Un dissidio sulla autorità (G. Agamben e M. Neri): diritti e doveri in conflitto


 onorio3sanpaolo

Il tempo della pandemia ha accelerato forme nuove e forme antiche di esperienza e di esercizio della autorità, che hanno portato ad una nuova “polarizzazione” delle opinioni. Di recente due interventi hanno messo in luce, con grande forza, questa condizione “estremizzata” di percezione e di elaborazione del problema. Da un lato G. Agamben, in una serie di interventi iniziati fin da febbraio, identifica la “autorità” come inautenticità e rinuncia ai diritti del cittadino, dello studente e dei docenti: fino a identificare, in un recente testo, la disponibilità dei docenti alle “lezioni da remoto” con la “espressione di fedeltà al regime fascista” del 1931. Sul versante opposto, M. Neri, in un testo del giorno prima, mette in guardia dal “consumismo dei diritti”, che erode ogni “corpo intermedio” tra il soggetto dei diritti e la fonte pubblica dei doveri, rendendo gli stessi diritti tanto viscerali quanto precari e autolesionisti. Credo che, al di là dei toni e delle affermazioni decisamente discutibili che entrambi questi fronti apologetici possono di volta in volta presentare – e che in questo caso minacciano soprattutto il testo di Agamben – si tratta di due posizioni estreme, che sollecitano una riconsiderazione del rapporto tra autorità e libertà e che toccano, nel profondo, la forma stessa della vita moderna e post-moderna. Anche la fede è sollecitata a riflettere di fronte alle antiche questioni che la condizione di pandemia ha riportato, di colpo, a nuova evidenza e a singolare urgenza.

 1. L’inatteso e l’incompreso irrompono

 Lo spazio vitale si è contratto, la dimensione di clausura si è fatta normale, un “fuori” segnato dal divieto di assembramento e dal divieto di uscita non giustificata dalla propria dimora viene percepito come una nuova e quasi immemorabile esperienza di autorità – che per le sue forme drastiche si avvicina al “coprifuoco” bellico – e ci porta a rileggere con occhi diversi il “polo” opposto, o comunque reciproco, alla autorità: ossia la libertà, che diventa vigilata, circoscritta, svuotata, negata e non progetta più il suo futuro, perché non lo controlla. L’esercizio dei “diritti di libertà” del soggetto diventa sinonimo di rischio, per sé e per gli altri. Non sarà forse proprio per il fatto che il nostro modo di leggere la “autorità” si è talmente semplificato, negli ultimi due secoli, che oggi facciamo tanta fatica a riscoprire le diverse forme con cui la ”autorità” ci parla in tutta questa vicenda?

 2. La vita non si lascia addomesticare troppo

 Proviamo a identificare bene la questione della autorità. Potremmo dire che il “senso comune” identifica con autorità quella forza, quel potere, quella parola che ha la caratteristica di “imporsi”. E che si impone avendo sempre un rapporto diretto con la possibilità di infliggere una sanzione. Il “monopolio della violenza” è una delle caratteristiche della autorità. Questa nozione di autorità si è costruita secondo una evidenza politica nuova: la autorità è esteriore alla libertà, ne è limite esterno. E’ “altro da me”.

Tuttavia, il senso originario del termine autorità arricchisce molto questa prospettiva, che risulta troppo povera: la autorità è, più originariamente, capacità e potere di far crescere. Avere autorità è un servizio alla maturazione e alla crescita. Ed è la forma della funzione liberante dell’”altro per me”. Qui però sorge un problema tipico dei tempi tardo-moderni ( a partire dal XIX secolo), nei quali si inizia a pensare la autorità come opposta alla libertà, “altra” dalla libertà. Ma nel nostro frangente “epidemico” sembra che le cose si siano invertite: la autorità politica e sanitaria limita drasticamente la possibilità di movimento e la libertà del soggetto si trova “inclusa” in un esercizio di autorità altro e sovrano. Una sorta di “primum vivere” si impone su tutto e scalza ogni altra “cura fondamentale”: amicizia, lavoro, scuola, culto, turismo, passeggiate sono per lo più sospesi. Tutto è subordinato alla tutela della “salute pubblica”. Questo primato del “restare vivi” – che non si identifica necessariamente con la “nuda vita” – ci fa scoprire di nuovo una “dipendenza della libertà dalla autorità” che forse avevamo dimenticato o rimosso. Di qui nasce la domanda: “quale ruolo ha l’altro per la mia libertà?”.

