Oltre “Liturgiam authenticam”. Criteri per assicurare una vera fedeltà alla traditio/traductio
Nella nuova fase di confronto ecclesiale intorno alle “traduzioni liturgiche”, provo ad isolare tre livelli diversi della questione. Ad ognuno di essi corrisponde una diversa “definizione di liturgia”, un diverso “paradigma partecipativo” e un più o meno necessario “processo di Riforma liturgica”. Perciò dovremo giudicare della questione della “traduzione” in vista di una questione della “tradizione”, ecclesiale in senso lato e liturgica in senso stretto. La domanda che ci poniamo viene da Girolamo e può essere formulata così: come si può “essere fedeli” alla tradizione della antica dottrina mediante una “traduzione”? Che cosa comporta il “tradurre”? Nelle risposte cercherò di identificare tre modelli, pensati utilizzando le categorie introdotte da G. Lindbeck nel suo testo fondamentale La natura della dottrina1.
1. Il livello della fedeltà alla formulazione/rivestimento (da verbale a verbale) – lettura proposizionale della dottrina/traditio
Il primo caso della “fedeltà” è, in buona sostanza, la riproposizione di una tradizione che “non può cambiare in nulla”, nemmeno nella sua espressione. Vi è, in qualche modo, la certezza – che rasenta e spesso oltrepassa la illusione – che le lingue moderne, le lingue vernacole, possano/debbano essere semplicemente il “calco” della lingua latina, della quale si assume la “normatività” a livello liturgico. Vi è persino la “pretesa” di bloccare le lingue moderne mediante il “glossario” del CCC! Ciò che è “dottrinale”, assunto dagli schemi catechistici, pretenderebbe di essere “normativo” per la stesura delle traduzioni dei testi liturgici.
Si consideri, ad es., il modo con cui LA pretende di imporre la norma secondo cui, nella traduzione, “il genere letterario e retorico dei vari testi della liturgia romana deve essere conservato” (AL, 41). E’ assai curioso che ciò che è tipico di una modalità “espressivo/esperienziale” di un ambito linguistico – ad es quello latino-romano – sia assunto quasi come un modello espressivo che si dovrebbe imporre alle altre tradizioni linguistiche. Questa pretesa rivela una comprensione “strumentale” e, insieme, monumentale, della lingua. Ciò che conta, in fondo, in questa prima forma di approccio – che in fondo troviamo espressa con questa nettezza (e rozzezza) soltanto dal 2001 in qua – è la corrispondenza formale, verbale e sintattica, che dovrebbe essere perseguita nel modo più forte possibile. Già Girolamo era consapevole che questa via, assunta come tale, non è affatto una soluzione. Egli diceva che nel tradurre: “Se seguo parola per parola, non ha senso; se sono costretto a cambiare l’ordine del testo o le sue espressioni, mi sembra di essere infedele al mio compito di traduttore”2
In realtà il discorso che viene proposto da LA trova la sua giustificazione come opposizione ad una “teoria liberale” del tradurre, che viene espressa con molta forza al n. 19 del testo: “Le parole della Sacra Scrittura, come pure le altre che vengono pronunciate nelle celebrazioni liturgiche […] non vanno considerate in primo luogo come se fossero quasi lo specchio della disposizione interiore dei fedeli; esse esprimono delle verità che superano i limiti imposti dal tempo e dallo spazio” (LA 19).
E’ evidente, quindi, che la “ratio” del documento del 2001 sta in una reazione apologetica rispetto ad una “deriva” post-conciliare, percepita come espressione di un soggettivismo e relativismo liberale.
A questo proposito si possono fare due osservazioni:
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non vi è dubbio che il rischio di “traduzioni troppo libere” possa aver segnato la produzione di testi successivi a Comme le prévoit e che fosse necessario richiamare le singole Conferenze episcopali ad una maggiore attenzione;
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d’altra parte, una risposta che pretenda di riportare ordine nella liturgia romana riconducendo la pluralità delle lingue a semplici “strumenti” per la comunicazione delle “res” dette e pensate in latino, questo appare, francamente, un rimedio peggiore del male.
