“Potere di insegnare e di battezzare” ai laici e alle donne? Dalla società dell’onore alla società della dignità


Tra le richieste emerse dal “Cammino sinodale tedesco” vi è il completo superamento di una espressione che risale a Tertulliano e che si può sintetizzare così: possono battezzare (e insegnare) i vescovi, i presbiteri, i diaconi, il laici maschi, non le donne. Si deve dire che questa posizione di Tertulliano, bene conosciuta lungo la tradizione, ha subito nel tempo grandi revisioni. Da un lato la elaborazione di una “competenza femminile” sul battesimo, legata al “caso di necessità” o al “pericolo di morte”. Accanto a ciò si ammetteva anche un “insegnamento” possibile per le donne, purché restasse rigorosamente “in privato”. Questa differenziazione valeva a due livelli:

  • sul piano naturale, la donna era collocata nella sfera privata.
  • sul piano istituzionale il compito formale era riservato al clero ordinato, non ai laici.

Così si è creato un sistema per cui la “funzioni di rappresentanza ecclesiale” si sono concentrate:

  • sui maschi piuttosto che sulle donne, per natura
  • sui chiarici piuttosto che sui laici, per istituzione.

Questo sistema funzionava non solo per grazia, ma per cultura. E’ la cultura della “società dell’onore”, che si basa sulla diseguaglianza, e che proprio così annuncia Dio e fa esperienza della trascendenza. La differenza di Dio è assicurata dalle “differenze di onore”: tra donna e uomo, tra clero e laici e dalle infinite differenze di grado interne ad ognuna di queste categorie.

Molto interessante è il fatto che dove vi sia una “differenza”, la logica della “potestas” funziona sempre: al Concilio di Trento ci sono state sessioni che sono state aperte da discorsi di “laici” (che però erano “nobili”); in diocesi tedesche nel periodo successivo al Trento ci sono stati vescovi nominati in giovanissima età (ad es. 12 anni), mai ordinati diaconi o presbiteri, direttamente consacrati vescovi, ma differenti per “nobile nascita”. L’ordine nobiliare (anche senza ordinazione ecclesiale) funzionava perfettamente nella società dell’onore. E così garantiva la “differenza di Dio”. Lo stesso re di Francia, da nobilissimo tra i nobili, passava la settimana santa sempre in preghiera nella Cappella reale!

La fine della società dell’onore e l’inaugurazione della società della dignità ha messo a dura prova tutto il sistema ministeriale della Chiesa, che si era modellato in grande sintonia con quell’archetipo. Se si guarda che cosa era il Cerimoniale dei Vescovi fino al Concilio Vaticano II, si capisce da dove viene il nostro pregiudizio sul potere episcopale. La Chiesa cattolica ha provato prima a difendersi dalla eguaglianza, identificando se stessa come societas inaequalis, ma poi ha lentamente accettato di rivedere le proprie categorie. Oggi noi siamo in mezzo al guado di questa grande “metafora”: stiamo trasportando le migliori esperienza ecclesiali dal linguaggio della società dell’onore al linguaggio della società della dignità. Atto inaugurale di questo passaggio è stata la “entrata della donna nello spazio pubblico” segnalata come “segno dei tempi” da Giovanni XXIII nel 1963. Riconoscere la dignità della donna diventava allora una questione prima per la società, poi anche per la Chiesa.

Questo passaggio, nella Chiesa, non è semplice. Perché mentre la società dell’onore proietta su Dio le infinite gerarchie del vivere umano, e vive Dio solo della evidenza delle differenze umane, la società della dignità sposta su Dio la propria eguaglianza: annuncia un Dio “uguale per tutti”, ma anche “diverso per tutti”, che rende tutti uguali, ma anche tutti diversi, e che perciò può non essere più né riconosciuto né riconoscibile.

Ecco il punto nodale: tra la società dell’onore e la società della dignità ciò che cambia è il desiderio di riconoscimento. In un mondo che non vuole differenze strutturali, ma che spera solo nella più radicale eguaglianza, i legami e le relazioni tendono a non avere più alcuna evidenza. Se siamo tutti uguali, ma tutti liberamente diversi, il mondo diventa incomprensibile e ingovernabile, disorienta e si smarrisce.

Ecco allora la sfida: come annunciare la differenza di Dio in questo contesto della “universale dignità”? Se abbiamo compreso che questo contesto non è la negazione di Dio, in che senso può ancora essere mediazione del Dio di Gesù Cristo?

La struttura sociale ed ecclesiale “per ordini” non ha più evidenza. Ma come possiamo dire la differenza di Dio, del suo amore e della sua bontà, nel mondo della eguaglianza? Ancora più a fondo: nel mondo della libertà e della eguaglianza, a che cosa serve la fraternità? Non è un caso che, mentre libertà e eguaglianza possono essere “assolute”, la fraternità è invece cura di legami, dei figli col padre e tra figli dello stesso padre. Ciò che la libertà e la eguaglianza tende a negare, la fratellanza deve presupporre e coltivare!

