23 giugno 2016: la maggioranza dei cittadini britannici – dei votanti, perlomeno – si esprime a favore di un’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, dopo 43 anni di storia comune.
Molto si è detto e scritto sulle ragioni di questo voto e sulle sue conseguenze, che solo il tempo consentirà di valutare in tutta la loro portata, ma che certamente non saranno di poco conto.
Si tratta tuttavia di una vicenda che può ancora avere uno sviluppo positivo. A condizione però di un netto cambio di prospettiva. Quale? Una singolare coincidenza, passata perlopiù sotto silenzio, ne esprime bene l’essenziale.
Il 22 giugno, vigilia del referendum, si celebra la memoria di san Tommaso Moro: quel Thomas More autore de L’utopia – di cui quest’anno ricorre il quinto centenario della pubblicazione – che pagò con la vita i suoi sforzi per evitare che Londra si separasse da Roma, frantumando così l’Europa cristiana.
È precisamente l’utopia che finora è mancata, ovvero la capacità di prendere sul serio non soltanto la dimensione dello spazio, ma anche – e soprattutto – la dimensione del tempo. Troppo a lungo in Europa ci si è limitati a pensare le questioni in termini esclusivamente spaziali: in termini di sfere di influenza, di margini di sovranità, di territori da difendere, di libertà da preservare (e mai da coltivare). Concentrati esclusivamente sulla difesa dello spazio, si è trascurata la cura del tempo. Ovvero una cura della memoria e del futuro.
La questione più importante è così rimasta senza risposta: vogliamo o meno immaginare un destino comune, di prosperità umana e di pace per tutti? Rimossa tale questione, tutto il resto perde di significato. Non ha senso chiedersi se oggi convenga ancora stare insieme se prima non si è messo in chiaro se si intende avere una storia e un futuro comuni, con una decisione che non può essere presa una volta per tutte, ma richiede di essere continuamente ripresa.
La crisi dei migranti – che un ruolo di primo piano ha giocato nell’esito del referendum, grazie a media e politici tutt’altro che disinteressati – è in questo emblematica: la si è finora affrontata in termini semplicemente spaziali. Si impedisce alle persone di attraversare gli spazi, di varcare le soglie e le frontiere, rimuovendo costantemente la questione del tempo.
Pensare al proprio destino senza preoccuparsi di quello altrui costituisce però un’illusione destinata a produrre effetti esplosivi: o ci si salva tutti insieme o tutti insieme si affonda. Non c’è strumento giuridico o economico che possa preservarci dalle conseguenze di una mancata presa in carico di un tempo condiviso, fatto di memoria e di futuro per tutti. Accade così che un numero, tutto sommato quantitativamente limitato, di persone inermi e indifese in cerca di un avvenire migliore abbia potuto mettere in ginocchio un titano grande e potente come l’Europa. Un’Europa che, impaurita, ha smesso di sognare e di immaginare, preferendo ai non luoghi dell’utopia e del sogno i territori del possesso e dello status quo.
Occorre ritornare a sognare l’Europa quale utopia possibile, a partire da un ascolto di chi oggi ha meno voce in capitolo: le generazioni più giovani, le donne e gli uomini di pace, i lavoratori e le lavoratrici (ivi compresi quegli imprenditori che hanno continuato a credere nel lavoro, respingendo il luccichio seducente e illusorio della finanza facile), e finanche le religioni e le loro elaborazioni teologiche (cfr. in proposito l’articolo di Marie-Jo Thiel in questo numero di Munera).
Munera è nata, ormai un lustro fa, come rivista europea di cultura, nella convinzione che l’Europa non sia una semplice denominazione geografica o una società per fare profitti. L’Europa è invece l’utopia possibile di un umanesimo che diventa civiltà e che dà vita a un sistema giuridico, economico e sociale giusto, che promuove la pienezza della vita umana al suo interno e si impone come un faro per il resto del mondo. Possiamo davvero pensare di farne a meno?
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