La diagnosi, per quanto esasperata e resa quasi apocalittica, ha una sua pertinenza. Ma la terapia proposta da LA è, in larga parte, priva di fondamento teorico e di vera praticabilità. Il rischio è che i testi, prodotti secondo questo criterio “rassicurante”, siano di fatto inutilizzabili nelle lingue vive. E che le lingue vive, proprio per questo, rivendichino a loro volta, a causa di questa impostazione, una autonomia ancora maggiore. Il che, d’altra parte, è incluso nella valutazione originaria della “mediazione linguistica della fede”, che non può essere sequestrata da un’unica tradizione, per quanto antica e autorevole.
Il ultima analisi, lo ripeto, è sempre più diffusa una salutare produzione di “liturgia latina non in latino”. Questo non è un “errore cui rimediare”, un difetto di procedimento, o, eggio, un abuso, ma è il frutto della “vita nella sua inesauribilità”, che attinge alla parola biblica per tradurla in forma di preghiera, di invocazione, di lode, di benedizione, di rendimento di grazie: forme sempre nuove, perché strutturate originariamente nel “pensiero delle lingue vernacole”. Le “lingue vernacole”, in altri termini, non sono semplici strumenti di espressione del contenuto di fede, ma forme originarie di pensiero credente. Su questo punto LA è del tutto inadeguata, quasi cieca, o, meglio, accecata dalla assolutizzazione della logica apologetica con cui imposta il rapporto con il mondo, la cultura e la storia.
2. Il livello della fedeltà alla sostanza della tradizione (da verbale/concettuale a verbale/concettuale) – una lettura esperienzial-espressivistica della dottrina/traditio
Una diversa lettura della fedeltà – che solo in parte corrisponde alla prospettiva offerta da Comme le prévoit – non si limita a considerare il rapporto tra parola e parola, ma indirizza la propria attenzione ad un “rapporto di rapporti”: una parola sta al suo significato in un contesto linguistico come un’altra parola sta allo stesso significato in un altro contesto linguistico. Questa, potremmo dire, è stata la grande apertura di libertà che il post-concilio ha saputo e voluto respirare. Sono le “corrispondenze dinamiche” che integrano/sostituiscono le “corrispondenze statiche, formali, letterali”.
La considerazione che Comme le prévoit propone delle diverse prospettive su cui “tarare” la traduzione – ciò che è scritto, chi lo scrive, per chi è scritto e in che modo è scritto – aiuta a considerare la relazione strutturale tra “sostanza” e “rivestimento” secondo una maggiore ricchezza, anche se non scongiura affatto una “riduzione soggettivistica” del linguaggio, diametralmente opposta, ma altrettanto rischiosa, rispetto alla sua versione “oggettivistica”.
Potremmo dire così: tanto la lettura classica – oggettivistica – quanto la lettura erroneamente attribuita all’immediato post-concilio – e che può essere detta soggettivistica – non riescono a valorizzare appieno il ruolo che la lingua svolge per l’accesso del soggetto alla tradizione dottrinale e vitale.
Se infatti a una “lettura proposizionale della dottrina” – che corrisponde alla assolutizzazione della “traduzione letterale” – contrapponiamo una “lettura esperienziale della dottrina” – che corrisponde alla assolutizzazione del “significato interiore – finiamo per perdere, in realtà, il senso del contesto rituale che dà forma e autorità alla “esperienza canonica” del testo scritturistico e dell’ordo rituale.
Una duplice illusione minaccia la contrapposizione tra letture “oggettivistiche” e letture “soggettivistiche”. Quella di poter affrontare la questione della traduzione senza ricostruire il contesto rituale di riferimento e di poter fare i conti con il “significato” nella breve relazione tra “parola” e “concetto”.
Per questo occorre percepire e identificare un terzo livello, più profondo e più elementare della questione, che in qualche modo è presente nelle intenzioni di Comme le prévoit, ma che è esplicitamente escluso dall’approccio – rigidamente oggettivistico – proposto dalla V Istruzione LA.