Annunciare la parola e celebrare il sacramento non sono più pensate come azioni riservate ad un “ordo”. Questo è uno dei nuovi luoghi comuni, di ancora parziale evidenza, propri di una Chiesa che sta imparando il linguaggio della società della dignità. Riservare la parola al Vescovo e la eucaristia al prete era la logica della Chiesa dell’onore. Questo non significa, tuttavia, superare la funzione dell’episcopato, del presbiterato e del diaconato, ma pensarli come sacramenti con nuove categorie. Nelle quali la differenza non è assicurata dall’onore, ma dalla dignità.

Se allora consideriamo in questa luce la questione, possiamo ben vedere che le ragioni che pongono vincoli insuperabili a celebrazioni “di soglia”, come sono il battesimo e la omelia, meritano un pensiero meno rigido e drastico, per quanto giustificato dal bisogno di difendere la “differenza”, non dell’onore, ma della dignità. La qualità di “soglia” del battesimo è, precisamente, di essere “porta” di ingresso nella Chiesa. La qualità di soglia della omelia è di essere “parola diretta” che può intercettare ogni vita, ogni storia, ogni domanda, ogni problema. Per questo sta nel cuore della celebrazione di una intimità, ma è anche forma liminare di annuncio.

Mi spiego meglio. E’ del tutto evidente che nella chiesa di oggi non è così impensabile né che la celebrazione del battesimo possa essere presieduta da un semplice battezzato, né che la presa di parola omiletica venga affidata a un uomo o una donna sapienti della comunità. Questo non deve scandalizzare. Piuttosto potrebbe essere scandaloso che queste opportunità non siano rivestite di “forme istituzionali”, ossia che non vengano lette come occasioni per rinnovare l’esperienza ecclesiale, in modo pieno e formale.

E’ ben comprensibile che vi siano “ministri ordinari” che si identificano, per lo più, con ministri ordinati. Guai se non fosse così. Ma non sarebbe saggio giudicare scandaloso che, secondo le circostanze e non solo “in pericolo di morte” si potesse ricorrere a “ministri straordinari” per celebrare battesimi e per tenere omelie. Perché mai nella “distribuzione della comunione” dovrebbe essere possibile ciò che si ritiene impossibile per il battesimo o per l’omelia? Ordinariamente distribuisce chi presiede o chi concelebra, ma nulla impedisce che…ordinariamente battezza il ministro ordinato, ma nulla impedisce che…normalmente tiene la omelia colui che presiede l’eucaristia, ma nulla impedisce che…

Qui non si tratta di opporre principi opposti, ma di integrare visioni differenziate. Non sono le legittime domande tedesche a negare le istanze centrali, né le giustificate istanze centrali a spiazzare definitivamente i nuovi spazi invocati. Riservare il battesimo e la omelia a colui che presiede una comunità è normale e anche vitale. Ma sono proprio le forme della autorevolezza ecclesiale a non poter essere più né pensate né amministrate con le logiche arcaiche dell'”ordo”. Qui noi siamo proprio al centro di una nuova visione: possiamo annunciare la differenza di Dio avendo misericordia per le infinite distinzioni di dubbio gusto con cui abbiamo, per secoli, discriminato le donne di fronte agli uomini, i laici di fronte ai chierici. Quello che prima pensavamo, in buona fede, fosse voluto da Dio, ora sappiamo che era solo un nostro punto cieco, una nostra forma di orgoglio e una mancanza di umiltà, che ci ha fatto scambiare la differenza di Dio con la gerarchia tra gli umani. Non perdere la differenza di Dio in una cultura della eguaglianza e della libertà può indurci a pensare non come un abuso un battesimo presieduto da un non chierico o una omelia tenuta da una laica o da un laico. D’altra parte, se da decenni abbiamo acconsentito a riconoscere il dottorato in teologia, in S. Scrittura, in pastorale o in spiritualità a laiche e laici, penseremmo forse che possano spenderlo soltanto “in privato”, tenendolo incorniciato nel loro studio? Il munus docendi e il munus sanctificandi non sono più compresi in (e garantiti da) un “ordo” separato (rispettivamente dall’episcopato e dal presbiterato), ma insieme al “munus regendi” sono entrati nella possobile esperienza di ogni battezzato, maschio o femmina che sia. Questo cambio di paradigma ha certo bisogno di criteri di riconoscibilità e di attendibilità, sui quali però si deve ragionare pacatamente, ma non secondo le regole della società dell’onore, bensì secondo quelle della società della dignità. Per rispetto della tradizione, che non sopporta mai riduzioni troppo smaccate. Una chiesa in uscita non si barrica dietro le norme contingenti di un regolamento giuridico o liturgico, che invece possono essere adattate alle nuove urgenze del popolo di Dio. Se si parte sempre da differenze incolmabili, si resta nello stile del mondo che passa e non si fa spazio alla vera differenza che conta.

Share