Una Penitenzieria senza penitenza? La “falla teologica” che il card. Piacenza non sa riconoscere


indulgeo

Da un esame oggettivo degli ultimi decreti della Penitenzieria Apostolica, legati alla emergenza della pandemia, e riguardanti le indulgenze e il sacramento della penitenza (si possono vedere i due testi di marzo qui, mentre quello di ottobre è visibile qui) scaturiscono diversi possibili questioni, sia di forma, sia di opportunità, sia di sostanza. Sarebbe sufficiente riferirsi al “regime delle citazioni” per notare come, nell’ultimo documento del 22 ottobre scorso si parli di “indulgenze” citando soltanto il Concilio di Trento e un documento di papa Benedetto XV del 1915, Tutta la storia delle penitenze, con tutto il suo sostanziale cambiamento di significato e di uso, viene sostanzialmente ignorato. I tentativi di ripensamento di dottrina e di disciplina prodotti uffialmente da Paolo VI, da Giovanni Paolo II e da Francesco in materia, vengono lasciati cadere dalla sede ufficiale. La ufficialità non è riconosciuta e affettivamente – con affetti che sembrano incontenibili – si torna al passato idealizzato e nostagicamente ricostruito in provetta. E lo si fa, sia chiaro, per rispondere alle “non poche suppliche di Sacri Pastori”!

Ma qui vorrei occuparmi, invece, di una questione più radicale, interna ai tre documenti, e che dimostra proprio, sul piano sistematico, la mancanza di consapevolezza con cui gli ufficiali-burocrati della curia pretendono di parlare di penitenza, di comunione, di preghiera e di conforto nella malattia e nella morte con parole troppo piccole.

Una premessa di metodo

Parlando di antiche istituzione della Chiesa, si corre sempre il rischio di commettere un duplice errore: da un lato di condannare e di escludere ciò che non si comprende più; dall’altro di giustificare in modo irriflesso e rigido ciò che viene compreso in astratto, ma non in concreto. Per un buon esercizio della ragione teologica bisogna ogni volta saper “offrire chiarimenti e salvare i fenomeni” (Juengel). Il fenomeno è sempre diverso dal suo chiarimento. Nel caso delle indulgenze questo duplice errore si nasconde immediatamente dietro l’angolo: o le si condanna non comprendendole davvero; o le si salva senza offrirne un vero chiarimento in concreto, per la Chiesa non di 700 o 300 o di 100 anni fa, ma per quella di oggi. E’ del tutto evidente che un ufficio come la Penitenzieria Apostolica avrebbe tutto l’interesse a dare fondamento teologico e pastorale delle prassi cui è preposta. Ma non può farlo soltanto burocraticamente, attribuendosi semplicemente il potere di farlo. la autorità ha le sue ragioni, ma non ha mai tutte le ragioni. Essa deve preoccuparsi anche di giustificare i fenomeni argomentativamente e persuasivamente. E per farlo dovrebbe abbeverarsi alle fonti che più di recente hanno provato a prendere questa via.

Il problema-chiave degli ultimi documenti

In radice, sarebbe interesse della Penitenzieria Apostolica chiarire il rapporto tra indulgenza e penitenza. Proprio questa relazione problematica negli ultimi documenti manca totalmente. Anzi, si vede bene una contraddizione evidente e di cui il Dicastero pare proprio non accorgersi. Vorrei dirlo così: la pratica delle indulgenze è nata come “rimedio eccezionale e festivo” rispetto al compito di onorare la “pena temporale” che i vivi – e in un secondo momento anche i defunti – si trovano a dover onorare per rispondere alla grazia del perdono.  Le indulgenze  – non lo si ripeterà mai abbastanza – non riguardano le colpe o i peccati, ma le pene, ossia le “opere penitenziali” che scaturiscono dalla assoluzione sacramentale. La cosa paradossale, e su cui vorrei attirare la attenzione ecclesiale, è che, invece, leggendo i tre documenti, si coglie con chiarezza una “drastica scissione” tra penitenza e indulgenza. Potremmo dire così: la gestione burocratica del “foro interno” (questa è la competenza specifica del Dicastero) tradisce se stessa, perché non riesce a onorare le forme esterne implicate nel foro interno e perciò le formalizza in modo astratto e irrilevante. Ciò implica un duplice fatto contraddittorio: la comprensione del sacramento della confessione risulta  totalmente priva di attenzione per le opere penitenziali, le quali poi però, quando di passa a parlare delle indulgenze, vengono presupposte come il loro orizzonte di significato. Senza opere penitenziali chiaramente evidenti nella esperienza dei soggetti perdonati, parlare di indulgenze è solo “flatus vocis”. E’ come insistere sulla importanza di chiedere la remissione di un debito finanziario a chi non ha alcun debito e il cui conto non è in rosso. E non serve dire che “abbiamo anche debiti che non consciamo”: perché invece le opere penitenziali non procedono spiritualmente, ma corporalmente. Così le indulgenze possono avere un senso solo a certo condizioni, di cui la Penitenzieria non sembra curarsi. Qui qualcosa di profondo si è inceppato nella coscienza ecclesiale e la Penitenzieria trascura questa crisi e alimenta così un discorso sostanzialmente vuoto.

