Oltre “Liturgiam authenticam”. Criteri per assicurare una vera fedeltà alla traditio/traductio


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Nella nuova fase di confronto ecclesiale intorno alle “traduzioni liturgiche”, provo ad isolare tre livelli diversi della questione. Ad ognuno di essi corrisponde una diversa “definizione di liturgia”, un diverso “paradigma partecipativo” e un più o meno necessario “processo di Riforma liturgica”. Perciò dovremo giudicare della questione della “traduzione” in vista di una questione della “tradizione”, ecclesiale in senso lato e liturgica in senso stretto. La domanda che ci poniamo viene da Girolamo e può essere formulata così: come si può “essere fedeli” alla tradizione della antica dottrina mediante una “traduzione”? Che cosa comporta il “tradurre”? Nelle risposte cercherò di identificare tre modelli, pensati utilizzando le categorie introdotte da G. Lindbeck nel suo testo fondamentale La natura della dottrina1.

 1. Il livello della fedeltà alla formulazione/rivestimento (da verbale a verbale) – lettura proposizionale della dottrina/traditio

 Il primo caso della “fedeltà” è, in buona sostanza, la riproposizione di una tradizione che “non può cambiare in nulla”, nemmeno nella sua espressione. Vi è, in qualche modo, la certezza – che rasenta e spesso oltrepassa la illusione – che le lingue moderne, le lingue vernacole, possano/debbano essere semplicemente il “calco” della lingua latina, della quale si assume la “normatività” a livello liturgico. Vi è persino la “pretesa” di bloccare le lingue moderne mediante il “glossario” del CCC! Ciò che è “dottrinale”, assunto dagli schemi catechistici, pretenderebbe di essere “normativo” per la stesura delle traduzioni dei testi liturgici.

Si consideri, ad es., il modo con cui LA pretende di imporre la norma secondo cui, nella traduzione, “il genere letterario e retorico dei vari testi della liturgia romana deve essere conservato” (AL, 41). E’ assai curioso che ciò che è tipico di una modalità “espressivo/esperienziale” di un ambito linguistico – ad es quello latino-romano – sia assunto quasi come un modello espressivo che si dovrebbe imporre alle altre tradizioni linguistiche. Questa pretesa rivela una comprensione “strumentale” e, insieme, monumentale, della lingua. Ciò che conta, in fondo, in questa prima forma di approccio – che in fondo troviamo espressa con questa nettezza (e rozzezza) soltanto dal 2001 in qua – è la corrispondenza formale, verbale e sintattica, che dovrebbe essere perseguita nel modo più forte possibile. Già Girolamo era consapevole che questa via, assunta come tale, non è affatto una soluzione. Egli diceva che nel tradurre: “Se seguo parola per parola, non ha senso; se sono costretto a cambiare l’ordine del testo o le sue espressioni, mi sembra di essere infedele al mio compito di traduttore”2

In realtà il discorso che viene proposto da LA trova la sua giustificazione come opposizione ad una “teoria liberale” del tradurre, che viene espressa con molta forza al n. 19 del testo: “Le parole della Sacra Scrittura, come pure le altre che vengono pronunciate nelle celebrazioni liturgiche […] non vanno considerate in primo luogo come se fossero quasi lo specchio della disposizione interiore dei fedeli; esse esprimono delle verità che superano i limiti imposti dal tempo e dallo spazio” (LA 19).

E’ evidente, quindi, che la “ratio” del documento del 2001 sta in una reazione apologetica rispetto ad una “deriva” post-conciliare, percepita come espressione di un soggettivismo e relativismo liberale.

A questo proposito si possono fare due osservazioni:

  • non vi è dubbio che il rischio di “traduzioni troppo libere” possa aver segnato la produzione di testi successivi a Comme le prévoit e che fosse necessario richiamare le singole Conferenze episcopali ad una maggiore attenzione;

  • d’altra parte, una risposta che pretenda di riportare ordine nella liturgia romana riconducendo la pluralità delle lingue a semplici “strumenti” per la comunicazione delle “res” dette e pensate in latino, questo appare, francamente, un rimedio peggiore del male.

La diagnosi, per quanto esasperata e resa quasi apocalittica, ha una sua pertinenza. Ma la terapia proposta da LA è, in larga parte, priva di fondamento teorico e di vera praticabilità. Il rischio è che i testi, prodotti secondo questo criterio “rassicurante”, siano di fatto inutilizzabili nelle lingue vive. E che le lingue vive, proprio per questo, rivendichino a loro volta, a causa di questa impostazione, una autonomia ancora maggiore. Il che, d’altra parte, è incluso nella valutazione originaria della “mediazione linguistica della fede”, che non può essere sequestrata da un’unica tradizione, per quanto antica e autorevole.

