Où vivrons nous demain? si chiedeva nel 1964 uno studioso di architettura, Michel Ragon (1924-2000), ponendo un interrogativo al quale cercava risposta nelle capacità progettuali a grande scala di architetti e urbanisti. Il suo demain è il nostro presente, il grande tessuto di territori abitati e di paesaggi che percepiamo sempre più in conflitto con l’ecosistema Terra. In quegli anni sessanta molti, come Ragon, dichiararono fallito il progetto di modernità che aveva visto protagonisti, nella prima metà del secolo XX, Frank L. Wright, Le Corbusier, Ludwig Mies van Der Rohe, Walter Gropius, per non citare che i maestri più celebri, accusati di essere stati promotori di quartieri dormitori, di cementificazione indiscriminata, di volontà demiurgica di cambiamento. L’opposizione diede luogo alla produzione di nuove, più imponenti e complesse utopie urbane e antiurbane, a sperimentazioni architettoniche di grande scala, a fughe nell’immaginario irrealizzabile, alla crisi sofferta e tuttora irrisolta di una moderna disciplina, l’urbanistica, sorta nell’Ottocento per governare la crescita delle città. In questo clima, da allora ha preso consistenza un diffuso senso di impotenza sulla possibilità di trovare soluzioni rapide ed efficaci ai complessi problemi insediativi, sempre più formalmente omologati in tutto il pianeta ma anche vissuti in termini culturali molto differenziati alle diverse latitudini.
Oggi, si tende a scindere la formale rigenerazione estetica dei maestri del XX secolo dall’orizzonte di crisi a scala planetaria dei progetti urbanistici e territoriali. Nel frattempo si è costruito moltissimo in tutto il mondo dagli anni sessanta del secolo scorso ad oggi, anche con grande raffinatezza estetica e non minore sapienza tecnologica; ovunque si sono moltiplicati i luoghi di vita collettiva, tra quelli culturali sono numerosissimi i musei; si sono tracciate estese infrastrutture stradali a favore di un uso individuale delle automobili; sempre più intenso si è fatto il traffico aereo. Si sono persino edificate nuove città, soprattutto nei contesti asiatici. Viaggiare, per lavoro o per turismo, è divenuto estremamente facile, condizione di un’omologazione globale irresistibile, affasciante e disagevole al tempo stesso, stimolo al nomadismo in un mondo sempre più piccolo e fittamente abitato. Il fenomeno più imponente resta però l’emergenza di gigantesche conurbazioni costellate da miriadi di grattacieli in varie parti del mondo.
La comune sensibilità estetica è stata profondamente scossa dalla tensione tra solido immaginario del passato, ancora inscritto nelle memorie collettive, e nuove figure architettoniche che mirano alla grande scala, comunque ancora prive del sedimento esistenziale che, solo abitandole, verrà alla luce. L’intero habitat planetario appare sull’orlo di una lacerazione – dei suoi connotati storici, delle sue valenze antropologiche, della coesistenza con la biosfera planetaria – che ha infinitamente superato le previsioni di Ragon. Steiner lo ha drammaticamente chiamato un finis terrae, un affaccio collettivo, dal confine del mondo finito al quale apparteniamo, su un ignoto così fittamente oscuro da suscitare spavento. Non si tratta, in questo stato d’animo, del solo emergere di un universale senso di fragilità umana, il cui risvolto permanente è l’arroganza del predominio dei processi economici planetari, ma anche dello smarrimento, nelle coscienze individuali, del senso dell’uomo, essere unico e irripetibile in vitale correlazione con l’intero genere umano e col cosmo.