Munera 2/2019 – Gaia Donati >> Il populismo penale

Nella coscienza ferita tardo-moderna, per la quale concedersi il tempo di pensare appare sempre più un lusso pericoloso, la percezione di crisi generalizzata sta riscontrando un’inedita proiezione in ambito penalistico, traducendosi nell’emersione prepotente di una domanda di “sicurezza”.

Se l’orizzonte di senso della “modernità liquida” si colloca nel principio secondo cui «i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni», si comprende come il cittadino comune, interpellato in merito al dilemma fondamentale circa le cause e le soluzioni al problema criminale – prima prudentemente riservato alla prerogativa statuale – non si esima dall’esprimere una personale spiegazione. Il profilo che si rivela però senza precedenti attiene alla deformazione e alla pregnanza assunte oggi dalla “guerra” al crimine nella risposta politico-istituzionale: il potere statuale si presta sempre più a un’adesione passiva alle istanze vendicative presenti nella società, promuovendo «l’impulsiva reattività a ciò che è presente e immediato, e l’indifferenza o dimenticanza per ciò che è lontano dai propri sensi», come le garanzie e i diritti della persona.

A proposito di tale convergenza tra potere pubblico e paura collettiva si è coniata l’espressione “populismo penale”. Essa vuole proprio comunicare l’idea di un diritto penale condizionato dalla strumentalizzazione delle componenti simboliche a fini di rassicurazione pubblica.

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