“Tütti i tempi vègnan””


 
 
 
 
 
 
“Tutti i tempi vègnian”
 
Il potente venire dei tempi e l’insipienza festiva dei potenti
Tra le tante forme di sapienza proverbiale intorno all’esperienza del tempo – tutte scrupolosamente attente alle infinite differenze tra accelerazione e indugio temporale, tra cogliere l’attimo e saper indugiare con lucidità – vorrei considerare un proverbio ligure che riprende il tema biblico della insondabilità e della irriducibilità del tempo. “Tutti i tempi vègnian” indica una esperienza integrale e inesauribile di “vissuti temporali”. E lo ricorda all’uomo per la sua tendenza a formalizzare astrattamente solo pochi e chiari elementi del tempo. C’è una sottile minaccia, ma anche una dolce consolazione, in questo proverbio: c’è un tempo per tutto nella vita. Per la gloria e per il disonore, per la forza e per la debolezza, per la gioia e per la tristezza.
La minaccia è costituita dalla coscienza acuita della precarietà, della contingenza e della provvisorietà dell’esperienza umana, che non è autosussistente e deve affidarsi ad altro. In questa linea si muove la coscienza di sempre, che emergeva anche dai tre saggi interpellati dal Presidente USA Abramo Lincoln, quando chiese loro di suggerirgli una frase che potesse pronunciare in ogni occasione e che risultasse sempre vera. E i tre, dopo essersi consultati, concordarono su una sola proposizione: “Anche questo passerà”. Tutto passa. Passa la scena di questo mondo. Passano le forme, le figure, le relazioni, le strutture. Passano le amicizie, passano gli amori. Passano le passioni, ma passano anche le azioni. Ed è come se il proverbio volesse invitarci a non confidare troppo in ciò che non dura, a non illudere noi stessi e a non disilludere gli altri.
Ma cè anche una consolazione che si nasconde nello stesso proverbio. Proprio perché nulla è veramente stabile, perenne, inattaccabile, allora ogni fatica, ogni disagio e ogni sofferenza possono avere un termine e non c ‘è condizione che non sia reversibile; in questi casi evocare “tutti i tempi vegnan” si trasforma in un balsamo, in un supplemento di speranza, in una luce che trapela dalla coltre di tenebra e di amarezza.
Forse proprio da questa particolare angolatura, in questo risvolto di una sapienza antica e sempre nuova, si può scovare anche un elemento decisivo per valutare tracce recenti della nostra “insipienza festiva”. Che cosa voglio dire? Che il mondo che si esprime nei proverbi, pur con tutta la coscienza che sa elaborare circa la relatività del tempo, non si permette neppure lontanamente di assolutizzare un tempo particolare. Né il tempo del lavoro, né il tempo libero. Fa parte dell’esperienza tradizionale del tempo che esso non possa essere reso assoluto, ma debba essere sempre subordinato a un evento che gli dona senso. Questo è lo spazio che la tradizione affida alla “festa”. La festa ha proprio il compito di raccogliere e rilanciare la relatività del tempo, dando ad esso un senso, che da solo non riesce a cogliere.
Ciò accade con quella dimensione festiva del tempo che, nella sua origine, è anche sempre e necessariamente religiosa. Ma il tempo della secolarizzazione conosce anche “feste civili”. Se sono feste, tuttavia, anche quelle civili dovrebbero dettare un senso al tempo, esercitando così una funzione che – di per sé – è sottratta al consenso. Puoi festeggiare solo ciò che “non hai deciso tu”, ma che “ti permette di decidere”. Oggi, tuttavia, può accadere che alla festa dei 150 anni della unità d’Italia si risponda – istituzionalmente da parte movimenti di lotta e di governo o secondo una irriducibile logica imprenditoriale – che non è bene che si perda un giorno di lavoro. Questo forse è solo un volto della umana improntitudine o deriva da una scarsa esperienza delle cose, ma è certo anche un tratto tecnocratico del nichilismo. Questa è la mancanza di esperienza del valore fondante del tempo gratuito, che istituisce le logiche necessarie – ma insufficienti – della dialettica tra lavoro e riposo. Se fare memoria della radice dell’ unità nazionale significa “perdere tempo”, questa mancanza di riconoscimento può giustificare tutto, e per un giorno di lavoro in più si potrebbe immolare anche la memoria materna o paterna: la perdita di identità minaccia le nostre pratiche e le nostre teorie, ben più gravemente di quanto non dicano le battute o le barzellette sugli italiani.
E’ vero: la nostra mancanza di “senso dello Stato” – di per sé – può essere in certi casi una grande virtù. Ma avere senso dello Stato non significa soltanto obbedire alle leggi, pagare le tasse o accettare le sentenze dei giudici (e in questo possiamo essere molto forti proprio quando sappiamo di essere deboli). Ancora di più, mi sembra che avere senso dello Stato significhi essere sensibili per la fragilità con cui lo Stato ha bisogno di cittadini con la memoria lunga piuttosto che corta e capaci di disinteresse piuttosto che dipendenti dai loro interessi. Senza queste caratteristiche non ci sarebbero stati mai né l’Italia come nazione né il PIL come suo prodotto. Ma per queste cose bisogna avere – per dir così – orecchio e occhio. E l’orecchio e l’occhio – a furia di tanti discorsi troppo interessati e troppo meschini – possono dimenticare le ragioni più profonde per cui ci si può dire e sentire orgogliosi di essere cittadini italiano. E lo si può fare solo per disinteresse, altrui e proprio. Quando avremo uomini delle istituzioni – ai diversi livelli – capaci di questa elementare sensibilità? A ben vedere, però, se coloro che hanno dato la vita per l’ideale nazionale avessero indovinato, come in sogno, queste gravi insensibilità a distanza di 150, avrebbero forse resistito nel loro operato dicendo a se stessi “Tutti i tempi vegnian”. Non assolutizzando il tempo, avrebbero in qualche modo reso tollerabili e ininfluenti le manifeste insipienze festive (ma fossero solo festive!) di presuntuosi Ministri della Repubblica o di disarmati Capitani d’ Industria. Il potente venire dei tempi rivela l’insipienza festiva dei potenti.
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