Superare lo “stato di eccezione liturgica”: obiezioni e risposte


sanpietro02

Da ieri la Lettera Aperta sullo “stato di eccezione liturgica”, già firmata da 180 teologi, studiosi e studenti, è diventata una petizione pubblica, alla quale possono aderire, oltre ad altri teologi, anche i “non teologi”. Questo è un passaggio necessario: non si tratta, infatti, soltanto di una “questione tecnica”, riservata ai liturgisti, ma di un problema che attiene alla vita ecclesiale e alla esperienza di comunione. Come ho detto in questi giorni, la occasione di “decreti” che riformano un “ordo missae” che è uscito dall’uso nel 1969 – e che è stato reintrodotto nel 2007, per un uso “non ordinario”, solo con una intenzione di “pacificazione” che però ha generato solo conflitti – impone una svolta alla Chiesa, che appare bloccata sullo “status quo”. Esaminiamo una serie di “obiezioni” che sono state sollevate di fronte alla Lettera Aperta.

a) Dura lex, sed lex

La prima obiezione è di carattere formale. Finché è in vigore il MP Summorum Pontificum, secondo questa visione i teologi dovrebbero semplicemente accettarlo e non discuterlo. Questa impostazione limita la riflessione teologica alla “lex condita”, come se si fosse cancellata, dalla esperienza secolare della Chiesa, una riflessione necessaria anche sulla “lex condenda”. La Chiesa non è mai solo “retro oculata”, ma anche “ante oculata”: deve guardare sempre anche avanti e in questo sguardo i teologi hanno la responsabilità di coltivarlo e di comunicarlo. Non possono nascondersi dietro la logica: “le decisioni spettano ai pastori, non a noi”. Questo è vero, ma non è tutta la verità: le argomentazioni e le opportunità delle scelte devono essere elaborate in anticipo anche dai teologi, altrimenti la Chiesa perde una parte essenziale della propria “ragione”. E la scelta discutibile per cui nella Chiesa possano esistere “due tavoli tra loro in concorrenza” per la celebrazione dell’eucaristia e degli altri sacramenti resta un problema di fondo, su cui un teologo non può tacere in nessun caso.

b) Il tentativo di “normalizzazione” dello stato di eccezione

Una seconda obiezione si esprime attraverso una sorta di amnesia. E dice: ma perché tanto rumore su una realtà minoritaria e che non fa male a nessuno? La amnesia riguarda il fatto che la riforma del rito tridentino, voluta da Concilio Vaticano II, costituisce il passaggio inaugurale di una riscoperta della comunione ecclesiale come verità della fede nel Cristo morto e risorto. Se nei primi anni 70 era del tutto naturale consentire la sopravvivenza di piccole porzioni di “usus antiquior” del rituale, con il passare dei decenni il fenomeno era necessariamente destinato alla estinzione. Solo con una logica “eccezionale” era pensabile, nel 2007, di autorizzare in forma generale un accesso al rito del 1962. Le ragioni eccezionali erano la percezione di una opportunità di comunione con lo scisma lefebvriano. Questo intento, che di anno in anno si è sempre più allontanato, non consente più di mantenere lo “stato di eccezione”. La comunione cattolica ha diversi riti per “tradizione ecclesiale”, ma non per “convinzione di appartenenza”: se sei greco-cattolico o siro-marabarese hai una tradizione rituale diversa e in piena comunione con Roma. La diversità non lede l’unità. Questo però non vale per il rito romano, che ha solo una forma, ordinaria, che ha superato una volta per sempre le forme precedenti dello stesso rito. Le differenze compossibili sono dunque “geografiche”, non “storiche”. Un rito comune “straordinario”, in concorrenza sleale con il rito ordinario, era una possibilità assai azzardata e legata ad uno “stato di eccezione”, che non c’è più. Lo “stato di eccezione” non può mai essere la condizione normale di vita della Chiesa. Solo “in uno stato di eccezione” – che è sfuggito di mano agli Ufficiali di curia – è concepibile “riformare” un ordo parallelo a quello vigente da parte di una Congregazione che non ha competenza ordinaria sui riti.  Non ci sono più le condizioni per legittimare tutte queste eccezioni a quanto previsto dal Concilio Vaticano II.

c) La irreversibilità e il vuoto di potere

La terza obiezione mette in luce la “condizione di fatto”, determinata da SP, che sarebbe ormai irreversibile. Questo tuttavia non è un elemento decisivo. Perché nel 1963 la condizione di fatto era molto più pesante del 2020. Tutta la Chiesa celebrava con il rito che si era appena ritenuto non più adeguato. E allora si è avviato un percorso di riforma profondo e capillare, che non mirava ad alcun “parallelismo”, ma a dare all’intera Chiesa un nuovo rito romano, uguale per tutti. Ora si tratta di riprendere la univocità irreversibile di quel percorso. In termini pratici, ciò significherà anzitutto due cose:

– ristabilire il principio per cui “una unica forma rituale del rito cattolico romano” è vigente indistintamente per tutta la Chiesa cattolica, superando il pericoloso e divisivo principio di un parallelismo di forme “co-vigenti”

– ai Vescovi locali, in considerazione delle condizioni locali e degli sviluppi antichi o recenti, sarà lasciata la facoltà di concedere, per indulto, la possibilità di celebrare secondo la forma non più vigente del rito romano.

In questo modo si otterrà un duplice risultato: si uscirà dallo “stato di eccezione” e cionondimeno si potrà provvedere alle situazioni particolari che richiedono logiche di eccezione, con l’occhio attento dell’ordinario del luogo, senza bisogno di introdurre un principio generale che, di per sé, non è in grado di assicurare la forma della comunione nella espressione rituale della fede comune.  E che, per questo suo vizio di fondo, alimenta ogni sorta di resistenza al cammino di una Chiesa convinta che il Concilio Vaticano II sia un punto di non ritorno della sua storia santa e travagliata.

 

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