Il ultima analisi, lo ripeto, è sempre più diffusa una salutare produzione di “liturgia latina non in latino”. Questo non è un “errore cui rimediare”, un difetto di procedimento, o, eggio, un abuso, ma è il frutto della “vita nella sua inesauribilità”, che attinge alla parola biblica per tradurla in forma di preghiera, di invocazione, di lode, di benedizione, di rendimento di grazie: forme sempre nuove, perché strutturate originariamente nel “pensiero delle lingue vernacole”. Le “lingue vernacole”, in altri termini, non sono semplici strumenti di espressione del contenuto di fede, ma forme originarie di pensiero credente. Su questo punto LA è del tutto inadeguata, quasi cieca, o, meglio, accecata dalla assolutizzazione della logica apologetica con cui imposta il rapporto con il mondo, la cultura e la storia.

 2. Il livello della fedeltà alla sostanza della tradizione (da verbale/concettuale a verbale/concettuale) – una lettura esperienzial-espressivistica della dottrina/traditio

Una diversa lettura della fedeltà – che solo in parte corrisponde alla prospettiva offerta da Comme le prévoit – non si limita a considerare il rapporto tra parola e parola, ma indirizza la propria attenzione ad un “rapporto di rapporti”: una parola sta al suo significato in un contesto linguistico come un’altra parola sta allo stesso significato in un altro contesto linguistico. Questa, potremmo dire, è stata la grande apertura di libertà che il post-concilio ha saputo e voluto respirare. Sono le “corrispondenze dinamiche” che integrano/sostituiscono le “corrispondenze statiche, formali, letterali”.

La considerazione che Comme le prévoit propone delle diverse prospettive su cui “tarare” la traduzione – ciò che è scritto, chi lo scrive, per chi è scritto e in che modo è scritto – aiuta a considerare la relazione strutturale tra “sostanza” e “rivestimento” secondo una maggiore ricchezza, anche se non scongiura affatto una “riduzione soggettivistica” del linguaggio, diametralmente opposta, ma altrettanto rischiosa, rispetto alla sua versione “oggettivistica”.

Potremmo dire così: tanto la lettura classica – oggettivistica – quanto la lettura erroneamente attribuita all’immediato post-concilio – e che può essere detta soggettivistica – non riescono a valorizzare appieno il ruolo che la lingua svolge per l’accesso del soggetto alla tradizione dottrinale e vitale.

Se infatti a una “lettura proposizionale della dottrina” – che corrisponde alla assolutizzazione della “traduzione letterale” – contrapponiamo una “lettura esperienziale della dottrina” – che corrisponde alla assolutizzazione del “significato interiore – finiamo per perdere, in realtà, il senso del contesto rituale che dà forma e autorità alla “esperienza canonica” del testo scritturistico e dell’ordo rituale.

Una duplice illusione minaccia la contrapposizione tra letture “oggettivistiche” e letture “soggettivistiche”. Quella di poter affrontare la questione della traduzione senza ricostruire il contesto rituale di riferimento e di poter fare i conti con il “significato” nella breve relazione tra “parola” e “concetto”.

Per questo occorre percepire e identificare un terzo livello, più profondo e più elementare della questione, che in qualche modo è presente nelle intenzioni di Comme le prévoit, ma che è esplicitamente escluso dall’approccio – rigidamente oggettivistico – proposto dalla V Istruzione LA.

3. Il livello della integralità della esperienza da mediare (da verbale/non verbale a verbale/non verbale) – lettura cultural-linguistica della dottrina/traditio

Che cosa accade, con il Concilio Vaticano II? Che il primo modello di garanzia della continuità della tradizione viene effettivamente e irreversibilmente superato. Ed è superato proprio nell’atto stesso in cui, nel rito, si ammette la possibilità di una “linguae vernaculae usurpatio” (SC 36). Ad esso subentra un secondo modello che è, fin dall’origine, una miscela tra secondo e terzo livello di fedeltà alla tradizione. Esso assume la novità del “soggetto moderno”, ma senza le illusioni di una “svolta liberale”, bensì con la consapevolezza di una soluzione “post-liberale”, in cui oggettivo pre-liberale e soggettivo liberale vengono mediati dall’”intersoggettivo” post-liberale3.

Lo spazio inaugurato dal Concilio Vaticano II è, in sostanza, il superamento del modello di traduzione proposto – per la prima volta, in modo tanto ingenuo – soltanto da Liturgiam authenticam! Potremmo quasi dire che lo spazio della traduzione si è dischiuso nel momento in cui la “svolta pastorale” ha potuto concepire che la “sostanza della dottrina” poteva assumere una “diversa formulazione del suo rivestimento”. Questo è lo spazio della traduzione, nel quale la Chiesa cattolica si è lanciata con un impegno e un ardimento, non immuni da possibili eccessi, ma con tutta la accortezza e la sagacia necessaria.

Il tentativo di annullamento di questo spazio è nato dalla paura. In altri termini, quando ci si è resi conto non solo dei rischi che si erano corsi, ma anche degli errori effettivamente commessi, si è potuto pensare che la “continuità della tradizione” potesse essere garantita riproponendo il modello dottrinale classico, proposizionale, in una duplice forma, efficace anche nel rito:

  • o mediante il rito latino preconciliare, e quindi rinunciando a tradurre (non solo le parole, ma anche le sequenze, i ministeri, le modalità di partecipazione, i canti, le vesti…)

  • o mediante il rito riformato conciliare, ma “ridotto” alla sua forma latina, semplicemente traslitterata nelle lingue vernacole.