3. Il livello della integralità della esperienza da mediare (da verbale/non verbale a verbale/non verbale) – lettura cultural-linguistica della dottrina/traditio
Che cosa accade, con il Concilio Vaticano II? Che il primo modello di garanzia della continuità della tradizione viene effettivamente e irreversibilmente superato. Ed è superato proprio nell’atto stesso in cui, nel rito, si ammette la possibilità di una “linguae vernaculae usurpatio” (SC 36). Ad esso subentra un secondo modello che è, fin dall’origine, una miscela tra secondo e terzo livello di fedeltà alla tradizione. Esso assume la novità del “soggetto moderno”, ma senza le illusioni di una “svolta liberale”, bensì con la consapevolezza di una soluzione “post-liberale”, in cui oggettivo pre-liberale e soggettivo liberale vengono mediati dall’”intersoggettivo” post-liberale3.
Lo spazio inaugurato dal Concilio Vaticano II è, in sostanza, il superamento del modello di traduzione proposto – per la prima volta, in modo tanto ingenuo – soltanto da Liturgiam authenticam! Potremmo quasi dire che lo spazio della traduzione si è dischiuso nel momento in cui la “svolta pastorale” ha potuto concepire che la “sostanza della dottrina” poteva assumere una “diversa formulazione del suo rivestimento”. Questo è lo spazio della traduzione, nel quale la Chiesa cattolica si è lanciata con un impegno e un ardimento, non immuni da possibili eccessi, ma con tutta la accortezza e la sagacia necessaria.
Il tentativo di annullamento di questo spazio è nato dalla paura. In altri termini, quando ci si è resi conto non solo dei rischi che si erano corsi, ma anche degli errori effettivamente commessi, si è potuto pensare che la “continuità della tradizione” potesse essere garantita riproponendo il modello dottrinale classico, proposizionale, in una duplice forma, efficace anche nel rito:
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o mediante il rito latino preconciliare, e quindi rinunciando a tradurre (non solo le parole, ma anche le sequenze, i ministeri, le modalità di partecipazione, i canti, le vesti…)
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o mediante il rito riformato conciliare, ma “ridotto” alla sua forma latina, semplicemente traslitterata nelle lingue vernacole.
Di fronte a questo sviluppo paradossale,occorre chiedersi lungo quale direzione sia oggi possibile evitare questo esito paradossale, per cui, per ostacolare una “deriva liberale e disgregante” ci si è sentiti costretti a smentire la saggia apertura conciliare, contraddicendo il principio stesso che giustifica il Concilio, ossia la “differenza” tra formulazione e sostanza della dottrina.
Oggi abbiamo bisogno di un “modello intersoggettivo” di traduzione/tradizione. Un tale modello, a me pare, consiste di tre livelli di “nuova percezione”, che già troviamo attestati nel Concilio Vaticano II e che hanno dato buona prova di sé in più di un caso subito dopo il Concilio, ma che con il tempo si sono come “offuscati” e “smarriti per strada”.
Questi tre principi costituiscono, di fatto, il riscontro più autorevole per poter impostare correttamente una “fedeltà” alla tradizione mediata anche dalla “traduzione”. Illudersi che il “tradurre” possa essere un “atto tecnico” che prescindastrutturalmente dalla competente interpretazione di questa triplice novità è una prospettiva tanto ingenua quanto nostalgica, che non può più avere alcun senso in futuro. I tre livelli su cui è messa alla prova una “teoria della traduzione” costituiscono – non a caso – i punti-chiave del testo di SC. Potremmo dire che una teoria come quella di LA è derivata – oltre che dalla reazione agli abusi – da una profonda dimenticanza del testo di SC. LA, diversamente da Comme le Prevoit, pretende di poter cogliere e custodireuna autenticità liturgica indipendentemente dalla svolta pastorale del Concilio Vaticano II. Essa presume di stare nella tradizione indipendentemente dal tradurre, ex auctoritate e “di per sé”.
