SIGNIFICATO BIBLICO DI «BENEDIZIONE» (di Paolo Farinella, prete)


AdamEvaOtranto

Poiché al centro del “responsum” del 15 marzo u. s. vi è una valutazione piuttosto drastica dell’atto di benedizione, credo sia utile leggere le considerazioni che Paolo Farinella mi ha inviato in questo suo testo appassionato, che può aiutare a comprendere alcuni aspetti molto trascurati della questione. Al tono prevalentemente biblico di questo intervento seguirà, sullo stesso tema, una mia riflessione, sul rapporto tra benedizione e bene del matrimonio, che sarà pubblicata nel post successivo. Buona lettura. (a.g.)

SIGNIFICATO BIBLICO DI «BENEDIZIONE»1

di Paolo Farinella, prete

Premessa

La pubblicazione del «Responsum» della Congregazione per la dottrina della fede circa la benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso2, come era prevedibile ha scatenato una serie di reazioni emotive (la generalità degli organi di informazione) e critiche fondate, non solo sul contenuto, ma anche sul metodo teologico che fa acqua sotto molti aspetti3. Il documento è nel solco delle dichiarazioni della stessa congregazione, immobile nel tempo e proteso a perpetuare questa immobilità che diventa immobilismo in un tempo, forse eccessivamente «mobile».

La sensazione che si prova è quella di trovarci davanti a una officina superstite di artigianato che continua a produrre pezzi fuori mercato, senza rendersi conto di essere lei, la congregazione, fuori tempo e fuori tutto. Linguaggio, metodo e asserita teologia sono «extra rem» fuori della realtà che si rifiuta non solo di accettare, ma anche di osservare. Vi è ancora dominante, in forma diversa, il principio di autorità che s’identifica in modo ossessivo ed esclusivo con la «volontà di Dio».

È il regno del clericalismo che presume di avere l’esclusiva rappresentanza di Dio, assunto a suo servizio a tempo pieno. Il clericalismo che papa Francesco combatte con estremo vigore, come fece nel colloquio con i suoi confratelli gesuiti (5 settembre 2019), durante la visita apostolica in Mozambico e Madagascar (4-10 settembre 2019). In questo colloquio, privato, il Papa disse parole di fuoco:

«Il clericalismo è una vera perversione nella Chiesa. Il pastore ha la capacità di andare davanti al gregge per indicare la via, stare in mezzo al gregge per vedere cosa succede al suo interno, e anche stare dietro al gregge per assicurarsi che nessuno sia lasciato indietro. Il clericalismo invece pretende che il pastore stia sempre davanti sempre davanti, stabilisca una rotta, e punisca con la scomunica chi si allontana dal gregge. Insomma: è proprio l’opposto di quello che ha fatto Gesù. Il clericalismo condanna, separa, frusta, disprezza il popolo di Dio … Il clericalismo non tiene conto del popolo di Dio … Il clericalismo confonde il “servizio” presbiterale con la “potenza” presbiterale. Il clericalismo è ascesa e dominio. In italiano si chiama “arrampicamento” … Il clericalismo ha come diretta conseguenza la rigidità. Non avete mai visto giovani sacerdoti tutti rigidi in tonaca nera e cappello a forma del pianeta Saturno in testa? Ecco, dietro a tutto il rigido clericalismo ci sono seri problemi … Una delle dimensioni del clericalismo è la fissazione morale esclusiva sul sesto comandamento. Una volta un gesuita … mi disse di stare attento nel dare l’assoluzione, perché i peccati più gravi sono quelli che hanno una maggiore “angelicità”: orgoglio, arroganza, dominio … E i meno gravi sono quelli che hanno minore angelicità, quali la gola e la lussuria … Ci si concentra sul sesso e poi e poi non si dà peso all’ingiustizia sociale, alla calunnia, ai pettegolezzi, alle menzogne. La Chiesa oggi ha bisogno di una profonda conversione su questo punto»4.

Alla prova poi dei fatti, ritorna sempre e ringiovanita l’ossessione del sesso, la vera maledizione del clero cattolico che non riesce a superare la ripulsa verso l’oggetto primario del desiderio, mutilato da un celibato teorico e non reale. Finche il clero e la struttura clericale non supereranno questa «ossessione patologica», la Chiesa avrà seri problemi di tornare alla fonte della sua vita che è il Vangelo e la Bibbia in senso ampio e alla vita di quel Popolo di Dio, esaltato a livello di proclamazioni e totalmente rinnegato sul piano della realtà e della responsabilità.

