Un magistero capace di autocritica: dallo “stand by” al “play”


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Fin dall’inizio era chiaro: di fronte alla ripresa della grande svolta conciliare, che papa Francesco ha portato nello stile di pensiero e di pratica ecclesiale, e di cui la Chiesa aveva il giusto “presentimento”, ci sarebbe stata una non piccola resistenza, soprattutto da parte di chi si era illuso di poter far dimenticare il Concilio, di normalizzare la curia, di assolutizzare il massimalismo morale e il giuridismo canonistico.

Per questo ho letto con molto interesse e con sintonia ciò che ha scritto alcuni giorni fa Luca Diotallevi, sul “Foglio”. Con ragione sosteneva che anche oggi serve un pensiero all’altezza, servono decisioni strategiche, serve un responsabile esercizio della autorità; non serve la retorica di chi parla di “uscita” e spranga porte e finestre; non serve la piaggeria bergoglista, tanto consensuale quanto vuota.

Francesco e il Concilio

Perciò credo sia importante valorizzare un punto fondamentale del pontificato di Francesco: ossia la ripresa di un continuità strutturale con il processo di “ressourcement” e di “aggiornamento” introdotto nello stile ecclesiale da parte dei grandi documenti del Concilio Vaticano II.

Qui dobbiamo essere molto chiari, senza lasciarci distrarre dal fumo di sbarramento o dalla miopia di analisi. Quando si è collocato su questa via apertamente e inequivocabilmente conciliare, Francesco ha dovuto – inevitabilmente – prendere le distanze da toni, temi e accenti che il magistero aveva assunto non solo “prima del Concilio”, ma anche “dopo il Concilio”. In effetti, a partire dalla metà degli anni 80, fino al primo decennio del nuovo secolo, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, abbiamo potuto assistere al prevalere – non uniforme, ma assai pesante – di una forte discontinuità con il Vaticano II: di fronte a questi sviluppi di più di 30 anni di “recezione mancata” del concilio, la ripresa voluta da Francesco appare inevitabilmente come una improvvisa accelerazione.

Vaticano II: dallo “stand by” al “play”

Ma si tratta di un effetto ottico: dopo un così lungo periodo in cui il film del Concilio era stato ridotto a “slow motion” o addittura a “stand by”, quando Francesco ha schiacciato il “play” e le immagini sono tornate a scorrere con naturalezza, molti hanno esclamato “ci sembrava di sognare”! La realtà ecclesiale era talora tanto diversa, che il Concilio sembrava essere diventato un”sogno”.

Il punto su cui vorrei soffermarmi è allora questo: tale “differenza di passo” – che è solo continuità fedele al passo degli anni 60/70 – con quali criteri è stata letta? Si osservano soprattutto due reazioni: quelle impostate al pensiero “pre-anti- conciliare” – che parlano apertamente e senza alcun ritegno di modernismo, relativismo, protestantizzazione – e quelle “preter-conciliari”, che ragionano come se il Concilio non ci fosse stato e utilizzano criteri di discernimento vecchi, rozzi o errati addirittura.

Ma è interessante che il papa stesso, insieme alla stragrande maggioranza della Chiesa che cammina con lui, sa bene che questo passaggio era e sarà inevitabile.

Amoris Laetitia riprende Gaudium et Spes

La cosa è stata espressa nel modo più chiaro in alcuni numeri di Amoris Laetitia, il cui valore va al di là della semplice “pastorale familiare” e riguarda in generale la impostazione di tutta la pastorale e dello stesso rapporto tra Chiesa e mondo. Potremmo quasi dire che in questi numeri iniziali e finali della Esortazione il magistero episcopale e papale riprende la lezione di GS e la rilancia per il presente e per il futuro, oltre e contro tutti i tentativi di dimenticarla, di rimuoverla e di anestetizzarla.

Proviamo a farne una piccola rassegna sintetica:

1. Il Magistero non può e non deve dire tutto e per questo ha bisogno di “altre autorità” (AL 2-3). Questa è la radice sistematica del “discernimento”, che implica la coscienza e la responsabilità di “molti”.

2. Occorre esercitare una serena autocritica rispetto ad errori gravi, che hanno compromesso la capacità di comunicare il Vangelo. Non si tratta semplicemente di denunciare i “mali del secolo”, ma di mostrare onestamente i limiti della parola ecclesiale:

– evitare la esclusiva della denuncia retorica dei mali attuali

– non ricorrere soltanto alla imposizione delle norme per autorità

– talora il modo di presentare le convinzioni e di trattare le persone è stato controproducente

– una idealizzazione eccessiva di un concetto di matrimonio troppo astratto

– una insistenza esagerata ed esclusiva su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare la apertura alla grazia;

– la sostituzione delle coscienze, prima che la loro formazione (AL 35-37)

3. Lo stile con cui la teologia propone se stessa deve cambiare: non abbiamo bisogno di teologie fredde da scrivania, ma di teologie partecipate, ferite, quasi incidentate. (AL 311-312)

4. E’ meschino pretendere di giudicare una persona soltanto sulla base di una legge oggettiva. (Al 304)

Per tutte queste ragioni non era evitabile una reazione stizzita da parte di chi continua a pretendere che il Magistero resti vincolato sine die ai suoi errori di tiepidezza e di rimozione post-conciliare. Come se quello che abbiamo detto e scritto ufficialmente dal 1980 al 2010 dovesse restare per sempre vincolante, nei secoli dei secoli…

Continuità col Concilio, dopo la rimozione

A questo non si oppongono gli slogan, né soltanto i “gesti”: sono i testi del Vaticano II che oggi tornano a vivere e ad operare, dopo un congelamento dovuto a paura e a opportunismo. Questa primavera, tuttavia, ha bisogno anche di testi e di pensieri all’altezza. Quelli che lo Spirito ha già saputo suscitare nei pastori e quelli che attende anche dai teologi, che possono pensare in grande la eredità conciliare in tutte le sue gamme e sfumature.

Il clima creato da Francesco dispiace solo a chi ha paura della nostra tradizione migliore, e vuole restare abbarbicato soltanto agli scheletri del passato. Chi vuole la continuità con il Vaticano II, trova oggi ampie praterie di pratica e di pensiero, aperte e disponibili. Chi vuole una ermeneutica della rottura rispetto al Concilio, si arrocca nel silenzio o si fascia nella cappa magna, ironizza in modo cinico o confida nello scorrere del tempo. Come se il tempo potesse dar ragione a chi lo nega! Come se lunghi decenni di “teologia d’autorità” con pochissimo spazio per la ragione vera – in alcuni campi strategici come la morale e la liturgia – non fossero destinati a produrre tanti soldatini obbedienti e anche qualche mostro! Che ora dobbiamo tenere a bada, e anche consolare, sia come soldati che come mostri. Dando il gusto della libertà ai primi e il senso della misura ai secondi.

Tuttavia, nonostante tutto ciò, il ritorno autorevole del Concilio Vaticano II esige una recezione esattamente come 50 anni fa. Quello che sembrava perduto non è perso affatto. Ma partecipare di questo dono rinnovato non è cosa poco esigente: richiede una disponibilità alla conversione e una capacità di preghiera, un’arte dell’ascolto e una forza nella parola che metteranno tutti a dura prova. Anche questo nostro tempo di grazia è pur sempre un torchio: perché l’oliva produca olio – e non solo morchia – occorre lavoro e pazienza, audacia e preghiera. Come sempre.

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