Invece il testo di SC – tanto spesso citato a parole, ma nei fatti quasi dimenticato – impone di non poter proporre questa soluzione semplicistica al problema particolare del tradurre e alla questione generale della liturgia. E lo fa indicando tre elementi nuovi di cui occorre tener conto:
– una diversa “definizione di liturgia”, che in quanto “actio sacra” non sia mai riducibile a “ritus servandus”; la natura “simbolico rituale” della liturgia, sulla cui comprensione questi 50 anni, grazie alla Riforma Liturgica, hanno acceso il comune interesse, ci ha permesso di condurre una riflessione sul “linguaggio” che può orientare diversamente le priorità e le interrelazioni tra diversi codici comunicativi;
– un diverso “paradigma partecipativo”, che superi le forme individualistiche e cerimonialistico-esteriori di delega al sacerdote di un atto “cui assistere”, recuperando invece una comprensione “multimediale” dell’azione rituale e uscendo da modalità troppo intellettualistiche e funzionalistiche di “assistenza intelligente”
– un necessario “processo di Riforma liturgica”, che consenta ai testi rituali e alle sequenze celebrative di non ostacolare, ma anzi di favorire tanto la nuova esperienza del rito cristiano quanto le forme corporee di partecipazione ad esso. Di questo processo fa parte quel vertere(tradurre) che non si lascia determinare semplicemente come una “tecnica di trasposizione”, ma implica costitutivamente una interpretazione non solo intelligente, ma emozionata e sensibile.
La “questione del tradurre” è sorta all’interno di questo grande atto di ripensamento della tradizione. Essa è parte costitutiva dell’atto riformatore. Se viene proposta una “teoria del tradurre” che smentisce la “svolta pastorale”, che propone una esperienza di tradizione che non ha bisogno di un “nuovo rivestimento” per accedere alla propria sostanza, ma che ha immediatamente rapporto con la propria sostanza, in una lingua che si è immunizzata una volta per tutta dalla storia, allora è evidente che tutti gli altri elementi che qualificano tale svolta vengono travolti o rimossi o comunque compromessi.
E’ un trucco molto semplice, ma troppo facilmente smascherabile, quello di irrigidire il rapporto con il “tradurre” per impedire che ognuno di questi tre livelli citati – la nuova nozione di liturgia, la nuova forma di partecipazione e la riforma dei riti – venga seriamente sottoposto non all’arbitrio dei singoli, ma alla necessaria “svolta pastorale”: questo è il cuore del Concilio Vaticano II, che ha nella sua qualità di “evento linguistico” la caratteristica forse più decisiva.
1 Cfr. G. A. Lindbeck, La natura della dottrina. Religione e teologia in un’epoca postliberale, Torino, Claudiana, 2004 (l’edizione originale è del 1984).
2 La citazioni di S. Gerolamo è tratta da Paolo VI, Discorso ai partecipanti, e citata in F. Pieri, Sangue versato per chi?, 163.
3 Per una presentazione più ampia di questi “tre stili” cfr. A. Grillo, Introduzione alla teologia liturgica. Approccio teorico alla liturgia e ai sacramenti cristiani, Padova, EMP-Abbazia S. Giustina, 2011, 539-551, sotto il titolo Il Concilio Vaticano II ‘sub specie liturgica’: tre diverse prospettive di lettura della liturgia (oggettiva, soggettiva e intersoggettiva.
Caro Andrea,
Dopo leggere il tuo articolo con attenzione e vivo interesse ho dovuto come altre volte stamparlo ed studiarlo con un po’ di calma.
Benché dopo farò dei commenti concreti al testo mi vengo per primo due domande:
a) Cosa sono per te le edizioni tipiche? Le edizione tipiche dei libri liturgici usciti dopo il Concilio Vaticano II? Lo dico perché della lettura dell’articolo sembrerebbe che è tutto da fare, che tutta la svolta pastorale non è stata fatta con l’apparizione dei nuovi libri liturgici e che devono venire i traduttori a fare questa svolta pastorale. Per me l’edizione tipica è la fede fatta preghiera che la Chiesa mi offre. E dopo il Concilio Vaticano II la Chiesa mi ha offerto già questa fede fatta preghiera con i nuovi libri, fede fatta preghiera che include tutta la svolta pastorale dal Concilio. Allora non è tanto seguire il latino ma seguire l’editio typica dei libri che sono in se stessi modello di svolta pastorale.