 Di fronte a questo sviluppo paradossale,occorre chiedersi lungo quale direzione sia oggi possibile evitare questo esito paradossale, per cui, per ostacolare una “deriva liberale e disgregante” ci si è sentiti costretti a smentire la saggia apertura conciliare, contraddicendo il principio stesso che giustifica il Concilio, ossia la “differenza” tra formulazione e sostanza della dottrina.

Oggi abbiamo bisogno di un “modello intersoggettivo” di traduzione/tradizione. Un tale modello, a me pare, consiste di tre livelli di “nuova percezione”, che già troviamo attestati nel Concilio Vaticano II e che hanno dato buona prova di sé in più di un caso subito dopo il Concilio, ma che con il tempo si sono come “offuscati” e “smarriti per strada”.

Questi tre principi costituiscono, di fatto, il riscontro più autorevole per poter impostare correttamente una “fedeltà” alla tradizione mediata anche dalla “traduzione”. Illudersi che il “tradurre” possa essere un “atto tecnico” che prescindastrutturalmente dalla competente interpretazione di questa triplice novità è una prospettiva tanto ingenua quanto nostalgica, che non può più avere alcun senso in futuro. I tre livelli su cui è messa alla prova una “teoria della traduzione” costituiscono – non a caso – i punti-chiave del testo di SC. Potremmo dire che una teoria come quella di LA è derivata – oltre che dalla reazione agli abusi – da una profonda dimenticanza del testo di SC. LA, diversamente da Comme le Prevoit, pretende di poter cogliere e custodireuna autenticità liturgica indipendentemente dalla svolta pastorale del Concilio Vaticano II. Essa presume di stare nella tradizione indipendentemente dal tradurre, ex auctoritate e “di per sé”.

Invece il testo di SC – tanto spesso citato a parole, ma nei fatti quasi dimenticato – impone di non poter proporre questa soluzione semplicistica al problema particolare del tradurre e alla questione generale della liturgia. E lo fa indicando tre elementi nuovi di cui occorre tener conto:

– una diversa “definizione di liturgia”, che in quanto “actio sacra” non sia mai riducibile a “ritus servandus”; la natura “simbolico rituale” della liturgia, sulla cui comprensione questi 50 anni, grazie alla Riforma Liturgica, hanno acceso il comune interesse, ci ha permesso di condurre una riflessione sul “linguaggio” che può orientare diversamente le priorità e le interrelazioni tra diversi codici comunicativi;

– un diverso “paradigma partecipativo”, che superi le forme individualistiche e cerimonialistico-esteriori di delega al sacerdote di un atto “cui assistere”, recuperando invece una comprensione “multimediale” dell’azione rituale e uscendo da modalità troppo intellettualistiche e funzionalistiche di “assistenza intelligente”

– un necessario “processo di Riforma liturgica”, che consenta ai testi rituali e alle sequenze celebrative di non ostacolare, ma anzi di favorire tanto la nuova esperienza del rito cristiano quanto le forme corporee di partecipazione ad esso. Di questo processo fa parte quel vertere(tradurre) che non si lascia determinare semplicemente come una “tecnica di trasposizione”, ma implica costitutivamente una interpretazione non solo intelligente, ma emozionata e sensibile.

 La “questione del tradurre” è sorta all’interno di questo grande atto di ripensamento della tradizione. Essa è parte costitutiva dell’atto riformatore. Se viene proposta una “teoria del tradurre” che smentisce la “svolta pastorale”, che propone una esperienza di tradizione che non ha bisogno di un “nuovo rivestimento” per accedere alla propria sostanza, ma che ha immediatamente rapporto con la propria sostanza, in una lingua che si è immunizzata una volta per tutta dalla storia, allora è evidente che tutti gli altri elementi che qualificano tale svolta vengono travolti o rimossi o comunque compromessi.

E’ un trucco molto semplice, ma troppo facilmente smascherabile, quello di irrigidire il rapporto con il “tradurre” per impedire che ognuno di questi tre livelli citati – la nuova nozione di liturgia, la nuova forma di partecipazione e la riforma dei riti – venga seriamente sottoposto non all’arbitrio dei singoli, ma alla necessaria “svolta pastorale”: questo è il cuore del Concilio Vaticano II, che ha nella sua qualità di “evento linguistico” la caratteristica forse più decisiva.

1 Cfr. G. A. Lindbeck, La natura della dottrina. Religione e teologia in un’epoca postliberale, Torino, Claudiana, 2004 (l’edizione originale è del 1984).

2 La citazioni di S. Gerolamo è tratta da Paolo VI, Discorso ai partecipanti, e citata in F. Pieri, Sangue versato per chi?, 163.

3 Per una presentazione più ampia di questi “tre stili” cfr. A. Grillo, Introduzione alla teologia liturgica. Approccio teorico alla liturgia e ai sacramenti cristiani, Padova, EMP-Abbazia S. Giustina, 2011, 539-551, sotto il titolo Il Concilio Vaticano II ‘sub specie liturgica’: tre diverse prospettive di lettura della liturgia (oggettiva, soggettiva e intersoggettiva

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