4 domande e 4 risposte sulle critiche di De Mattei a Kasper


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Alcuni chiarimenti ulteriori 


Il post precedente, dedicato alla confutazione delle principali critiche di De Mattei a Kasper, è stato ripreso dal blog di Matias Augé. Tra i commenti su quel blog Sergio Meligrana ha formulato 4 domande, alle quali rispondo volentieri qui sotto:

Gentile Prof. Augè, ci sono alcuni punti in questo intervento che mi piacerebbe il prof. Grillo chiarisse:

1) Fino a che punto possiamo contare sulla la distinzione tra contenuto della Dottrina e forma linguistico espressiva della stessa, tenendo conto che la lingua non è un mero rivestimento ma incide sulla formnulazione stessa del pensiero;

A questa prima questione bisogna rispondere  in due passaggi. In primo luogo bisogna considerare che la distinzione, che è stata introdotta autorevolmente da papa Giovanni XXIII in apertura del Concilio Vaticano II, recepisce quella sensibilità che abbiamo imparato a chimare  “svolta linguistica”. Con essa si intende, appunto, una nuova consapevolezza del ruolo del linguaggio, non riducibile alla funzione di mero strumento. Ciò comporta, necessariamente, un grande affinamento della dottrina. La nuova coscienza linguistica ci chiede di interrogarci sulla “natura della dottrina”. Questa nuova coscienza può condurre a diverse conclusioni. In questo caso – ed è questo il secondo passaggio – mi pare che la distinzione tra sostanza e rivestimento, che non deve essere pensata in forma metafisica, voglia proprio sottolineare il debito che le nostre dottrine sul matrimonio hanno dovuto scontare rispetto ai linguaggi con cui sono state formulate. Pretendere che talune formulazioni linguistiche, elaborate in contesto giuridico romano o nell’impatto tra impero e nuovi popoli del nord, possano definitivamente condizionare il nostro approccio alla verità di fede circa il matrimonio mi pare un punto ancora da elaborare e da acquisire nelle sue conseguenze dottrinali e pastorali. Proprio perché il linguaggio è sostanza, non possiamo far dipendere la sostanza da un linguaggio troppo angusto e datato, nel quale la Parola di Dio non riesce a respirare. 

2) Poichè i vizi umani sul “consenso” che determinano la inesistenza dell’unione sono a monte, e in questo caso non c’è mai stata vera unione ma solo apparenza di matrimonio, mentre nessun vizio sorto dopo l’unione ne può viziare l’unione, come si esce da un matrimonio fallito per motivi ex post?

La formulazione di questa domanda, ossia il modo con cui viene interrogata la realtà, mi sembra il frutto del condizionamento di linguaggi troppo angusti rispetto alla esperienza che cercano di mediare e di rendere comprensibile e gestibile. Abbiamo costruito una macchina teorica in cui, per salvaguardare la irrevocabilità della azione di Dio, abbiamo concentrato la rilevanza di ciò che è umano solo all’inizio, tra le condizioni di possibilità. Ma non tutto torna, già quando il mondo romano ha dovuto confrontarsi con la sensibilità “barbarica”. La rilevanza della consumazione per la indissolubilità costituisce, già in quanto tale, la ammissione di un ex post rispetto al consenso. Il mondo antico e medioevale poteva accontentarsi della manifestazione del consenso sullo “jus in corpus” e poi dell’esercizio di questo stesso jus in vista della generazione. Da quando, però, è entrata nella esperienza delle persone la soggettività di una libera coscienza, il sentimento dell’amore e il “bonum coniugum”, quei concetti originari non sono più sufficienti né a spiegare il matrimonio, né a rimediare al suo fallimento. Su questo dobbiamo essere coraggiosi e intelligenti nel saper obbedire in modo nuovo al Vangelo di sempre.

3) Riconoscere un fatto implica anche “giudicarne” la coerenza col Vangelo: come può un fatto diventare sorgente di un diritto nella Chiesa, quando esso è in contrasto con la Parola del Signore?

