Tradurre la tradizione: la “svolta pastorale” del Concilio Vaticano II e il problema di “Liturgiam authenticam”


 sanpietro

 Che cosa è accaduto, con il Concilio Vaticano II? O, meglio: è accaduto qualcosa al Vaticano II? Potremmo dire che il Vaticano II è come un “grande atto di traduzione”, che mira a tradurre la tradizione in un diverso contesto, in una nuova cultura, per nuove priorità. Questa è la sfida da cui esplicitamente il Concilio ha voluto lasciarsi mettere in gioco. E lo ha fatto “cambiando i criteri” con cui la tradizione legittima se stessa.

Nel cuore della “svolta pastorale” troviamo il principio, enunciato apertamente da Giovanni XXIII – e ribadito in molti casi e con diverse parole da Paolo VI – della relazione tra “sostanza della antica dottrina del depositum fidei” e “formulazione del suo rivestimento”. Il lavoro sul linguaggio appare, nella coscienza iniziale del Concilio, come assolutamente determinanate. Anche le più recenti riletture dell’evento conciliare – ad es. in G. Routhier o in J. O’Malley – sottolineano la sua natura di “evento di stile” e di “evento linguistico”.

Ciò che ha determinato la svolta, in campo liturgico, è, nello stesso tempo, un triplice livello di “nuova attenzione”, che potremmo così brevemente e provvisoriamente descrivere:

  • una nuova nozione di “azione rituale” (non “ritus servandus”, ma “ritus celebrandus”)

  • un nuovo paradigma di partecipazione (come comune partecipazione a tutti i linguaggi del rito)

  • la necessità di una procedura di riforma dei riti, alla luce (e in vista) delle prime due acquisizioni, per renderle concretamente possibili e praticabili.

Tutte le questioni che si sono aperte circa le “traduzioni” debbono essere incastonate in questo ampio spettro di istanze, senza le quali non possiamo oggi recuperarne la profondità e la complessità

Diciamolo in altri termini: la “questione della lingua”, da un certo punto di vista, sembra il luogo iniziale e prioritario per permettere un “avanzamento” su tutti e tre i livelli dell’aggiornamento. In realtà, se male intesa, o intesa in modo unilaterale o superficiale, l’acquisizione delle “lingue vernacole” rischia di “spegnere” la tensione che è interna all’aggiornamento propugnato dal Concilio. La possibilità di “tradurre nelle lingue moderne” non deve mai risolvere il rapporto con il linguaggio rituale, riducendolo al solo “capire”. Questa è una delle insidie che minaccia tutto il dibattito, di ieri come di oggi.

1. Diversi criteri per salvaguardare la ricchezza della tradizione

Provo qui ad isolare tre livelli diversi della questione. Ad ognuno di essi corrisponde una diversa “definizione di liturgia”, un diverso “paradigma partecipativo” e un più o meno necessario “processo di Riforma liturgica”. Perciò dovremo giudicare della questione della “traduzione” in vista di una questione sulla “tradizione”, ecclesiale in senso lato e liturgica in senso stretto. La domanda che ci poniamo viene da Girolamo e può essere formulata così: come si può “essere fedeli” alla tradizione della antica dottrina mediante una “traduzione”? Che cosa comporta il “tradurre”? Nelle risposte identificheremo tre modelli, pensati utilizzando le categorie introdotte da G. Lindbeck nel suo testo fondamentale La natura della dottrina.

1.1 Il livello della fedeltà della formulazione/rivestimento (da verbale a verbale) – una lettura proposizionale della dottrina/traditio

Il primo caso della “fedeltà” è, in buona sostanza, una riproposizione di una tradizione che “non può cambiare in nulla”, nemmeno nella sua espressione. Vi è, in qualche modo, la certezza – che rasenta e spesso oltrepassa la illusione – che la lingue moderne, le lingue vernacole, possano/debbano essere, semplicemente, il “calco” della lingua latina, della quale si assume la “normatività” a livello liturgico. Vi è persino la “pretesa” di bloccare le lingue moderne mediante il “glossario” del CCC! Ciò che è “dottrinale”, assunto dagli schemi catechistici, pretenderebbe di essere “normativo” per la stesura delle traduzioni dei testi liturgici.