Lo specifico della Penitenzieria è disatteso

Perché mai, nel suo modo di prendere la parola, la penitenzieria trascura ciò che ha di più specifico? Mi spiego meglio. Se il Dicastero che si occupa del “foro interno” utilizza una definizione del sacramento della penitenza che prende dal Codice di Diritto canonico  (can 960) – come fa il documento di marzo – è evidente che in tal modo entra in una insuperabile contraddizione. Perché formalizzando esteriormente il foro interno – rendendolo assimilato alla unione di “confessione con assoluzione” – perde gli altri due atti del penitente, che sostanziano precisamente le “opere penitenziali”. Se può essere comprensibile che il codice “formalizzi il sacramento” semplificandolo in modo indebito, molto più incomprensibile è che lo faccia la Penitenzieria. In tal modo, usando una definizione formalistica del sacramento della confessione, che di fatto elimina la rilevanza del dolore e della penitenza, la Penitenzieria taglia il ramo su cui è seduta. Una Penitenzieria che non comprende più il ruolo decisivo della opera penitenziale nella vita dei cristiani – inteso come complessa elaborazione verbale e corporea del lutto e della memoria – rende inutile la propria funzione.

Una aggravante: la condizione di pandemia

Se un dicastero parla di esperienze che le sue parole contraddicono, deve porre anche grande attenzione al contesto in cui lo fa. Sarebbe già grave un uso retorico dei discorsi su “perdono del peccato” e “remissione della pena” in un contesto ordinario. Nella pressione degli eventi di pandemia ogni uso retorico della tradizione è tanto più preoccupante. Tematizzare la “remissione delle pene” e alimentare nello stesso tempo una comprensione “meccanica” della confessione, che non elabora alcuna pena, è non solo un atto vuoto, mera retorica ecclesiale, ma perde un ulteriore livello di contatto con la vita reale, nel rapporto con i vivi e con i defunti. La coscienza del peccato perdonato e della conseguente elaborazione della memoria e del lutto sono cose serissime, ancor più in tempi complessi come questi. Ma chiedono un rapporto fine e articolato col mondo reale, non con la proiezione che se ne ha in un palazzo romano. Su queste esperienze a nessuno, neppure ad un Ufficio romano, è permesso di parlare con una retorica sacra vecchia di secoli e svuotata della sua incidenza e pertinenza originaria. Parlare, nello stesso tempo, di remissione di pene che non si sono né fissate né elaborate e di perdono del peccato che non produce alcuna elaborazione né formale né sostanziale della sofferenza del cambiamento non è un servizio né alla tradizione ecclesiale, né a quel mondo che al cardinale Piacenza piace chiamare “mondo-mondo”, perché fin dall’inizio possa risultare irrimediabilmente frainteso. Il linguaggio elaborato dall’antimodernismo di 100 anni fa non può servire più, tanto meno alla Chiesa segnata dalla pandemia, dove la insistenza cieca sulla disciplina del “numero delle preghiere” e del “numero delle messe” diventa solo o un alibi dell’imbarazzo o il segno di una non nuova incapacità.

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