Non sono uno specialista di diritto, non sono uno specialista di Liturgia/sacramentaria, sono solo un appassionato servitore della Parola e in questa veste, anche indipendentemente dalla cronaca, vorrei offrire una riflessione sul significato biblico della parola «benedizione» che spesso vedo bistrattata proprio da coloro che dovrebbero «essere maestri in Israele» (cf Gv 3,10), col rischio che, buttando via «la chiave della conoscenza», non solo non entrano loro, ma impediscono di entrare anche a quelli che lo vogliono (Lc 11,52).

«Dio li benedisse…Siate fecondi» (Gn 1,28)

 

Il verbo «benedire» e il sostantivo «benedizione» in secoli di pratica cultuale hanno perso il loro significato originario. Vogliamo tentare di recuperare «una» dimensione biblica senza pretendere di esaurire la complessità di significato che questo lemma e correlati hanno.

 

  1. In accadico, karābu significa pregare, consacrare, benedire, salutare. In arabo barakà esprime beneficio, flusso benefico che viene da Dio, dai santi, dalle piante da cui benessere, salute o felicità. In ebraico, la radice B_R_K da cui il verbo bārakdotare di forza vitale e il sostantivo berākāforza salutare o vitale, ha anche il significato di inginocchiarsi e ginocchio. In oriente, il termine ginocchio è un eufemismo, cioè un modo attenuato e indiretto per indicare gli organi sessuali maschili; in questo senso vi sarebbe una parentela con l’accadico birku ginocchio e grembo.

  1. Questi essenziali cenni etimologici dicono un nesso tra benedire/inginocchiarsi e benedizione/ginocchio, stabilendo un collegamento tra benedire/benedizione e gli organi sessuali maschili. In base alle loro conoscenze «scientifiche», per gli antichi è l’uomo che trasmette la vita, mentre la donna è solo una incubatrice di seme, un thermos per mantenere il calore. Discendenza, infatti, in ebraico si dice «zera‛»che il greco biblico traduce con sperma (Gn 12,7; Gal 3,16). In questo contesto semantico, ecco il senso: benedire significa trasmettere la propriacapacità generativa a un altro, trasferendogli la propria fecondità. Per questo la benedizione può essere data una sola volta nella vita perché una volta data non può più essere ripresa indietro. In alcune culture, anche oggi (v. p. es. in Sardegna), è la madre che benedice lo sposo o la sposa prima di uscire di casa per il luogo della celebrazione nuziale.

Quando si benedice Dio, si usa sempre il participio passato passivo bārûkbenedetto perché in Dio la benedizione è uno stato permanente della sua persona, mai un augurio come nell’espressione «Sia benedetto!» che indica un compiersi nel tempo. Dio «è» e resta Benedetto. Sempre. È la benedizione stessa.

Quando, invece, Dio benedice, l’azione è attiva perché è lui che trasmette la sua potenza vitale, la capacità generativa per rendere partecipi della sua paternità generante. «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi…”» (Gn 1,28) dove il nesso tra benedire ed essere fecondi, cioè generare è evidente (sul concetto di «fecondità» della coppia, v. più avanti). Quando l’uomo benedice, trasmette la propria energia di vita a colui che è benedetto. Per questo Caino è «maledetto», perché ha impedito il realizzarsi della «benedizione» del fratello Abele (Gn 4,10). Dice il testo ebraico: «la voce dei sangui de (sic! plurale) di tuo fratello urlano vendetta a me dal suolo». I sangui! cioè tutte le generazioni future contenute nel grembo di Abele e stroncate da Caino urlano a Dio perché futuro e presente sono legati in vita e in morte.

