2 giugno 1946: l’Italia sceglie di diventare una repubblica. E lo sceglie, per la prima volta nella sua storia, con un referendum a suffragio universale.
La Repubblica Italiana compie dunque settant’anni. Un’età importante nel contesto di una vita individuale – “gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti”, insegna la sapienza biblica – che tuttavia, nella vita delle istituzioni politiche, corrisponde a malapena a un primo, timido, ingresso nell’età adulta.
Nel celebrare la ricorrenza occorrerebbe dunque domandarsi quale sia il grado di maturità politica di questa Italia repubblicana. Gli ultimi anni, segnati da una devastante crisi economica, potrebbero averla fatta maturare. Finita l’ubriacatura di sogni e di luci accesi ad arte dagli illusionisti della politica e della comunicazione pubblica, l’Italia potrebbe essersi riscoperta più fragile di quanto non immaginasse. Potrebbe aver scoperto di aver guardato nella direzione sbagliata per molto, troppo, tempo. Mentre altri Paesi si sono concentrati sul proprio futuro e sui proprî destini, l’Italia si è dissolta negli egoismi – corporativistici o generazionali – che sempre accompagnano le fasi concitate dell’affondamento della barca: quando ormai tutto va male, ciascuno cerca di mettere in salvo la propria pelle, a scapito dell’insieme. Il Paese è allo stremo, soffocato da politiche clientelari spudorate, da una corruzione dilagante (approfondita in questo numero dal criminologo Gabrio Forti), da una criminalità organizzata infiltratasi nell’economia anche del ricco Nord produttivo, da interessi miopi che valorizzano le rendite di posizione rispetto al lavoro e all’investimento creativo, da una concentrazione del potere dell’informazione nelle mani di pochissimi (le due recenti fusioni tra i due più grossi gruppi editoriali del Paese e tra due importanti quotidiani rappresentano segnali estremamente preoccupanti in questo senso). La crisi economica ha fatto il resto, legittimando e giustificando un processo di concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochissimi. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro – secondo la formula della nostra Carta costituzionale, frutto di un compromesso alto e creativo tra le varie anime del Paese – che, per aver dimenticato questo suo fondamento, sta oggi sprofondando nel baratro. Il lavoro c’è, com’è normale che sia, ma non è retribuito: la precarietà si allunga, le paghe rimangono irrisorie, le generazioni si bruciano. Nel frattempo lo Stato sociale perde pezzi importanti. Il crollo della natalità e la ripresa dell’emigrazione, anche estremamente qualificata, rappresentano una delle conseguenze più preoccupanti di una condizione di estremo disagio che non ha eguali in altri paesi avanzati.
Rispetto a un quadro così complesso occorre dunque domandarsi, con grande onestà, se l’Italia repubblicana, ormai settantenne, abbia finalmente raggiunto l’età del giudizio. Se abbia finalmente compreso che non è più tempo di seguire gli incantatori e i venditori di sogni e di illusioni, e che è invece tempo di riportare al centro il lavoro. Le bacchette magiche non esistono, le strade facili portano alla perdizione. La maturità dell’età deve portare con sé la responsabilità di un’intera comunità e di ciascuno dei suoi membri. L’Italia si è costruita sul faticoso lavoro della generazione dei nostri padri: quel lavoro deve oggi essere ripreso, con senso civico e spirito di sacrificio. L’alternativa è la catastrofe. Certo, non mancano segni di speranza, rappresentati da quei moltissimi italiani che, spesso anche in condizioni difficili, lavorano onestamente e appassionatamente, prendendosi cura degli altri in molti modi, con pazienza e tenacia, e tessono quei legami buoni che di fatto tengono in piedi il nostro Paese. A partire da quei segni di speranza occorre dunque riprendere il cammino di un’intera comunità.
Un’altra domanda andrebbe inoltre posta. Settant’anni fa, per la prima volta, le donne italiane hanno potuto esprimersi sul futuro del loro Paese: il referendum del 2 giugno 1946 le ha viste per la prima volta protagoniste della scena pubblica. Non sappiamo se l’Italia sarebbe oggi repubblicana se le donne non avessero votato, ma questa è una domanda che interessa soprattutto gli storici. Quel che è importante sapere oggi è quale sia lo stato di salute della parità tra i sessi nel nostro Paese. I dati non sono affatto confortanti: le donne faticano a raggiungere posizioni apicali nella società, mentre la retribuzione loro accordata rimane mediamente inferiore rispetto a quella dei loro colleghi uomini. Le grandi conquiste degli ultimi cinquant’anni, che hanno portato a una innegabile emancipazione delle donne in tanti ambiti della vita sociale, non hanno portato a una pari ridefinizione della figura maschile: il maschio oggi è in crisi, privo di una identità certa e di un ruolo sociale chiaro, nel lavoro come nella famiglia e negli affetti. La violenza sulle donne, ancora oggi così diffusa, trova certamente qui una delle sue spiegazioni possibili: in un rapporto tra i sessi divenuto problematico, in un’assenza di modelli positivi che possano sostituire i modelli, oggi non più praticabili, del passato patriarcale. Al tema della condizione femminile, in Italia e nel mondo, questo numero di Munera dedica un intero dossier, che attraverso analisi teoriche ed empiriche, aiuti a fare il punto su una delle grandi sfide del nostro tempo.
Settant’anni di repubblica ci spingano a tracciare un bilancio onesto del punto in cui siamo, ci facciano maturare giudizio e ci spingano a immaginare – a partire dall’Italia – un mondo diverso: più giusto per tutti, donne e uomini di oggi e di domani.
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