La teologia cordiale e il cuore forte di P. Giovanni Salonia
Lo scalpore intorno alle notizie che hanno riguardato la vicenda di P. Giovanni Salonia – nominato nel febbraio del 2017 Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi di Palermo, ma la cui ordinazione è stata sospesa, a causa delle gravissime calunnie sollevate nei suoi confronti subito dopo la nomina, fino a configurare un caso vero e proprio di “abuso al contrario”, oggi chiarito dal suo pieno proscioglimento in sede penale – dovranno anche far riflettere sui “veri obiettivi” di tutta questa carica di odio e di insulto. E’ certo che appare sempre più chiaro come il vero obiettivo di tutta questa macchina della diffamazione – siciliana e romana – fosse papa Francesco e l’Arcivescovo Corrado Lorefice. Ciò che conforta è che, anche grazie alla solerzia del tribunale penale, che ha prosciolto l’accusato da ogni contestazione, possiamo dire che è possibile resistere alle tentazioni anche nei deserti delle curie siciliane e romane. Ma è anche molto utile ricordare che P. Giovanni non è stato solo la vittima di una macchinazione senza vergogna, ma è anche uomo di pensiero e di cultura teologica. Alcuni mesi fa è stato presentato il volume, a lui dedicato per i 70 anni, nel quale ho scritto un testo che presento qui e che riguarda il particolare modo “cordiale” con cui P. Giovanni ha fatto teologia, psicologia e pastorale, a livello scientifico, da molti anni. Lo traggo da A. Sichera – V. Conte, “Avere a cuore”. Scritti in onore di Giovanni Salonia, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2019.
La teologia come soggetto e come oggetto di cordialità
“Le anime hanno un loro particolar modo di intendersi, d’entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali”
(L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cap. XI)
Una lunga e affermata tradizione, che attraversa tutta la storia della Chiesa, non ha mai dimenticato ciò che Agostino, Schleirmacher, Kierkegaard, Barth e von Balthasar hanno coltivato e valorizzato attraverso i secoli: ossia la consapevolezza profonda e radicata di una destinazione “edificante” di ogni buona teologia. Dove “edificante” indica una strutturale esigenza di “correlazione” dell’oggetto immenso al soggetto finito. Ciò indica, evidentemente, non soltanto una esigenza contestuale e accessoria della teologia, ma una sua caratteristica strutturale. Non è che “possa” esservi teologia edificante. E’ che la teologia, ogni teologia, o è edificante o non è teologia, ma una sua caricatura. Sotto questo profilo di lettura trovo che il contributo che Giovanni Salonia ha dato alla riflessione teologica italiana – soprattutto in campo spirituale e morale – offra un bell’esempio di questa tensione, che sfida le categorie di una teologia classica, scolastica e manualistica, che ha preso da secoli una certa distanza da questa destinazione edificante. Ciò è dovuto, contemporaneamente, a due fattori, paralleli e reciproci: ossia ad un deficit “soggettivo” e ad una carenza “oggettiva” della teologia: in altri termini questo esito dipende da come la teologia si è saputa percepire nella storia – e ancor oggi – come “soggetto” e come “oggetto” di un sapere edificante e cordiale.