In Gn 27 si narra la storia di Giacobbe che carpisce con inganno la benedizione al fratello Esaù, il quale, accortosi della stupidità compiuta, implora per sé la benedizione, ma il padre Isacco non può riprendersi la capacità generativa che ha trasmesso al fratello, il quale resterà benedetto per sempre (Gn 27,33). Esaù supplica il padre piangendo: «non hai conservato per me una benedizione?» (Gn 27,36); «hai dunque una sola benedizione?» (Gn 27,38). Isacco non può più benedire Esaù perché ha trasmesso tutto il suo seme, promessa/premessa del futuro che cova nella sua potenza generativa, a Giacobbe. La benedizione/fecondità patriarcale conduce la storia della salvezza verso il futuro e viaggia attraverso il figlio minore e non il maggiore5. Giacobbe deve scappare dall’ira del fratello Esaù e il padre lo accompagna con queste parole: «Tibenedica Dio onnipotente, ti renda fecondo e ti moltiplichi» (Gn 28,3) che sono l’eco di Dio creatore in Gn 1,28: «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi…”».

La benedizione come atto che trasmette non la vita, ma la capacità di generarla in ogni relazione umana, è complessa nella sua realizzazione; essa, infatti, comprende:

  1. Un gesto: l’imposizione della mano o delle mani (il segno della croce compare dopo il IV secolo.

  2. Una parola che accompagna e spiega il testo6: il gesto senza la parola è solo mimica, la parola senza il gesto è solo suono evanescente.

Nota esegetica. È la stessa dinamica della creazione: Dio disse… e così fu. Parola e fatto. Dio parla agendo e agisce parlando. In ebraico vi è un solo lemma per dire ambedue i sensi opposti: Dabar che significa «Parola e Fatto». Gv 1,14 sintetizza in modo sublime questa realtà nel binomio «Lògos-sarx», mettendo insieme due versanti opposti: il divino e l’umano, di cui la «sarx», caratterizza la fragilità, la mortalità, la caducità, e, infine, la mortalità. Non è solo «Verbo incarnato», ma è «incarnato» in quanto è mortale, fragile nella sua essenza.La Parola è il senso dell’avvenimento che, a sua volta è l’incarnazione visibile della Parola/Lògos.

  1. Parola e Fatto sono ordinati alla vita: infatti, gli avvenimenti della storia personale, di coppia, di famiglia, di comunità, di popolo, di popoli sono le parole con cui Dio parla agli uomini e alle donne di tutti i tempi, mentre la Scrittura ne è il codice cifrato per comprenderne senso e portata, in forza del principio che la Parola di Dio è sempre efficace, perché, come ho già detto, Dio parla agendo e agisce parlando: parola/fatto, cioè dabar.

In conclusione, benedire vuol dire essere in comunione di vita con colui/coloro che ricevono la benedizione perché ambedue, benedicente e benedetto sono «oggetto di benedizione» che li accomuna in una unica fraternità, espressione visibile dell’unica Paternità. In senso spirituale chi benedice genera colui/coloro che benedice, non nel senso di esercitare un potere «esclusivo», ma perché è testimone della prossimità di Dio, il Benedetto. Egli può esercitare questo ministero di prossimità solo facendosi egli stesso «prossimo» di colui/colei che benedice, asserendo così che tutti sono sotto il sigillo della paternità di Dio. Possiamo dire in parole moderne che benedire è assumersi la responsabilità di camminare insieme, come fa Gesù con i discepoli di Emmaus (cf Lc 24,15). La benedizione non è un sigillo di proprietà, ma il lancio verso un progetto finale che deve realizzarsi nella storia attraverso la storicità di ciascuno, secondo il dono che ha ricevuto «per l’edificazione della comunità» (1Cor 14,12; v. anche 3.5.26, et passim). Lungi dall’essere un privilegio di una categoria, la benedizione è assumere coloro che si benedicono, includendoli, mai escludendoli da un percorso che, se è vero, porterà alla liberazione delle nostre profondità, il cuore: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32). Infine, benedire è accettare la diaconia del cireneo che prende su di sé il peso della fatica di vivere di chi tende alla pienezza di vita nella pienezza dell’amore: «Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2) che ha lo stesso senso di: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5).

