Munera 1/2017 – Crispino Valenziano >> “Colere” nell’antropologia dell’umanesimo cristiano

Alla fine del Concilio ero già all’Ateneo Anselmiano. A quell’epoca mi ritrovai abbastanza giovane all’Istituto Liturgico fondato da papa Giovanni XXIII, con maestri quali Cipriano Vagaggini, Salvatore Marsili, Herman Schmidt. Tra questi maestri si tenne un colloquio, che durò diversi giorni, per cercare di chiarire come il Concilio Vaticano II usi l’aggettivo “sacrosanto” nei suoi contesti: non soltanto “sacro”, non soltanto “santo”, ma addirittura “sacrosanto”. Un tema centrale, tanto più che Sacrosanctum Concilium, il documento conciliare sulla liturgia, riprende alla lettera il primo testo del Concilio Tridentino: Sacrosancta Synodus. Che cosa dunque significa “sacrosanto”?

Il problema del sacro ha a che fare con la religione, con le religioni: il sacro è qualcosa che tocca le cose, per affermare che quelle cose non devono essere toccate. Sono sacri il condannato a morte, il pane eucaristico, la vita, la pace: il sacro come intoccabile. Santo significa esattamente il contrario. Inoltre, mentre il sacro tocca cose, il santo tocca persone.

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