Bollettino della Società Filosofica Italiana - 01.04.2006
di
Giuseppe Ferraro
A.R. Nutarelli – W. Pilini, La filosofia è una cosa pensierosa, Diario di un’esperienza nella Scuola primaria di Chiunigiana, Morlacchi ed., Perugia 2005, pp.260.
Un libro intenso. Semplice come la ricchezza del sentire. Viene dopo le giornate della Montesca (si tratta delle Giomate di studio 'Filosofare con i bambini e i ragazzi” che hanno avuto luogo alla Villa Montesca di Città di Castello nei giorni 31 marzo-3 aprile 2005, per iniziativa dell'associazione Amica Sofia, che a sua volta fa capo alla sezione perugina della SFI: gli atti sono in preparazione). Ne è quasi il prolungamento. Walter Pilini ne aveva parlato nel suo intervento. quando presentò la sua «scuola del congiuntivo». quella attenta al modo verbale dei «possibili», siano ipotesi o speranze e attese. Nel libro poi si legge che dopo quel convegno Walter ritornò a scuola con tante domande in testa, tra cui quelle che sottopose ai ragazzi e che aprono di fatto il libro: che cos'è la filosofia e come immaginate sia un filosofo? Dalla risposta di una bambina è venuto il titolo del libro: la filosofia è una cosa pensierosa. Avrà affascinato molto Anna Rita e Walter quella risposta. Così come ha affascinato Livio Rossetti. che ne ha sostenuto la pubblicazione nel quadro di una continua ricerca di strade che siano molteplici perciò non tradite subito dalla voglia di 'curriculare' una modalità filosofia della relazione insegnante. Perché di questo si tratta nel libro. Di una pedagogia senza didattica come quella indicata nel Menone. Non la si potrà dettare o suggerire né, appunto, curriculare secondo un ordine didattico, o come una disciplina in aggiunta a quelle esitenti, come per bene rileva Walter Pilini. Sono le relazioni che contano. Sono le parole. E la parola filosofica è dì per sé una parola di relazione, capace di sollecitare all'accesso dell'universo interiore in mezzo all'universo verso mondo. Ho trovato di estrema importanza l'esperienza di Anna Rita Nutarelli. quando racconta del «soggiorno-studio/convivenza di cinque giorni gestito da noi insegnanti della classe». Hanno poi discusso insieme con i ragazzi del tempo, del giorno e della notte.
Conviene da qui entrare subito in argomento a riguardo delle forme, dei modi ancora, in cui si fa filosofia con i bambini, e non per i bambini trovando strade molteplici alla sua pratica. Una molteplicità, credo, che ha a che fare con la singolarità dell'esperienza filosofica. Ogni volta tanto universale quanto unica. Non la si può trasmettere, come Socrate ripeteva, allo stesso modo che per il travaso del vino da un bicchiere ad un altro per mezzo del filo di lana. La filosofia si trasmette per sollecitazioni e per contagi. La sua trasmissione è più vicina alla malattia che non alla prescrizione curriculare. Allora la questione che la riguarda non la chiana in causa come disciplina, ma come luogo e relazione, meglio, come “dar luogo” e “fare sapere”. Si capisce da qui la funzione del 'salotto filosofico”. Ogni scuola dovrebbe esseme dotata. E ne ho viste per fortuna tante già avviate in questa direzione. Lo spazio del fare filosofia non può essere quello della classe così com'è. Ogni sapere r: ha i suoi luoghi d'espressione e di comunicazione. Reclama condizioni e relazioni. Altrettanto come quel filosofo che diceva come anche per la teoria ce ne sono di quelle che suscitano uno stato di benessere invece di altre che suscitano malessere. II luogo allora è decisivo. Mette insieme. Fa compagnia. Non semplicemente “classe”.
C'è poi subito l'altro aspetto, del curriculare. Qui l'attenzione di Anna Rita Nutarelli è stata precisa. Non si tratta di rendere curriculare il fare filosofia con i ragazzi, ma di interagire sul curriculare. di riportare la riflessione su questioni, come quella di storia, per esempio, ma fuori della storia. Insomma. stabilire un rapporto per cui 'pensare' non sia separato da “pensarsi” fino a stabilire una continua relazione tra conoscere/conoscersi. domandare/domandarsi (cfr. p. 235). Sbaglieremmo ad
intendere perciò che la filosofia sia utile a “pensare meglio” o ad “esercitare la logica del pensiero”, Non si tratta di un tale pragmatismo. per quanto animato dalle migliori intenzioni. Non si tratta di far diventare i ragazzi dei 'geni' a pensare bene. ma a pensare ciò che è bene e che fa bene. La questione si sposta allora sui contenuti. Gli argomenti sono l'infinito, dio, il tempo, la giustizia, la libertà, il nulla, le regole... Una pedagogia dell'erranza potremmo chiamarla, riferendo a questo modo, spero senza tradire, il richiamo di Walter Pilini a Celéstin Freinet.