Sesi considera il modo con cui LA propone la necessità per cui, nella traduzione, “il genere letterario e retorico dei vari testi della liturgia romana deve essere conservato”, è assai curioso che ciò che è tipico di una modalità “espressivo/esperienziale” di un ambito linguistico – ad es quello latino-romano – sia assunto quasi come un modello espressivo che si dovrebbe imporre al altre espressioni linguistiche. Questa pretesa rivela una comprensione “strumentale” e, insieme, monumentale, della lingua. Ciò che conta, in fondo, in questa prima forma di approccio – che in fondo troviamo espressa con questa rozzezza soltanto dal 2001 in qua – è la corrispondenza formale, verbale e sintattica, che deve essere perseguita nel modo più forte possibile.

In realtà il discorso che viene proposto da LA trova la sua giustificazione come opposizione ad una “teoria liberale” del tradurre, che viene espressa con molta forza al n. 19 di LA: “Le parole della Sacra Scrittura, come pure le altre che vengono pronunciate nelle celebrazioni liturgiche […] non vanno considerate in primo luogo come se fosse quasi lo specchio della disposizione interiore dei fedeli; esse esprimono delle verità che superano i limiti imposti dal tempo e dallo spazio”.

E’ evidente, quindi, che la “ratio” del documento LA sta in una reazione apologetica rispetto ad una “deriva” post-conciliare, percepita come “soggettivismo e relativismo liberale”.

A questo proposito si possono fare due osservazioni:

  • non vi è dubbio che il rischio di “traduzioni troppo libere” possa aver segnato la produzione di testi successivi a “Comme le prévoit” e che fosse necessario richiamare le singole Conferenza episcopali ad una maggiore attenzione;

  • d’altra parte, una risposta che pretenda di riportare ordine nella liturgia romana riconducendo la pluralità delle lingue a semplici “strumenti” per la comunicazione delle “res” dette e pensate in latino, questo mi pare, francamente, un rimedio peggiore del male.

La diagnosi, per quanto esasperata e resa quasi apocalittica, ha una sua pertinenza. Ma la terapia proposta da LA è, in larga parte, priva di fondamento teorico e di vera praticabilità. Il rischio è che i testi prodotti secondo questo criterio “rassicurante” siano di fatto inutilizzabili nelle lingue vive. E che le lingue vive, proprio per questo, rivendichino a loro volta, a causa di questa impostazione, una autonomia ancora maggiore. Il che, d’altra parte, è incluso nella valutazione originaria della “mediazione linguistica della fede”, che non può essere sequestrata da un’unica tradizione, per quanto antica e autorevole.

D’altra parte, occorre ricordarlo, è sempre più diffusa – inevitabilmente – una produzione di “liturgia latina non in latino”. Questo non è un “errore cui rimediare”, un difetto di procedimento, ma è il frutto della “vita nella sua inesauribilità”, che attinge alla parola biblica per tradurla in forma di preghiera, di invocazione, di lode, di benedizione, di rendimento di grazie sempre nuove, perché strutturate originariamente nel “pensiero delle lingue vernacole”. Le “lingue vernacole”, in altri termini, non sono semplici strumenti, ma forme di pensiero. Su questo punto LA è del tutto inadempiente, quasi cieca, o accecata dalla logica apologetica.

 1.2 Il livello della fedeltà della sostanza della tradizione (da verbale/concettuale a verbale/concettuale) – una lettura esperienziale della dottrina/traditio

 Una diversa lettura della fedeltà, che solo in parte corrisponde alla proposta offerta dal documento “Comme le prévoit”, non si limita a considerare il rapporto tra parola e parola, ma indirizza la propria attenzione ad un “rapporto di rapporti”: una parola sta al suo significato in un contesto linguistico come una parola sta allo stesso significato in un altro contesto linguistico. Questa, potremmo dire, è stata la grande apertura di libertà che il post-concilio ha saputo e voluto respirare. Sono le “corrispondenze dinamiche” che integrano/sostituiscono le “corrispondenze statiche, formali, letterali”.

La considerazione che “Comme le prévoit” fa delle diverse prospettive su cui “tarare” la traduzione – ciò che è scritto, chi lo scrive, per chi è scritto e in che modo è scritto – aiuta a considerare la relazione strutturale tra “sostanza” e “rivestimento” secondo una maggiore ricchezza.

