Intervista ad Andrea Grillo  sul Concilio Vaticano II per la rivista IHU-on line
UN ATTO PROFETICO E UN “EVENTO LINGUISTICO”

Come giudica il Concilio Vaticano II, a 50 anni dal suo inizio, dal punto di vista liturgico?

Il Concilio Vaticano II, considerato 50 anni dopo sul piano del suo “magistero liturgico”, appare veramente come un grande atto profetico, con cui la Chiesa ha cercato di riprendere il filo della sua tradizione migliore, superando la crisi di identità che il XIX e il XX secolo aveva profondamente mnifestato. Ovviamente, a 50 anni di distanza, resta intatta – e forse ancora più urgente – la necessità di comprendere fino in fondo l’intento “tradizionale” del Concilio. Assicurare la continuità della tradizione mediante alcune benedette “discontinuità”. Su questo, negli ultimi anni, la coscienza ecclesiale è entrata in difficoltà, ha perso lucidità. Almeno nei suoi vertici. Il cuore della questione è: siamo ancora convinti che la “partecipazione attiva” di tutti i battezzati all’unica azione rituale sia il punto di svolta per la coscienza ecclesiale del nuovo millennio?

–  Quale è stato il significato e l’importanza della riforma liturgica promossa dal Concilio per la vita della Chiesa?

Appunto, per la vita della Chiesa di oggi e di domani è importante anzitutto maturare una coscienza lucida su questo fatto: la Riforma liturgica è stato – e continua ad essere – un atto di servizio alla possibilità che tutta la Chiesa, in ogni sua espressione, possa sempre ricominciare e compiersi (fons et culmen)  in una azione simbolico-rituale di comunione con il suo Signore Gesù. Restituire ai riti la prima e ultima parola: questo è stato il grande scopo che la Riforma si è prefissa e che oggi mette in gioco le buone (o cattive) intenzioni di tutti coloro che, nel rito, devono perdersi per ritrovarsi, devono “prendere l’iniziativa di perdere l’iniziativa”, come ha scritto il grande filosofo Marion. In questa “spoliazione di sé” la liturgia pretende molto, da chierici e da laici, da uomini e da donne. 

– Quali prospettive liturgiche sono state aperte dal Concilio Vaticano II?

Nel discorso con cui Paolo VI ha inaugurato la seconda sessione del concilio, nel settembre del 1963 – quella sessione da cui sarebbe scaturito il testo definitivo di SC – egli affermava che la Chiesa con il concilio doveva dare migliore espressione a ciò che essa pensa di sé. La riscoperta che nella azione liturgica “continua l’opera della redenzione”, continua l’”ufficio sacerdotale di Cristo”, si istituisce una esperienza di comunione, di lode, di rendimento di grazie, di benedizione, che ad essa tutti i battezzati scoprono il “dono” di essere invitati e che tutta la Chiesa si scopre segnata da questo ministero di annuncio del Vangelo: tutta questa prospettiva di comprensione della liturgia appare capace di rinnovare profondamente non tanto la liturgia stessa – che pure ne aveva un grande bisogno – ma la qualità delle relazioni ecclesiali, dello stile spirituale e della vita testimoniale dei discepoli di Cristo.

– Tra i fini principali riguardo alla liturgia (Sacrosanctum Concilium), il Concilio ha proposto la riscoperta di importanti valori o principi del Cristianesimo primitivo. Quali sono i principali tra questi e qual è l’importanza di questa riscoperta?

Evidentemente il Concilio, nel mirare a restituire alla liturgia tutta la ricchezza che la tradizione vi aveva sperimentato, ha dovuto pensare in grande, non soltanto secondo le logiche del secondo millennio, ma anche secondo quelle del primo millennio. Ha parlato, per questo, un linguaggio molto più biblico e patristico che sistematico; ha ragionato più in termini di esperienza comunitaria che nei termini di “salvezza dell’anima”; ha guardato positivamente alla ricchezza delle differenze piuttosto che negativamente all’alterazione della verità; ha scelto la profezia di “ventura” contro i profeti di “sventura”; ha fatto prevalere la riscoperta dell’uso piuttosto che la denuncia dell’abuso. Da questo punto di vista non c’è nel concilio nessuna tendenza “archeologica”, ma un interesse fondamentale all’arricchimento di una pratica rituale che aveva assunto stili, parole e forme troppo chiuse, troppo autoreferenziali e spesso senza più capacità di comunicazione.