Questa terza domanda è molto utile perché permette di portare alla luce una distorsione assai pericolosa nella mentalità di fede. Presupporre che, in campo matrimoniale, i “fatti” siano ammissibili solo se “coerenti con il Vangelo” è un modo di inibirsi la visione di interi mondi di esperienza, di storia, di dolore e di gioia. Le storie delle coppie non sono applicazioni di modelli astratti, ma difficili cammini di realizzazione della comunione, sotto la Parola di Dio, ma anche esposti allo scacco e sempre aperti ad esiti molto diversi da quanto i singoli membri della coppia o della famiglia avevano potuto comprendere, di sé o dell’altro. Queste storie, di fronte a una mentalità massimalista, che apprezza solo il “bene massimo”, non hanno alcuna rilevanza, anzi risultano semplicemente inesistenti. Che un fatto sia in contrasto con la Parola del Signore non può essere oggetto di un giudizio semplicemente a priori. Ciò che “Dio ha unito” non può essere semplicemente una evidenza oggettiva priva di profondità personale e di vissuto storico. Per questo dobbiamo riconoscere che la teologia del matrimonio subisce un grande approfondimento dopo Dignitatis Humanae. La storia della libertà della coscienza, che elabora soggettivamente e personalmente il consenso e l’unione sessuale con l’altro, può e deve trovare una nuova identità. Dire ciò con il linguaggio della ontologia non è più una necessità che discenda dal Vangelo. Qui, mi pare, vediamo molto chiaramente come “essere una sola carne in Cristo” richieda un affinamento dei linguaggi e delle forme istituzionali, che tenga conto di un rapporto tra teologia e antropologia, in un contesto che non deve essere giudicato più povero, ma più ricco. Anche di fronte ai vissuti delle coppie, dobbiamo evitare di essere profeti di sventura, idealizzando il passato e sfiduciando il futuro. Come dice papa Francesco, ogni idealizzazione è sempre una forma di aggressione…

4) Il cammino penitenziale richiede da un lato la consapevolezza di aver peccato e dall’altro la volontà di uscire dalla situazione di peccato: come conciliarlo con l’idea della legittimità di una seconda unione vivente ancora il precedente coniuge?

Senza dubbio un itinerario penitenziale riposa sulla coscienza di dover accedere ad una conversione, profonda e importante, che riguarda il proprio essere. Ma la impostazione classica, che brilla nella formulazione della domanda, trova una soluzione soltanto nella “reversibilità” della condizione di sofferenza: abbandono della seconda unione e ritorno al coniuge legittimo. Ciò nondimeno, la vita di molti uomini e di molte donne, attraversata dal peccato e dalla grazia, sa che questo per loro non è più possibile. Come possiamo chiedere ai soggetti cristiani ciò che non è più possibile? In molte circostanze, non il bene massimo, che non è più possibile, ma il bene possibile, che è forse solo il “male minore”, diventa l’unico modo concreto con cui coloro che nel matrimonio hanno trovato soltanto una forma più acuta di solitudine, possano rimediare a questa condizione. Possiamo forse applicare anche a loro la ipotesi di un “nuovo inizio”, perché anche per loro vale il principio secondo cui “non è bene che l’uomo sia solo”. Il precedente coniuge vive, ma il primo matrimonio non vive più: questo fatto amaro di morte, che ha bisogno di complesse forme di elaborazione del lutto, a livello non solo individuale ma ecclesiale, dobbiamo trovare il coraggio e l’intelligenza di riconoscere per ciò che è, come una esperienza reale e concreta, che riguarda i soggetti battezzati, e dalla quale possono e debbono discendere, anche per loro, diritti e doveri, non solo di fronte al mondo, ma anche nella comunità ecclesiale. Se i divorziati risposati non perdono la comunione ecclesiale, come ha storicamente affermato “Familiaris Consortio”, essi devono poter trovare un tempo e un luogo nel quale celebrare anche sacramentalmente, e senza doversi nascondere, questa loro comunione, che non esclude, ma include la loro nuova unione. Senza alcuna fretta, ovviamente, ma anche senza nuove o antiche ipocrisie. 

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