 3. L’autorità e le sue forme dimenticate

 I sistemi di privatizzazione della vita, che il mondo contemporaneo ha sviluppato con una velocità e con una finezza sorprendente, mettono in luce un paradosso. Come mai, proprio nel mondo che diciamo tanto individualistico, privatizzato, nel quale si vive isolati e distanti, come tante monadi, il contagio corre tanto veloce? Il contagio ci parla di un “altro mondo” e ce lo rivela: di un mondo che vive di relazioni, e che noi viviamo, ma che non sappiamo capire. O, meglio, che ricostruiamo, nella nostra testa, soltanto come un insieme di diritti dei soggetti singoli. Ogni soggetto ha diritto alla salute, ad esempio. Ma il contagio ci dice: la salute dell’altro è più importante della tua. E questo è un trauma. Perché noi ci siamo abituati a recuperare l’altro con una sorta di “appendice caritativa”, non come la struttura fondamentale del nostro “star bene”. Ecco qui un caso di “infrazione” del codice condiviso e che si mostra così fragile: scopro che la salute dell’altro è almeno tanto importante quanto la mia. Il che significa che prendermi cura della salute dell’altro è l’unico modo per difendere la mia salute. La furia del contagio, nel suo aspetto devastante, nasconde questo lato inatteso: in ogni contagiato curato, è curata la infinita serie di possibili contagiati che in lui avrebbero trovato la occasione per ammalarsi. “Restare a casa” non è soltanto “salvare noi dall’altro”, ma ancor più “salvare l’altro da noi”.

 4. Teologia del virus, tra autorità e libertà

 E’ falso che vi sia una correlazione tra “ciò che compie il morbo” e “ciò che vuole Dio”. L’argomento apologetico classico, almeno dei nostri ultimi 200 anni, insiste, in modo quasi ossessivo, su questa correlazione: siamo limitati, siamo impotenti, siamo ridimensionati dal virus, così impariamo qualcosa di Dio. Ma è proprio così? Non vi è, sotto questo argomento, lo stesso meccanismo che, in fondo in fondo, fa del virus uno strumento di Dio? Che strumentalizza il virus in funzione teologica e Dio in funzione sociale? Una apologetica dell’uomo “drogato di libertà” che prende la sberla dal virus, e paternalisticamente si ridimensiona, non mi convince affatto. Non può essere così. La nostra rinuncia sociale alla libertà, oggi, è a sua volta il frutto di una accurata elaborazione della libertà. E il divino non sta nella libertà perduta, ma nella libertà riorganizzata. Che sperimenta la autorità a livelli più complessi e più articolati.

La pandemia ci mette di fronte ad una maggiore complessità del mondo, dell’io e di Dio, che non comprendiamo “arretrando”, tornando ad una apologetica del limite o ad una teodicea antiliberale, ma solo avanzando, attraversando la terra della libertà che di nuovo si fa deserto, ma che cerca di ritrovare e di ricostruire la strada e la città. E sa che può darsi solo “strade comuni”. Così il virus può essere “autorevole” se ci permette di scoprire, in forme sorprendenti, di quante relazioni viviamo ordinariamente, senza neppure accorgercene o, addirittura, in un mondo che fa di tutto perché ce ne dimentichiamo.

Ed ecco allora una “declinazione” della autorità che ci suona nuova: se il fatto di “non ammalarci” dipende non semplicemente dalla nostra moralità, dal nostro “comportarci bene”, ma dalla salute degli altri – è questa la verità nascosta in ogni contagio – la gestione pubblica del “bene comune” non può essere più considerata il risultato del comporsi “libero” delle iniziative dei singoli. Il liberismo perde così ogni autorità. Tra libertà e liberismo si viene a creare una distanza nuova, una estraneità inattesa.

Ma in questo nostro tempo, chi esercita davvero la autorità? La società si è fermata, eccetto la sanità, l’ordine pubblico, la “filiera alimentare” e i servizi di base (acqua, luce, gas, strade, ferrovie, telefono, televisione…). Mangiare, bere, essere curati e essere difesi. A ciò si può aggiungere tutto ciò che si può fare “a distanza”: pagare un debito, spiegare una lezione, richiedere un certificato, fare un compito, persino suonare una sinfonia. Certo con dei limiti. Questo ritorno ai “beni primari” è sempre istruttivo. Tra questi bisogni primari della vita, però, vi è anche la morte. Una società che lotta per la vita deve anche “saper morire”. Non nel senso omerico della virtù, ma nel senso cristiano della compagnia e della condivisione di ciò che è indisponibile, perché sta prima di me e dopo di me.