Nota esegetica di amore a perdere

È lo stesso atteggiamento e la stessa tensione che vive Abramo mentre accompagna Isacco al macello, apparentemente ordinato da Dio: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito, che ami, Isacco» (Gn 22,2), dove il crescendo affettivo, drammatico scardina il cuore del padre, come un tragico crescendo sinfonico: «figlio…unigenito…che ami…Isacco». Quale padre avrebbe potuto reggere? Eppure, il benedicente e il maledetto/benedetto, Padre e figlio, «proseguirono tutti e due insieme» (Gn 22,6.9), ripetuto due volte a sottolinearne l’importanza. Solo alla fine del loro cammino, scopriranno il volto e la volontà del Signore, che si rivela come «contestatore» dei sacrifici umani, molto diffusi nel III millennio a.C.

Il nostro tempo è segnato da una sciagura: le parole sono separate dagli avvenimenti e spesso, le parole si rincorrono a vuoto approdando a nulla. Si rischia di perdere la parte migliore della vita, se non si riscopre il nesso amoroso e generante tra parola ed evento della vita: è il senso della benedizione dell’esistenza, quell’evento di vita e di amore che ci genera gli uni agli altri per renderci fecondi gli uni per gli altri. La frattura diventa cataclisma, quando sono le guide (genitori, insegnanti, formatori, governi, parlamentari, superiori, parroci, vescovi e papi…) a smarrire il raccordo tra parola ed evento, generando incertezza e dando segnali di morte anticipata: i sangui degli eventi taciuti urlano a Dio.

Lo stesso vale per la vita di fede: rito e vita stanno insieme oppure i sacramenti sono solo rituali amorfi e senza sapore. Inutili. Gusci vuoti e anche ridicoli. Nel marasma che attanaglia il mondo intero, assistiamo a un genocidio delle parole utilizzate come corpi morti, senza anima e senza vita perché usate come strumenti per ingannare e camuffare la realtà, piegandola ai propri piccoli e meschini interessi. Oggi domina la logica dell’utile, non la dinamica feconda della benedizione generante.

La gerarchia cattolica, spesso e volentieri confusa con la Chiesa, o, peggio, spesso identificandosi con la Ekklesìa, è prigioniera di una visione e di un vocabolario, utilizzati per difendere se stessa con lo scopo di perpetuarsi oltre ogni lecito. La struttura del suo pensiero è ancora la neoscolastica degenere e superata non solo dalla stessa teologia, ma dalla esperienza vitale «contra quam non valet argumentum». La gerarchia, ossidata nel proprio clericalismo che l’ha imbalsamata come una mummia morta ed essiccata, ha occhi e cuore fissi non alla tradizione che è vitalità in perpetuo divenire, ma a un sistema «presocratico» che non è mai esistito, ma che viene costantemente evocato, come fonte delle proprie dichiarazioni, sempre più senza giustificazioni.

I clericali e i clericalisti, che praticano molto, ma non amano quasi mai, sono esperti di religione e per questo hanno espunto la fede dal loro orizzonte, credendosi liberi di usare Dio come clava per mettere ordine e ristabilire i confini del loro potere: se tutto è e deve restare immobile, loro, proprietari di Dio, sono al sicuro e garantiti, avendo paura della fede che è atto di innamorati e quindi aperto ai sentimenti imprevedibili e imprevisti che la vita porta con sé. La religione di costoro impedisce qualsiasi rapporto con Dio, a meno che non sia di sudditanza: qualsiasi religione è regime di schiavitù. Gesù è venuto come liberatore dal giogo della religione, sintetizzando l’impossibilità dei 613 precetti obbligati dalla Legge in un solo comandamento di realizzazione: «Amare» Dio attraverso il prossimo (non viceversa). La fede, cuore del Vangelo che è la Persona di Gesù, è appello alla coscienza e coinvolgimento affettivo di relazione d’amore. La fede è roba da innamorati, la religione, invece, è materia di praticanti abitudinari. La religione pretende la legge dell’imposizione, la fede vive solo nel cuore della libertà che serve.

Incarnati nella storia, i cristiani hanno il dovere e l’onore di rendere testimonianza alla Parola con le loro parole accompagnate da gesti di verità e di coerenza affinché la loro vita e la loro presenza nella storia siano una benedizione di fecondità, capace di generare quanti incontrano sul loro sentiero di carne per ritrovare in ciascuno e in tutti il volto velato di Dio, il quale, benedicendo, ci rende fecondi di vita e artefici di Storia: profeti dell’amore, per amore e con amore.

