Munera 1/2019 – Jean-Marc Ferry >> Per disarenare la Fenice europea

Il vero dibattito sull’Europa deve aprirsi non per indagare se si è “pro” o “contro” l’Unione, ma per capire come rilevare la doppia sfida attuale: la sfida della globalizzazione economica e quella della partecipazione civica. Non sta alla sola democrazia, ma a tutto il regime politico in generale provvedere alla sua legittimazione. All’indomani della Seconda guerra mondiale questa legittimazione era evidente agli occhi degli europei: «Mai più guerre civili in Europa!», mai più queste «guerre a catena» che hanno sfasciato l’Europa e minacciato di farla affondare definitivamente.

Con la caduta del Muro si è creduto, a torto o a ragione, che fosse stato scongiurato il rischio pantoclastico, il pericolo nucleare associato alla Guerra fredda. Allo stesso tempo, la grande sfida della pace, la legittimazione cardine, inaugurale, del progetto europeo, passava in secondo piano, mentre la classe dirigente si accontentava di proclamare la sua “fede nell’Europa” affidandosi alla dottrina dell’ingranaggio, o dello spillover (traboccamento), per scommettere che le opinioni sarebbero venute fuori senza porre domande. Questa classe pubblica non si preoccupò quindi per nulla di proporre una legittimazione del cambiamento del progetto europeo. Avvezza al tema della globalizzazione felice e impressionata dalla diagnosi della “fine della storia” di Francis Fukuyama, la classe politica dell’epoca si conformava alla rappresentazione di un processo indefinito, postulato in sintonia con la Storia. La domanda del senso del progetto europeo non doveva più nemmeno porsi. Bastava tenere la rotta di un europeismo da combattimento, la cui linea è semplice, così come l’aveva proclamata Joschka Fischer nel corso di una discussione semi-privata: «Quando gli euroscettici sono malcontenti, io sono contento; quando gli euroscettici sono contenti, io sono malcontento!». A un livello di densità ancora più debole, si amava ricordare la “metafora della bicicletta”: «È come la bicicletta, se non si continua ad andare, si cade!», una variante per i figli della cara vecchia dottrina dell’ingranaggio!

Quest’ultima, tuttavia, aveva fatto il suo tempo. Una volta sfumata la prima sfida della costruzione europea, sfida di una pace duratura, perfino perpetua, fra le nazioni d’Europa, quella, più ambiziosa, di un ruolo strategico dell’Europa unita per la pace nel mondo sembrava essa stessa lontana dalle sue prime preoccupazioni. Sotto l’influenza dei fanatici del mercato si faceva fatica ad ammettere che l’Unione Europea avesse un ruolo attivo da svolgere di fronte alla globalizzazione: addomesticare i mercati mondiali senza distruggerne i meccanismi; fare pressione sulle grandi organizzazioni internazionali per far valere le scelte europee, in particolare negli ambiti chiave dell’ecologia e della transizione energetica; intraprendere una riconquista politica dell’economia mondializzata; prevenire il rischio reale di una sovversione del pubblico da parte del privato, della politica da parte dell’economia e dell’economia da parte della crematistica. In mancanza dell’aver messo in evidenza queste poste in gioco del presente, si è generato, pur negandolo, il famoso “malessere europeo”. Si immaginava di “avanzare” nell’integrazione europea accelerandola, sulla via tracciata dal consenso di Washington, una globalizzazione alla quale le classi dirigenti avevano l’ordine di fare spazio. Così, ci si guardò bene dal mettere sulla pubblica piazza l’alternativa che tuttavia si offriva all’Europa di fronte alla globalizzazione: adattamento economico puro e semplice o recupero, riconquista politica dell’economia globalizzata? – al punto che l’opinione si spaccava sulla questione europea, in seguito a un amalgama in cui i significanti “Europa” e “globalizzazione” inviavano presumibilmente gli stessi segnali.

L’ironia di questa storia fa sì che l’Europa sia diventata l’oggetto politicizzato per eccellenza, senza essere tuttavia giunto allo status di oggetto politico vero e proprio.

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