– Può spiegare meglio uno di questi principi, ad es. la categoria di “mistero pasquale”? Quali sono lo conseguenze di questo concetto per la riflessione teologica e pastorale?

Le conseguenze di questa riscoperta sono nello stesso tempo istituzionali e spirituali. Dal punto di vista istituzionale, il recupero della centralità della categoria di “mistero pasquale” ha ricollocato al centro della esperienza ecclesiale il dono di grazia recepito dall’intera compagine, insieme da chierici e laici. Al ridimensionamento delle pretese di una “societas perfecta” ha corrisposto la riscoperta della qualità spirituale della vita laicale, segnata anche essa da un rapporto strutturale – battesimale e eucaristico – con il mistero pasquale. Per favorire questo sviluppo, tuttavia, la Chiesa ha soltanto cominciato a sviluppare nuove forme di linguaggio e nuove forme di relazione. Qui ha ragione lo storico americano O’Malley: il concilio è stato anzitutto un “evento linguistico”. Ha modificato il modo di esprimersi della Chiesa. E tuttavia, siccome il linguaggio non è solo espressione, ma anche e anzitutto esperienza, ha modificato l’esperienza della Chiesa. Purché si resti consapevoli di poter e dover cambiare linguaggio.

– Quale è l’importanza della celebrazione comune (o comunitaria) secondo il Vaticano II?

Il Concilio Vaticano II, riprendendo alcuni spunti importanti elaborati dal Movimento Liturgico lungo il XIX e XX secolo, ha cominciato autorevolmente a superare un “paradigma individualistico” del rapporto con Cristo e con la Chiesa. Tale paradigma era scaturito dall’impatto tra il modello classico e tradizionale di vita cristiana e il mondo moderno. Se il Concilio di Trento aveva – nel 1500 – favorito il passaggio “dalla comunità all’individuo”, 400 anni dopo il Vaticano II ha impostato la ripresa del primato della comunità sull’individuo. Questo ha significato una riequilibratura profonda e complessa tra vita spirituale, strutture istituzionali e azione rituali. Tale processo di calibratura è ancora in piena elaborazione e comporta grandi sacrifici, sia per gli individui sia per le comunità, ma anche grandissime opportunità. 

– Quale è il significato e la rilevanza della Chiesa intesa come “popolo di Dio” e come “comunione/sequela” per la esperienza della celebrazione?

La comprensione della Chiesa come “popolo di Dio” e come “comunione” con il Padre mediante il Figlio nello Spirito ha iniziato, lentamente ma irreversibilmente, a modificare la prospettiva di ogni celebrazione liturgica, cambiando profondamente il modo di pensare e di sperimentare i dati più basilari della celebrazione. Si pensi alla triade classica con cui abbiamo pensato il sacramento: forma, materia e ministro. Per la concezione classica e anche post-tridentina, vi era sacramento valido quando il ministro competente pronunciava la formula sulla materia. Ora tutto questo risulta molto parziale e unilaterale. La forma non è più anzitutto formula, intesa come una serie limitata di parole “sacre”, ma è tutta la sequenza rituale; materia non è più un oggetto chimicamente definito, ma è un bene storicamente e simbolicamente determinato; il ministro non è carica singolare, ma è articolato nel rapporto complesso e ricco tra presidenza, ministeri e assemblea. Questa rilettura, come risulta evidente anche solo da questo breve cenno, conduce a una espressione molto più ricca e articolata, che determina – inevitabilmente, di generazione in generazione – una diversa esperienza liturgica e ecclesiale.

– In termini generali, come la Chiesa postconciliare ha recepito le decisioni del Concilio, in particolar modo in ambito liturgico?

La “recezione” del Concilio Vaticano II ha avuto uno storia molto differenziata, già in Europa e poi in tutto il resto dei continenti. In generale possiamo ritenere che vi sia stato un orientamento di profonda convinzione nelle scelte conciliari, che è giunto fino agli ultimi anni del papato di Giovanni Paolo II. Proprio in queglli ultimi anni (diciamo a partire dal Giubileo del 2000) si sono manifestati alcuni segni di minore convinzione, soprattutto da parte della curia romana, ma qua e là anche in periferia. Gli ultimi anni hanno poi visto manifestarsi un conflitto di interpretazioni abbastanza significativo, che tuttavia non ha potuto mettere in questione i dati irreversibili di una “riforma” liturgica che in larga parte della Chiesa è divenuto un fenomeno capillare, inarrestabile e fecondo, determinando un mutamento profondo sia delle forme di vita sia delle esperienze formative dei cristiani del III millennio.