Il pensiero comune cattolico ha congelato la fecondità della coppia nei figli (v. rimando, sopra p. 2) senza rendersi conto che il primo figlio/figlia generato dalla coppia è «la coppia stessa» perché nella relazione d’amore si è costretti a uscire dal proprio isolamento individuale per diventare l’altro in un vortice di dono a perdere, per cui non si sa più chi genera e chi è partorito perché nel momento dell’amore donato, senza chiedere in cambio nulla, che è più dell’amore gratuito, ma è solo «agàpē», nasce una «persona nuova», il «noi», la sola, l’unica «immagine di Dio» visibile e verificabile (cf Gn 1,27). Se così non fosse, le coppie senza figli, sarebbero escluse dalla benedizione di Dio. Qui è in gioco la fecondità più grande della generatività naturale, qui si va sul piano dello Spirito, dove chi ama genera se stesso per amore dell’altro, al servizio del quale accetta di modellare la propria immagine di Dio.

È la benedizione della tenerezza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo che scende feconda e ri-generante sull’umanità redenta.

Genova 18-03-2021

Paolo Farinella, prete

Parrocchia San Torpete Genova

www.paolofarinella.eu

paolo@paolofarinella.eu

1 Riprendo, rivisitandolo, un capitolo di un mio lavoro, Paolo Farinella, Bibbia, Parole, Segreti, Misteri, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano (VR) 2008: «Dio benedisse e disse loro: “Siate fecondi…” (Gn 1,28)» (Ibid., 61-65), rimandando, chi volesse approfondire più dettagliatamente gli aspetti biblici in chiave giudaica, anche agli altri due capitoli connessi: «Pungente e perforata li creò (Gn 1,27)» (Ibid., 37-47) e «A immagine di Dio lo creò (Gn 1,27)» (Ibid., 49-60).

2 «Responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede ad un dubium circa la benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso» a firma del prefetto, Luis F. Card. Ladaria, S.I. e del segretario Giacomo Morandi, in data 22 febbraio 2021, Festa della Cattedra di San Pietro, Apostolo. Papa Francesco «ha dato il suo assenso alla pubblicazione del suddetto Responsum ad dubium, con annessa Nota esplicativa» (Sala Stampa Vaticana, Bollettino del 13-03-2021).

3 Il commento più articolato, come si direbbe in filosofia scolastica, con argomento «ad hominem», cioè preciso e puntuale in relazione al tema, è quello di Andrea Grillo, docente di Teologia dei Sacramenti e Filosofia della religione in diverse Facoltà in Italia, voce culturalmente importante in rete e nella vita, con il suo appunto «Coppie omosessuali: benedizione e potere» del 16 marzo 2021, in Andrea Grillo, Settimana News, rivista on line dei Dehoniani di Bologna.

4 Antonio Spadaro, S.I., a cura di, «“La sovranità del Popolo di Dio”, I dialoghi di papa Francesco con i gesuiti di Mozambico e Madagascar», in La Civiltà Cattolica n. 4063 (5/19 ottobre 2019), 3-12, spec. 8-10, etpassim.

5 È la «legge dell’impossibilità», nel NT è codificata da Paolo: «quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1Cor 1,27-29, qui 28); essa innerva tutta la storia della salvezza. In forza di questa «legge» rivoluzionaria, Dio stravolge gli usi, le usanze, le leggi preordinate e sceglie sempre l’inatteso e lo «scandaloso», qui il figlio minore che per legge non ha diritti, contro il primogenito che, al contrario, li possiede tutti (per un approfondimento, cf Paolo Farinella, Il Padre che fu madre. Una lettura moderna della parabola del Figliol Prodigo, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano (VR) 2010, 79-91).

6 È la stessa struttura dei singoli «sacramenti» nella Liturgia cattolica: ogni atto di mediazione salvifica ha sempre una materia che in genere è un elemento/alimento umano (acqua, vino, olio, amore, sofferenza, morte); un gesto simbolico (immersione/emersione nel battesimo, olio sulla fronte, sul petto, sulle mani e sui piedi, intreccio di mani, ecc.); una parola «significante» il gesto ordinario della vita (Io ti battezzo; Io accolgo te… ecc.).

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