b) Per te esiste una fede universale? Esiste una verità? So che per alcuni liturgisti una delle cose peggiori per la Chiesa sarebbe la pubblicazione di un Catechismo, io non mi trovo tra quelli, anzi lo adopero come Catechismo del Concilio Vaticano II che è. Lì si legge:
“172 Da secoli, attraverso molte lingue, culture, popoli e nazioni, la Chiesa non cessa di confessare la sua unica fede, ricevuta da un solo Signore, trasmessa mediante un solo Battesimo, radicata nella convinzione che tutti gli uomini non hanno che un solo Dio e Padre [Cf ⇒ Ef 4,4-6 ]. Sant’Ireneo di Lione, testimone di questa fede, dichiara: 173 “In realtà, la Chiesa, sebbene diffusa in tutto il mondo fino alle estremità della terra, avendo ricevuto dagli Apostoli e dai loro discepoli la fede…, conserva questa predicazione e questa fede con cura e, come se abitasse un’unica casa, vi crede in uno stesso identico modo, come se avesse una sola anima ed un cuore solo, e predica le verità della fede, le insegna e le trasmette con voce unanime, come se avesse una sola bocca” [Sant’ Ireneo di Lione, Adversus haereses, 1, 10, 1-2]. 174 “Infatti, se le lingue nel mondo sono varie, il contenuto della Tradizione è però unico e identico. E non hanno altra fede o altra Tradizione né le Chiese che sono in Germania, né quelle che sono in Spagna, né quelle che sono presso i Celti (in Gallia), né quelle dell’Oriente, dell’Egitto, della Libia, né quelle che sono al centro del mondo. . . ” [Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses, 1, 10, 1-2]. “Il messaggio della Chiesa è dunque veridico e solido, poiché essa addita a tutto il mondo una sola via di salvezza” [Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses, 1, 10, 1-2]. 175 “Questa fede che abbiamo ricevuto dalla Chiesa, la conserviamo con cura, perché, sotto l’azione dello Spirito di Dio, essa, come un deposito di grande valore, chiuso in un vaso prezioso, continuamente ringiovanisce e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene” [Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses, 1, 10, 1-2]”
Lo dico perché alle volte dei tuoi articoli sembrerebbe che questa fede universale non esiste e per questo capisco che si può fare fatica a capire cosa è un’editio typica di un libro liturgico.
Se andiamo al testo concreto mi fermavo in alcuni punti:
– Il punto 50 b) di LA fa riferimento al criticato glossario di CCC ma non capisco perché è così scandaloso. Lo riporto per “scandalizzare” i lettori:
“LA 50. Poiché i libri liturgici del Rito romano contengono molte parole fondamentali della tradizione teologica e spirituale della Chiesa romana, si ponga grande cura nel mantenere questo vocabolario, a non sostituirlo con altri termini estranei all’uso liturgico e catechetico del popolo di Dio in un determinato contesto culturale ed ecclesiale. Perciò si devono osservare specialmente i seguenti principi:
– a) Nella traduzione di parole che hanno una rilevanza teologica particolare, si cerchi una conveniente corrispondenza tra il testo liturgico e la traduzione in lingua vernacola del Catechismo della Chiesa cattolica approvata dall’autorità, se una tale traduzione esiste o è in preparazione nella lingua in questione o in una lingua molto affine.
– b) Parimenti, quando non fosse appropriato mantenere lo stesso vocabolo o la stessa espressione nel testo liturgico come nel Catechismo, il traduttore deve fare in modo che venga reso tutto il senso dottrinale e teologico che è contenuto nei vocaboli e nell’insieme del testo stesso.
– c) I vocaboli che si sono via via sviluppati in una lingua vernacola per distinguere i singoli ministri della liturgia, i vasi sacri, le suppellettili e le vesti da persone e cose simili nella vita ed uso quotidiano, siano conservati e non vengano sostituiti da parole prive di tale carattere sacro.
