievito), come nella Pasqua ebraica, per quanto riguarda la materia mai si ebbero dubbi sul pane di frumento. Solo negli ultimi decenni, tenendo conto delle culture dove il pane di frumento non costituisce l’alimento normale, ci si è chiesto se non sia possibile cambiare la materia dell’Eucaristia. Per fedeltà a ciò che storicamente ha fatto Gesù, la Chiesa non ritiene di poterla cambiare.”
(citando don Silvano Sirboni, parroco nella diocesi di Alessandria)
…mi chiedo come abbiano stabilito questi anonimi “teologi africani” con che materiale venisse prodotto il pane in Palestina ai tempi di Gesù…
ditemi che è uno scherzo, per favore!
[…] de un modo desproporcionado como puede corroborarse en los dos artículos que escribió (aquíy aquí) en el término de pocas horas despotricando contra la Curia Romana. En mi opinión, su […]