Anche se – occorre riconoscerlo apertamente – non scongiura affatto una “riduzione soggettivistica” del linguaggio, diametralmente opposta, ma altrettanto rischiosa, rispetto alla sua versione “oggettivistica”.

Potremmo dire così: tanto la lettura classica – oggettivistica – quanto la lettura erronemente attribuita all’immediato post-concilio – e che può essere detta soggettivistica – non riescono a valorizzare appieno il ruolo che la lingua svolge per l’accesso del soggetto alla tradizione dottrinale e vitale.

Se infatti a una “lettura proposizionale della dottrina” – che corrisponde alla assolutizzazione della “traduzione letterale” – contrapponiamo una “lettura esperienziale della dottrina” – che corrisponde alla assolutizzazione del “significato interiore – finiamo per perdere, in realtà, il senso del contesto rituale che dà forma e autorità alla “esperienza canonica” del testo scritturistico e dell’ordo rituale.

Una duplice illusione minaccia la contrapposizione tra lettura “oggettivistiche” e letture “soggettivistiche”. Quella di poter affrontare la questione “senza” ricostruire il contesto rituale di riferimento e di poter fare i conti con il “significato” nella breve relazione tra “parola” e “concetto”.

Per questo occorre percepire un terzo livello, più profondo e più elementare della questione, che è in qualche modo presente nelle intenzioni di “Comme le prévoit”, ma che è esplicitamente escluso dall’approccio – rigidamente oggettivistico – proposto da LA.

 1.3. Il livello della integralità della esperienza da mediare (da verbale/non verbale a verbale/non verbale) – una lettura culturale e linguistica della dottrina/traditio

Che cosa accade, con il Concilio Vaticano II? Che il primo modello di “garanzia della continuità della tradizione” viene effettivamente e irreversibilmente superato. Ed è superato proprio nell’atto stesso in cui, nel rito, si ammette la possibilità di una “linguae vernaculae usurpatio” (SC 36), di un “uso delle lingue vernacole”. Ad esso subentra un terzo modello che è, fin dall’origine, una miscela tra secondo e terzo livello di fedeltà alla tradizione. Assume la novità del “soggetto moderno”, ma senza le illusioni di una “svolta liberale”, bensì con la consapevolezza di una soluzione “post-liberale”, in cui oggettivo preliberale e soggettivo liberale vengono mediati dall’”intersoggettivo” post-liberale.

Lo spazio del Concilio Vaticano II è, in sostanza, il superamento del modello di traduzione proposto – per la prima volta, in modo tanto ingenuo, solo da Liturgiam authenticam! Potremmo quasi dire che lo spazio della traduzione si è dischiuso nel momento in cui la “svolta pastorale” ha potuto concepire che la “sostanza della dottrina” poteva assumere una “diversa formulazione del suo rivestimento”. Questo è lo spazio della traduzione, nel quale la Chiesa cattolica si è lanciata con un impegno e un ardimento, non immuni da possibili eccessi, ma con tutta la accortezza e la sagacia necessaria.

L’annullamento di questo spazio è nato dalla paura. In altri termini, quando ci si è resi conto non solo dei rischi che si erano corsi, ma anche degli errori effettivamennte commessi, si è potuto pensare che la “continuità della tradizione” potesse essere garantita riproponendo il modello dottrinale classico, proposizionale, in una duplice forma, efficace anche nel rito:

  • o mediante il rito latino preconciliare, quindi rinunciando a tradurre (almeno le parole, ma anche le sequenze, i ministeri, le modalità di partecipazione, i canti, le vesti…)

  • o medianto il rito conciliare, ma strutturalmente “ridotto” alla sua forma latina, traslitterata nelle lingue vernacole, senza alcuna vera traduzione.

 Negando lo spazio interpretativo della traduzione, si nega la necessità della svolta pastorale del Concilio.

2. Superare “Liturgiam authenticam” per restare nel solco del Vaticano II

Dobbiamo chiederci, allora: lungo quale direzione possiamo evitare questo esito paradossale, per cui, per ostacolare una “deriva liberale e disgregante” ci si è sentiti costretti a smentire la saggia apertura conciliare, contraddicendo il principio stesso che giustifica il Vaticano II, ossia la “differenza” tra formulazione e sostanza della dottrina.