– d) Nella traduzione di parole di grande importanza dev’essere mantenuto un criterio costante nel corso delle varie parti della liturgia, tenendo dovuto conto delle norme formulate sotto al n. 53”
– Immagino che il riferimento AL 41 è sbagliato. Penso ti riferisci a LA ma non vedo quale problema possa avere quel punto. Lo riporto per vedere:
“LA 41. Ci si impegni affinché le traduzioni siano conformi all’interpretazione dei passi biblici trasmessa dall’uso liturgico e dalla tradizione dei padri della Chiesa, soprattutto quando si tratta di testi di grande importanza, come i salmi e le letture usate nelle principali celebrazioni dell’anno liturgico; in questi casi occorre vigilare attentamente che la traduzione esprima il senso cristologico, tipologico o spirituale tramandato e manifesti l’unità e il nesso fra l’Antico e il Nuovo Testamento.34 Perciò:
– a) conviene attenersi alla Neo-Volgata, quando fosse necessario scegliere, fra i diversi modi possibili di tradurre un testo, quello più idoneo ad esprimere il senso dato al testo dalla lettura tradizionale e accolto nella tradizione liturgica latina;
– b) a tale scopo ci si riferisca anche alle antiche traduzioni della sacra Scrittura, come la versione greca dell’Antico Testamento comunemente detta la “Settanta”, che è stata usata dai fedeli fin dai primi tempi della Chiesa;35
– c) secondo una tradizione immemorabile, già posta in evidenza nella citata versione dei “Settanta”, il nome di Dio onnipotente, espresso in ebraico dal tetragramma sacro (JHWH), e tradotto in latino con la parola Dominus, sia reso in ogni lingua vernacola con un vocabolo di significato equivalente.
– Infine i traduttori siano vivamente invitati a prendere in attenta considerazione la storia dell’esegesi quale si può desumere dai passi biblici citati negli scritti dei padri della Chiesa e anche dalle illustrazioni della Bibbia frequentemente presentate nell’arte e negli inni liturgici cristiani”
– Il tuo commento su LA 19 mi ricorda il passo di GV 18,38: “Che cos’è la verità?”.!” Ma in certo qual modo mi ricorda AL 34 che non mi hai consigliato di leggere ma forse è anche interessante: “AL, 34: Se questi rischi si trasferiscono al modo di intendere la famiglia, questa può trasformarsi in un luogo di passaggio, al quale ci si rivolge quando pare conveniente per sé, o dove si va a reclamare diritti, mentre i vincoli rimangono abbandonati alla precarietà volubile dei desideri e delle circostanze. In fondo, oggi è facile confondere la genuina libertà con l’idea che ognuno giudica come gli pare, come se al di là degli individui non ci fossero verità, valori, principi che ci orientino, come se tutto fosse uguale e si dovesse permettere qualsiasi cosa. In tale contesto, l’ideale matrimoniale, con un impegno di esclusività e di stabilità, finisce per essere distrutto dalle convenienze contingenti o dai capricci della sensibilità. Si teme la solitudine, si desidera uno spazio di protezione e di fedeltà, ma nello stesso tempo cresce il timore di essere catturati da una relazione che possa rimandare il soddisfacimento delle aspirazioni personali.
– Quando parli del rito latino preconciliare ti ricordo che tra Vetus Ordo e Novus Ordo ci sono sottolineature diverse ma tutti e due sono cattolici, tutti e due sono liturgia. Purtroppo i sacramenti e la Chiesa sono eguali prima e dopo il Concilio Vaticano II.
– Nella mia opinione la differenza tra formulazione e sostanza che propizia il Concilio Vaticano II lo ha fatto la Chiesa con la pubblicazione delle edizioni tipiche di tutti i libri liturgici. È un compito della Chiesa non dei traduttori.
– Non so se le mie concezioni sono ingenue e nostalgiche, sono concezioni e come tale vanno rispettate come tanti altri fanno con le tue benché non sono d’accordo.