Ciò che qui è in gioco è lo statuto stesso del sapere teologico e del complesso equilibrio di evidenza e di autorità a cui esso deve necessariamente fare ricorso, per essere pienamente se stesso. Su questo punto della questione, effettivamente, abbiamo assistito in campo cattolico ad una lunga stagione di diffidenza tra il sapere teologico e le cosiddette “scienze umane”, facilmente etichettate, almeno da fine XIX in poi, come “scienza aliene”. Il recupero di un significativo rapporto tra “sapere della fede” e “sapere comune” ha impiegato più di un secolo a riabilitarsi dalla cattività a cui era stato e si era costretto nell’impatto con il mondo moderno. Ma tale recupero ancora stenta ad entrare tra le evidenze del lavoro teologico. In effetti non è raro leggere o sentir dire che il teologo avrebbe un campo del sapere del tutto autonomo da tutti gli altri saperi, filosofici e storici, filologici e scientifici. Nel lavoro di Giovanni Salonia è apparsa decisiva, in una forma assai significativa, la “evidenza psicologica” del soggetto credente. Anche qui, tuttavia, non basta dire “psicologia”. Vi è, infatti, psicologia e psicologia. E il teologo sa fin troppo bene smontare le pretese psicologiche, fissando il lavoro dello psicologo sui suoi presupposti impliciti, positivistici o materialistici che siano. Ma anche qui, ancora una volta, scattano nella teologia dei “meccanismi difensivi”, che sono all’opera da più di un secolo, e che tuttavia non permettono mai di entrare “in medias res”. Ciò che lo psicologo vuole segnalare viene in qualche modo ridotto ai suoi presupposti (errati) e perciò non considerato. Anzi, viene guardato con sospetto e con sufficienza.
La attenzione per la “forma” (Gestalt), che caratterizza la scuola psicologica cui appartiene Giovanni Salonia, costituisce un medium assai importante per assicurare una interazione significativa tra evidenza psicologia e autorità teologica, ma anche, viceversa, tra evidenza teologica e autorità psicologica. Su questo rapporto complesso vorrei soffermare brevemente la mia attenzione.
La teologia come “soggetto di cordialità”
Lo scrupolo metodologico, che ho voluto indicare fin dall’inizio come centrale nella mia analisi, non è affatto una divagazione. Anzi, a me pare il contributo più rilevante offerto dal pensiero del nostro autore, che è, nello stesso tempo frate cappuccino, psicologo professionista e teologo. Questo suo profilo, in effetti, potrebbe far pensare che il “lato cordiale” derivi, in modo molto accentuatamente soggettivo, dal fatto che il nostro teologo è, contemporaneamente frate e psicologo. Ciò aggiungerebbe, diciamo così estrinsecamente, una componente “cordiale” al sapere teologico, che di per sé sarebbe una dottrina e una disciplina “spassionata”. Questa rappresentazione non solo non è fedele a Giovanni Salonia, ma è anche distorta e “di comodo” in generale, perché trascura precisamente la struttura “metodica” di questa cordialità, che potremmo dire costitutiva del sapere teologico in quanto tale. In altri termini, Giovanni Salonia, precisamente attraverso il gioco di “evidenza/autorità” che ha strutturato e valorizzato nella relazione tra teologia e psicologia, ci permette di riscoprire in modo assai efficace la destinazione edificante della buona teologia. La deformazione, che pretende dalla teologia anzitutto il profilo dottrinale/disciplinare è, appunto, una deformazione, che la “forma psicologica” (Gestalt) è in grado di smascherare, di correggere, di decongestionare e di riconciliare. Una teologia “soggetto di cordialità” è allora non semplicemente un “ideale religioso” – che facilmente attribuiamo al teologo frate o al papa gesuita – ma una esigenza originaria di questa forma di sapere. La teologia è nata, almeno nella tradizione cristiana, come attestazione autorevole del primato dell’amore sulla morte. Questo è il suo cuore, che non può mai essere davvero comunicato nelle forme di una dottrina ridotta a pietra da scagliare o di una disciplina ridotta a una legge da applicare: esige un “fondo” diverso, un discernimento accorato e cordiale, su cui Giovanni Salonia ha lungamente lavorato, con esiti fecondi, illuminanti e confortanti.