Oggi abbiamo bisogno di un “modello intersoggettivo” di traduzione/tradizione. Un tale modello, a me pare, consiste di tre livelli di “nuova percezione”, che già troviamo attestati nel Concilio Vaticano II, che hanno dato buona prova di sé in più di un caso subito dopo il Concilio, ma che con il tempo si sono come “offuscati” e “smarriti per strada”.

Questi tre principi costituiscono, di fatto, il riscontro più autorevole per poter impostare correttamente una “fedeltà” alla tradizione anche mediante “traduzione”. Illudersi che il “tradurre” possa essere un “atto tecnico” che prescinde dalla competente interpretazione di questa triplice novità è una prospettiva tanto ingenua quanto nostalgica, che non può più avere alcuna giustificazione. I tre livelli su cui è “messa alla prova” una “teoria della traduzione” sono i seguenti e costituiscono – non a caso – i punti-chiave del testo di SC. Potremmo dire che una teoria della traduzione come quella di LA è derivata – oltre che dalla reazione agli abusi – da una dimenticanza del testo di SC. LA, diversamente da Comme le prévoit, assume una “autenticità liturgica” indipendentemente dalla svolta pastorale del Concilio Vaticano II. Essa sta nella tradizione indipendentemente dal tradurre, ex auctoritate e “di per sé”.

Mentre il testo dimenticato, ossia SC, impone di non poter proporre questa soluzione semplicistica al problema del tradurre. E lo fa indicando tre elementi nuovi:

  1. una diversa “definizione di liturgia”, che in quanto “actio sacra” non è mai riducibile a “ritus servandus”; la natura “simbolico rituale” della liturgia, sulla cui comprensione questi 50 anni, grazie alla Riforma Liturgica, hanno acceso il nostro interesse, ci ha permesso di condurre una riflessione sul “linguaggio” che può orientare diversamente le priorità e le interrelazioni tra diversi linguaggi;

  2. un diverso “paradigma partecipativo”, che superi le forme individualistiche e cerimonialistico-esteriori di delega al sacerdote di un atto “cui è sufficiente assistere”, ma recuperi invece una comprensione “multimediale” dell’azione rituale, uscendo da modalità troppo intellettualistiche e funzionalistiche di “assistenza intelligente”.

  3. un necessario “processo di Riforma liturgica”, per consentire ai testi rituali e alle sequenze celebrative di non ostacolare, ma anzi di favorire, tanto la nuova esperienza del rito cristiano quanto le forme di partecipazione ad esso. Di questo “processo” fa parte quel “vertere” che non si lascia determinare semplicemente come una “tecnica di trasposizione”, che prescinda dalla interpretazione.

 La “questione del tradurre” – lo ricordo ancora una volta – è sorta all’interno di questo grande atto di ripensamento della tradizione. Essa è “parte costitutiva” dell’atto riformatore. Se viene proposta una “teoria del tradurre” che smentisce la “svolta pastorale”, che assume una tradizione che non ha bisogno di un “nuovo rivestimento” per accedere alla propria sostanza, ma che ha “immediatamente” rapporto con la sostanza, in una lingua che si è immunizzata una volta per tutta dalla storia, è evidente che tutti gli altri elementi che qualificano tale svolta vengono coinvolti e compromessi. E’ uno stratagemma molto semplice, ma troppo facilmente smascherabile: esso consiste nell’ irrigidire il rapporto con il “tradurre” per impedire che ognuno di questi tre livelli citati venga seriamente sottoposto non all’arbitrio dei singoli, ma alla necessaria “svolta pastorale” di un evento come il Concilio Vaticano II, che nella sua qualità di “evento linguistico” ha la sua caratteristica forse più decisiva.

In altri termini, vincolare la traduzione alla “lettera” del testo latino significa negare la questione liturgica e non capire il Concilio Vaticano II: per questo occorre oggi una VI e nuova Istruzione per la attuazione della Riforma Liturgica. Tanto più dopo che Evangelii Gaudium ha ridato vigore e lucidità alla prospettiva conciliare.

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