– Alla luce di recenti decisioni di Papa Benedetto XVI, tra cui la reintegrazione dei seguaci di Marcel Lefebvre nella Chiesa e la riammissione dell’uso dei riti della tradizione tridentina, quale è la sua considerazione dell’attuale momento ecclesiale?

Già la risposta alla domanda precedente si è incamminata verso questa ulteriore questione. Come è evidente,  questo sviluppo, motivato dal nobile intento di favorire una più ampia comunione nella Chiesa, determina spesso un fenomeno diverso, quando non opposto. Ossia non produce di fatto significativi cambiamenti nel rapporto con il tradizionalismo, ma concede sul piano generale cedimenti su principi non disponibili, introducendo fattori di nuova e diffusa lacerazione nel corpo universale della Chiesa. Voglio fare un esempio. Se un documento del 2007 afferma, in modo generale, che ogni prete, senza bisogno di alcuna autorizzazione, quando celebra senza popolo può indifferentemente utilizzare il rito ordinario o il rito straordinario, si introduce surrettiziamente nella Chiesa nello stesso tempo un principio di “anarchia dall’alto” – come lo ha chiamato il grande vaticanista Zizola –  e si sovverte il primato della “messa con il popolo”, riportando in primo piano una sorta di autonomia del chierico rispetto all’assemblea, cosa che costituirebbe una smentita esplicita della riforma voluta dal Vaticano II.. In questo caso si potrebbe parlare di una nuova contestazione rivolta al Concilio, che minerebbe l’idea stessa della “necessità” della Riforma Liturgica, trasformandola in una sorta di “optional” rispetto a cui la tradizione potrebbe pretendere di immunizzarsi completamente rispetto ad essa. Come è evidente, questa conclusione non sarebbe molto lontana dalle posizioni che i tradizionalisti sostengono da 50 anni. Ma l’accordo che eventualmente procurerebbe costituirebbe di fatto una smentita del cammino percorso comunitariamente in questi 50 anni. 

– Considerando l’attuale contesto ecclesiale e mondiale, nel quale celebriamo il 50^ anniversario della apertura del Concilio, quali sono gli elementi più importanti da valutare perché la Chiesa possa aprirsi alle nuove sfide?

Nel contesto ecclesiale e civile contemporaneo,  la ripresa della “profezia conciliare” costituisce una sfida non di poco conto per i cristiani di 50 anni dopo. Profezia significa anzitutto “speranza”. E, come dicevano già gli antichi, il contrario della speranza è tanto la disperazione quanto la presunzione. Le tentazioni che oggi attanagliano più facilmente la Chiesa – tanto ai suoi vertici quanto alla sua base- è una pericolosa miscela tra questi due “vizi”. Disperare della Chiesa postconciliare e avere la presunzione di trovare nel pre-concilio le soluzioni già pronte per la nostra condizione critica costituisce un peccato oggi molto a portata di mano, quasi consigliabile! D’altra parte, il sentimento più pericoloso della Chiesa di oggi è la paura. Per paura ci si arrocca su evidenze divenute nel frattempo inevidenti; per paura ci si consola con le piccole cose di un tempo; per paura non si scontenta nessuno e si finisce per scontentare tutti; per paura si assume più facilmente l’atteggiamento del giudizio piuttosto che quello della comunione.
Per rimediare a questo rischioso atteggiamente di chiusura liturgica ed ecclesiale, dovuto essenzialmente ad un eccesso di paura, può essere utile cominciare dalla documentazione storica: mostrando che la Chiesa è giunta a identificare il proprio percorso di Riforma Liturgica sulla base di una crisi rituale e sacramentale che sperimentava già dalla prima metà del XIX secolo. Anche solo un tale esercizio della memoria può essere in grado di disinserire quei meccanismi di generalizzazione e di falsificazione che impediscono di cogliere la profezia conciliare per il suo verso giusto, e invece tendono a confonderne le cause con gli effetti, rendendo il Concilio Vaticano II responsabile di quella crisi che è  almeno di 100 anni più vecchia di lui. Dimenticando che i problemi liturgici non cominciano con il Concilio, ma semmai con il Concilio cominciano a essere risolti. 

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Graziela Wolfart
Jornalista
Instituto Humanitas Unisinos

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