Le sensazioni al “tempo del coronavirus” sono le più diverse. Per lo più mancano le parole, tanta è stata imprevista e inimmaginabile la situazione in cui l’epidemia ci ha posto. Così ha cominciato a girare l’idea che nulla sarebbe stato come prima; si avverte, almeno in Occidente, una cesura che non ha precedenti nella vita di tutti noi.
Diverso il discorso per quella parte di umanità che ha vissuto e vive con le guerre, la povertà, le calamità naturali ed epidemie mai finite, per cui quella del coronavirus è un’epidemia come un’altra e neppure tanto mortale come, per esempio, ebola. Per noi c’è stata l’irruzione violenta di un “mostro sconosciuto” che ha tolto certezze, ha messo a nudo fragilità che non sapevamo di avere, ci ha riempito di paure; tutto ciò ha fatto venire a galla domande sopite o addirittura dimenticate, è crollata una fortezza che sembrava inattaccabile.
Che cosa facciamo ora? Che cosa siamo diventati? Che cosa resterà di tutto questo? È solo una dolorosa – per molti, drammatica – interruzione, ma in realtà siamo pronti a ricominciare appena possibile da dove eravamo rimasti, oppure avremo il coraggio di iniziare un percorso diverso? Io non so rispondere a queste domande, anche se ho l’impressione che, passato un congruo numero di mesi o di anni, si riprenderà da dove eravamo rimasti perché, forse, non sapremo fare altro. A meno che… A meno che non si lascino sbocciare alcune domande che ora – timidamente – fanno capolino.
Per esempio: «Dov’è Dio in tutto questo?» Oppure: «Quale spazio dare a domande esistenziali profonde come quelle riapparse con la cruda apparizione della morte?» O ancora: «A quali condizioni sarà possibile fare cose nuove per davvero?»
Sono domande che non si possono fare ad alta voce; perciò cerco di riassumerle in questo modo: «A quale condizione ci potrà essere un vero e stabile cambiamento nel nostro stile di vita?»
Rispondo: la novità può venire solo dal cuore, cioè dall’interiorità silenziosa della coscienza di persone che non si sottraggono più ai perché della vita.