 5. Tre soggetti di autorità: l’altro, l’io e Dio

 Siamo dunque ritornati a tre esperienze elementari di autorità: l’altro da me che si impone, come autorità politica; l’altro per me che mi dispone, come autorità etica; l’altro sopra e sotto di me, che mi compone, come autorità di grazia. Tuttavia la esperienza politica, quella etica e quella religiosa della autorità tra loro non sono del tutto trasparenti, neanche del tutto comunicanti. Non si può dire integralmente l’una nei termini dell’altra. Ed è qui che il regime di pandemia ci sorprende. Perché ci mostra, in una forma quasi immemorabile, prossimità impensate o lontananze spaventose tra queste tre esperienze, di cui abbiamo tutti radicalmente non solo bisogno, ma desiderio incontenibile. Nessun contenimento, a lungo andare, può reggere a questa incontenibile dinamica della autorità, che è bisogno e desiderio di imposizione, di disposizione e di composizione. Questo corrisponde, singolarmente, ad una esperienza di libertà, perfettamente parallela alle tre esperienze di autorità. L’altro da me che si impone, non mi schiaccia soltanto, ma mi consente di essere me stesso; l’altro per me, che mi “forma” e mi “dispone”, mi raggiunge ora per vie più complesse, meno dirette, mediate dai media, fino a dove può. L’altro sopra e sotto di me, l’intimior intimo meo e l’omnipotens, nel “compormi” si nasconde e si rivela, come sempre, ma in forme nuove. E libera la mia capacità di riconoscere i doni con una forza diversa, certamente più fragile, ma forse più autentica e meno mediata.

La condizione estrema di questo tempo “recluso” ha riordinato le priorità e le esperienze, dell’autorità dell’altro e della libertà dell’io. L’altro è, allo stesso tempo, tenuto a distanza e riassunto come orizzonte del desiderio. L’io è affidato a se stesso in modo più radicale e tenuto a bada molto più duramente. Dio, come sintesi di sé e dell’altro, sembra scomparire dal quadro e insieme ritornare come orizzonte, per vie inattese e sorprendenti: più come brezza leggera che come uragano o terremoto o fuoco divorante.

 6. Una riconsiderazione finale

 Alla luce del breve percorso che abbiamo compiuto, mi pare che si debbano considerare le avvertenze sollevate da Agamben e da Neri, nella loro opposta polarità, come una “reciproca correzione” dello sguardo. Da un lato l’esercizio della autorità secondo lo “stato di eccezione” è un rischio, ma può essere giustificata da condizioni contingenti: anche la sospensione dell’insegnamento “in presenza” interrompe molte buone pratiche irrinunciabili alla lunga, ma rinunciabili nel breve o medio periodo, in vista di un bene maggiore . Non sono un “requiem”, ma un “nunc dimittis”. La eccezione parziale può farci rielaborare con maggior forza la regola generale della università e della città universitaria. D’altra parte, il consumismo dei diritti, nella sua mera esteriorità senza autorità che non sia la propria, deve anche considerare che il “consumo dei diritti” è cifra qualificante della società aperta, su cui il registro apologetico del richiamo al “dovere” è sempre esposto alla cattura moralistica, così tipica della tradizione ecclesiale del XIX e XX secolo. In altri termini, la rivendicazione dello “spazio intermedio”, assicurato dalle “comunità” – spazio meno che pubblico e più che privato – deve saper giustamente preservare la nuove evidenze private e pubbliche, che non si lasciano comprendere semplicemente nel registro negativo della “autoreferenzialità” o della “esteriorità”. C’è un profilo del bene comune che può essere garantito solo dal pubblico e dal privato, addirittura “contro” le logiche comunitarie.

Per questo il richiamo esasperato dei diritti originari contro i doveri oppressivi, o dei doveri fondamentali contro i diritti dispersivi, ricostruisce il panorama civile ed ecclesiale secondo nuove mappe sorprendenti. Nella cartina geografica della chiesa in pandemia abbiamo visto che le ragioni di Agamben possono essere usate per fare obiezione di coscienza alla comunione sulla mano (a difesa di un presunto diritto alla comunione “alla lingua”) e le sacrosante ragioni di Neri possono essere facilmente piegate ad una critica di pubblico e privato, con la evocazione di un modello di “communitas” il cui centro non è la “persona concreta”, ma un modello “vecchio” di rapporto tra stato e chiesa.

Forse, per entrambe le posizioni, l’ideale “antiidolatrico” polarizzato – ossia la lotta contro la oppressione della biopolitica e la lotta contro la formalizzazione pubblico/privata della democrazia – viene da schemi teologici su cui la pandemia ci chiede un lavoro ulteriore. In un certo senso, e con molto rispetto, un ideale ipermoderno (in Agamben) e antimoderno (in Neri), costituiscono registri di classica “messa in guardia”, che la condizione di pandemia sembra aver usurato e condannato ad una crisi che esige la elaborazione di nuove categorie.

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