Fare filosofia con i ragazzi è stato «uno sbocco inevitabile», si legge più volte nel testo. Ed e questo il punto di rilevanza. Lo sbocco inevitabile. Quando si è di fronte all'inevitabile la filosofia trova il suo sbocco. E qui la funzione del maestro. la funzione insegnante, diventa difficile da inquadrare. La sua, certo, non deve essere una presenza invasiva. La difficoltà a trovare un nome per una posizione di relazione è evidente. Nel ruolo insegnante «mi sento nello stesso tempo regista, attore, facilitatore, co-protagonista scrive Walter Pilini. Una difficoltà. dunque, che è nell'immediato e conseguente coinvolgimento diretto. La posizione richiesta non è quella di trasmissione quanto di sollecitazione, ma di una sollecitazione che è rivolta a se stesso nel momento in cui è rivolta ai ragazzi. Allora quell'immagine fotografica riportata nel libro, dove lo si vede attorniato dai ragazzi, è essa stessa metafora di un pensare circolare, che mette in circolo la stessa funzione dell'apprendere ed insegnare che diviene «processo dell'imparare ad imparare. all'interno della più generale relazione educativa che concresce si articola e si sviluppa quotidianamente in classe» (p. 243).
L'indicazione è tale da rispondere ad una domanda che mi è venuta con insistenza nei giorni della Montesca. Mi chiedevo 'perché fare filosofia con i bambini', che cosa cerchiamo dai e con i bambini facendo filosofia. E poi conie fare filosofia con bambini. Certo l'esperienza è singolare e resta unica, testimoniale, come sempre accade per la filosofia. Eppure bisognerà dare delle indicazioni di massima. Non certo dei curricula e nemmeno delle prescrizioni, ma sicuramente delle indicazioni. Il libro affronta le questioni. Indica delle risposte. Precisa i piani delle domande. Quello della relazione con l'insegnante e quello delle condizioni della scuola, sia di struttura, luoghi e strumenti, sia di organizzazione delle discipline e delle modalità prescritte ogni volta dal Ministero a riguardo. In fondo stiamo assistendo ad un progressivo indebolimento della formazione a favore della formattizzazione. Una formazione ad hoc, fatta per competenze senza compiti. Spezzettata. Irriflessiva. Una riduzione della scuola a 'informa giovani', non attrezzata di computer, come pure si dichiara con enfasi di volerla dotare, ma modulata a programmi e format, cui i ragazzi sono chiamati ad adeguarsi. Fare filosofia nella scuola dell'obbligo risponde anche all'obbligo di difendere la scuola dalla formattazione. Ed è questo l'obbligo della filosofia.. Perché allora non diventi una moda, bisognerà che ci sia da parte di chi ci si dedica quella competenza professionale, fatta di conoscenza della filosofia e della sua storia (cfr. p. 242). Non voglio però chiamarla 'competenza', e gli autori saranno certo d'accordo con me, meglio chiamarla 'conoscenza', e non una conoscenza compiuta e rigida, ma rigorosa.
C'è poi da discutere sulle 'figure didattiche' di una disciplina che non ammette un curriculum didattico, ma non se ne può discutere qui. Su queste cose può valere il rimando ancora al Menone che non è solo il dialogo della maieutica, questo è certo. Ma non è qui il caso di discuterne. Mi piace invece rilevare come stile di filosofia rigoroso le parole di Anna Rita Nutarelli: «Non mi pongo il problema del grado più o meno filosofico della conversazione, che è connotata da toni metaforici, in un'atmosfera di scambio proficuo» (p.. 211). Mi fa venire in mente un'espressione di Wittgenstein che qui potrei parafrasare scrivendo che la filosofia come tale interviene allo sparire della sua preoccupazione. Trovo che le parole di Anna Rita siano importanti. Ancora più importante trovo l'emergere nel libro di una differenza di genere che aggiunge all'esperienza la ricchezza che avrebbe potuto altrimenti mancargli.. In fondo il libro si presenta anche come un'esperienza in tal senso. Ci sono due classi seguite per due anni consecutivi (adesso avranno in corso il terzo anno) discutendo sugli stessi argomenti, utilizzando lo stesso mito platonico; due classi, una guidata da un maestro e l'altra da una maestra. Senza questa ulteriore complessità di genere non potremmo cogliere la singolarità dell'esperienza nella sua storia presente, nel suo rappresentare un documento decisivo per continuare la pratica filosofica nella scuola dell'obbligo.
Del libro mi resta nella mente tutto quello di cui non ho scritto fin qui. Il coro di voci dei ragazzi. La parte indimenticabile e più preziosa, me lo permetteranno gli autori. Ma come dirlo? Se ne può parlare, ma non si può spiegare. Ecco, di fronte a queste pagine ci si trova a ripetere che non è possibile descrivere quello che solo si può vivere. E tuttavia è scritto. Lo leggo. Invito a leggerlo. Per la gioia che se ne ricava. Per l'esperienza di relazione che ne risulta. Se solo cedessi alla tentazione di discuterne mirerei ai nomi dei ragazzi, non alle pagine. Mi perderei però in quella stanza del 'salotto filosofico' finendo col fare solo rumore e distraendo la loro attenzione e il mio ascolto di cui non intendo io stesso privarmi.