– L’ultima parte è la più interessante e corposa. E vero l’azione liturgica è azione sacra non riconducibile a ritus servandus ma sì riconducibile a ritus et preces datti dalla Chiesa. Penso che SC 48 e SC 26 e chiara su questo…
– Sul paradigma della partecipatio in linea di principio sono d’accordo ma bisogna vedere cosa capiamo su partecipatio
– Sul processo di riforma liturgica non posso essere d’accordo. La svolta pastorale è stata fatta da tanti che hanno lavorato nei nuovi libri liturgici. L’edizione tipica rispecchia questa svolta, non bisogna cominciare da capo, bisogna approfondire, spiegare, formare. Non sono d’accordo con il cantiere permanentemente aperto in questo caso dai traduttori che fanno un compito che non e il suo. Mi pare che il lavoro come dice Francesco si riferisce: “all’impegno per una solida e organica iniziazione e formazione liturgica, tanto dei fedeli laici quanto del clero e delle persone consacrate”. I testi liturgici che rispecchiano la svolta pastorale del Concilio Vaticano II esistono già, sono quelli delle edizione tipiche. Adesso bisogna essere fedeli a questi che hanno lavorato prima di noi e tradurre fedelmente quello che la Chiesa ha fatto suo.
Grazie come sempre per il tuo dialogo.
Caro José, il presupposto di un dialogo è una comunione. Questo è l’orizzonte. Ma perché il dialogo possa fiorire, occorre mettersi in sintonia con ciò che l’altro scrive e pensa. In quello che tu scrivi io trovo una difficoltà di fondo: tu pensi che la verità e la universalità della Chiesa possa essere garantita mediante procedure amministrative di una Curia romana. Questo modello non funziona più da almeno un secolo. Si basa su presupposti ecclesiali e intellettuali vecchi e inadeguati. Ma la cosa grave è che tu pensi che, se non si difende la verità e la universalità in questo modo arcaico, non ci si crede più. Io, e tanti come me, proprio perché vogliono difendere la verità e la universalità della fede, cercano nuove vie per farlo. E sanno che, se si perseverasse in queste prospettive chiuse, si farebbe il gioco del “nemico”. Non si risponde al problema della traduzione con la logica amministrativa della “editio typica”. Perché il problema non è risolto dalla editio typica – che usano solo gli ufficiali di curia – ma dal bisogno di “usare nelle lingue vive” gli ordines liturgici. Questo “uso” è ciò che dà significato, non il monumento latino che nessuno usa. QUesto passaggio la Chiesa lo ha fatto da soli 50 anni. Siamo ancora giovani. E tu sei più giovane di me, e dovresti essere ancora più audace di me nel pensare la verità e la universalità non semplicemente come una questione amministrativa. Ma su questo, come vedi bene anche tu, parliamo due lingue diverse. E non c’è tra noi un latino che possa fare da mediazione.
Caro Andrea,
Devo riconoscere che la tua risposta mi ha lasciato un po’ sorpresso.
Probabilmente il motivo è la mia formazione accademica a sant’Anselmo. Lì avevo imparato ad amare le fonti liturgiche e anche ho potuto vedere come il lavoro del Consilium, dopo il concilio Vaticano II, si è tradotto nella pubblicazione delle editio typiche dei libri liturgici dal 1968 fino al 1984 fondamentalmente. Sembrava chiaro che i grandi principi della Sacrosanctum Concilium erano stati tradotti e accolti nei nuovi libri liturgici, nelle sue edizione tipiche in latino che sarebbero la base per le traduzione alle lingue parlate. Ma non era nel passaggio al vernacolare il momento nel quale la svolta pastorale e conciliare veniva fatta ma molto prima. Gli uomini del Consilium avevano lavorato molto prima delle traduzioni e avevano lavorato per “tradurre” il Concilio nei testi liturgici. Ma della tua risposta “si capisce” che le edizioni tipiche rispondono a una logica amministrativa, vengono usate soltanto degli ufficiali di curia. Poveri uomini del Consilium e tutti i grandi che hanno lavorato nei testi latini…
Forse a questa tua idea si potrebbe applicare quello del “spirito” del Concilio. Forse per te i testi de i libri liturgici secondo le edizione tipiche non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi liturgici delle edizione tipiche rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità.
Un caro saluto