La teologia come “oggetto di cordialità”
Ma non basta. La teologia necessita non solo di un approccio che le restituisca la cordialità come soggetto di un sapere comune – sottraendole il ruolo stereotipato di un sapere accigliato, indifferente e severo -, ma, contemporaneamente la riabilita ad essere guardata, osservata, studiata e giudicata in modo cordiale. Il secondo aspetto di questo “ripensamento” appare ancora più insolito e sorprendente del primo. Giudicare “cordialmente” la teologia, guardandola da fuori, è diventato tanto difficile quanto sperimentarla capace di giudicare “cordialiter” dal suo interno. Il meccanismo dello scontro “modernismo/atimodernismo” – che è scontro Chiesa/Stato – non lascia spazio ad altro. Introducendo uno schema di “scontro” tra teologia e cultura moderna, esso determina il tramonto di ogni possibile cordialità: sia di quella soggettiva di cui la teologia sia capace, sia di quella oggettiva di cui la cultura sia all’altezza. Così si fa spietato, e quasi scontato, il giudizio del teologo sulla scienza e altrettanto spietato e scontato il giudizio della scienza sulla teologia. Questo copiono è ancora una sorta di “non detto” di molte parole di molti pensieri. Anche il “dispositivo Ratzinger” – che per 30 anni ha dominato la cultura teologica ufficiale cattolica – rispondeva, in fondo, a questo modello di pensiero. Giovanni Salonia si è liberato di questo schema, e ha lavorato in campo teologico con schemi psicologici e in campo psicologico con schemi teologici. E lo ha fatto non per “corrompere” le due discipline, ma per stare all’altezza di una psicologia non modernistica e di una teologia non antimodernistica. Questa scommessa è ben presente in tutto ciò che Giovanni Salonia ha prodotto, in questi decenni di attività religiosa, psicologica e teologica. Nel suo modo di leggere la tradizione cristiana e cattolica non cade mai nella trappola di ridurre la fede ad un “contenuto”. E propone continuamente una strategia feconda e innovativa: accetta di lavorare con “evidenze psicologica” in campo teologico e con “evidenze teologiche” in campo psicologico. Questo intreccio determina un profondo rinnovamento del linguaggio e dell’approccio, che si colloca nell’alveo di quell’aggiornamento e di quello stile che il Concilio Vaticano II ha richiesto, già 55 anni fa, alla Chiesa cattolica. Anche p. Giovanni, non solo biograficamente, ma culturalmente ed ecclesialmente, è un figlio del Concilio, da cui ha imparato il linguaggio della parrhesia e lo stile della misericordia.
Conclusioni
Alla luce di queste brevi considerazioni, la riscoperta della “cordialità teologica” risulta niente affatto questione marginale o accessoria. Una teologia capace di cordialità attiva e passiva, di agire cordialmente e di essere trattata cordialmente, è una istanza originale, una testimonianza storica, ma anche un grande ideale, il nostro ideale comune. Camminiamo verso questa forma, anche se non la abbiamo mai del tutto a disposizione. L’annuncio dell’amore di Dio, che può toccare il cuore di tutti gli uomini e le donne, si scontra con le grandi disperazioni, le cecità, le frustrazioni, le resistenze, le negazioni, le ossessioni, che dominano in modo tanto forte il cuore di tutti noi. Per questo la teologia può facilmente essere tentata di rifugiarsi nella luce abbagliante dei principi, e la psicologia, rispettivamente, nella ferialità di gestioni umane e morali di corto respiro e di breve gittata. Nella riflessione di Giovanni Salonia queste due vie di fuga appaiono chiuse. Senza una ripresa del “cuore” – sfrondato di tutte le retoriche spiritualistiche o psicologistiche – la parola teologica diventa un rischioso nascondiglio, una rimozione strutturale, un equivoco del desiderio, una violenza esercitata e quasi esigita, sull’altro e su di sé.
Per concludere, se, come dice GS 46, noi possiamo fare i conti con la tradizione solo alla luce “del Vangelo e della esperienza umana”, in questo cammino meravigliosamente complesso, non opzionale ma necessario, possiamo inserire anche il lavoro sulle persone e sulle nozioni, che Giovanni Salonia ha svolto in questi decenni, e che ancora per tanti anni potrà offrire alla Chiesa e alla cultura, siciliana ed italiana. E mi sento di dire: mai come in questo momento ne abbiamo bisogno, come cristiani e come cittadini, di questa Chiesa e di questa nazione, attraversate da idee e passioni tanto grandi e da pulsioni e istinti tanto oscuri.