“Non è detto che il sacerdote debba sempre dare l’assoluzione”. La parola di un Vescovo e la ricca tradizione penitenziale


 Confessione donna (stampa Ottocento)

Ho letto con interesse l’intervista rilasciata da Mons. Pizzi, Vescovo di Forlì. Mi sembra utile partire dalla sua affermazione centrale, valorizzarne la pertinenza relativa, ma metterne in luce anche una accezione troppo unilaterale con cui il Vescovo l’ha utilizzata nel suo testo. Questa affermazione, infatti, riguarda un aspetto molto delicato della tradizione sacramentale cristiana e mette in gioco una serie di livelli della esperienza ecclesiale che, se vengono indebitamente semplificati, perdono la loro pertinenza e vengono riletti in modo troppo drastico, senza sfumature, finendo con il perdere buona parte di quella ricchezza che la tradizione ha saputo vivere soltanto con grande equilibrio.

Prima di rileggere le parole di Mons. Pizzi, voglio fare una premessa. Sulla frase, così come suona nel titolo riportato anche qui, si deve fare una osservazione. Essa riguarda una duplice ipotesi: la assoluzione può non esserci perché non opportuna o perché non necessaria. Nelle sue parole il vescovo ricorda solo la prima ipotesi, mentre sembra dimenticare la seconda. Mentre a mio parere – e secondo una lunghissima tradizione ecclesiale – la prima ipotesi diventa vera e credibile solo alla luce della seconda.

Questa intervista, dunque, sia pure nella sua unilateralità, ha il merito di sollevare una questione che merita di essere affrontata in tutta la sua portata: essa riguarda il rapporto tra “atto del ministro” (assoluzione) e atti del penitente (confessione, contrizione e penitenza) che hanno lungamente affaticato teologi e pastori per secoli, e che non possono certo essere risolti con una battuta. Ma andiamo per ordine. Prima riascoltiamo le parole dell’intervista con un primo commento, poi ragioniamo sulla tradizione e per finire traiamo alcune conclusioni, leggendo in positivo le parole ascoltate.

L’intervista commentata

Ecco le parole dell’ intervista

Eccellenza Pizzi come è possibile vivere una bella e valida confessione?

Intanto mi preme dire che bisogna andare spesso al confessionale, specialmente in Quaresima. Fa bene alla nostra fede. Bisogna accostarsi a questo sacramento importante con maggior frequenza. Penso che una volta all’ anno e neppure questo succede, sia pochino. Noi pecchiamo molto di più e con maggior frequenza. Non prendiamo la riconciliazione come la pulizia di Primavera. Confessarsi significa lavare l’ animo, purificarlo per vivere degnamente la Quaresima  e arrivare alla Pasqua serenamente”.

Il confessore deve sempre e comunque assolvere?

Non è assolutamente vero che il confessore debba sempre e  comunque assolvere il penitente o essere indulgente. Certamente ci vuole tatto e grande misericordia, il confesore assolve  e perdona, amministra la infinita misericordia di Dio, ma solo accerta un reale pentimento. Del resto il  Catechismo che non possiamo ignorare e va studiato, ci indica prima della confessione  che cosa fare”.

E la misericordia?

Bisogna sgombrare il campo da una falsa idea di misericordia e dall’equivoco che sembre regnare. Indubbiamente Dio che è amore e misericordia, vuole la nostra salvezza e non lesina mai il perdono, Egli è sempre disposto a cancellare le nostre colpe se noi andiamo verso di Lui. Tuttavia, bisogna chiedere il suo perdono con animo davvero contrito e sincero, con una reale disposizione al cambiamento di rotta e alla conversione. Non basta un generico e  magari non sincero atto di accusa. Il penitente deve  realmente cambiare stile di vita e fare atti reali che lo dimostrino altrimenti la confessione non serve a niente ed è una simulazione  senza valore. La misericordia che pure è infinta, senza la giustizia non ha senso, camminano assieme. E in tutto questo occorre ricordare sempre la gravità del peccato. Una falsa misericordia conduce alla perdizione”.

Si deve notare, anzitutto, che la frase che ha dato anche il titolo alla intervista, viene assunta in un’unica direzione: il ministro non è “obbligato ad assolvere” sognifica, per Mons. Pizzi, che può anche non assolvere e rimandare il peccatore senza il perdono di Dio. E questo, sia pure in casi limite, non può mai essere escluso. Ed è giusto ricordarlo. Ma se si ricorda solo questo, e si tralascia l’altro caso, allora si entra in una sorta di tunnel, nel quale, effettivamente, si è infilato anche il Vescovo. Occorre, cioè, ricordare che il presbitero può “non assolvere” semplicemente perché ascolta un penitente che non ha commesso colpe gravi. Anche in questo caso il ministro non è detto che debba assolvere. In questo caso si astiene dalla assoluzione non perché non c’è pentimento o seria intenzione, ma perché non c’è materia grave, non c’è deliberato consenso o non c’è piena avvertenza. Questo è l’elenco classico, in base al quale il ministro è tenuto a “poter assolvere”.

A ciò, tuttavia, addentrandosi nel tunnel, Mons. Pizzi aggiunge – quasi con un certo dispetto – che giustizia e misericordia vanno “di pari passo”. No, la giustizia cammina, ma la misericordia sta sempre un passo avanti. E la proporzione della giustizia incontra, in Dio, sempre, una sproporzione. Ed è questo che il “sacramento” deve tornare ad annunciare. Non anzitutto la giustizia, ma anzitutto la misericordia, anche se mai senza una certa giustizia.

A ciò si aggiunge, nella prima parte dell’intervista, una grande insistenza sulla “ripetizione del sacramento”. Qui a me pare che Mons. Pizzi dimentichi metà della verità sulla penitenza. Ossia che per metà è un sacramento, ma che per l’altra metà è una virtù. E non è il sacramento ad essere fatto per la ripetizione, ma la virtù. Noi, anche attraverso il sacramento, dobbiamo gustare il perdono di Dio che si manifesta nella nostra vita battesimale ed eucaristica, nell’ascolto della parola, nella vita fraterna, nell’accoglienza dello straniero, nella visita al malato…

La tradizione penitenziale

Ecco ora chiarita la ricca complessità della tradizione, che in questa intervista risulta troppo facilmente ridotta ad una immagine significativa, ma molto unilaterale e pericolosamente esigente. Mi spiego. Da almeno 800 anni nella Chiesa si discute su quale debba essere l’equilibrio tra “atto del ministro” e “atti del penitente”. E le soluzioni sono state tante. Compresa quella che sta alla base di una evoluzione moderna, e che pensa che “solo l’assoluzione” sia la parte costitutiva e decisiva del sacramento. A questa tendenza si può reagire, ad esempio come fece il giansenismo, dicendo che non è l’assoluzione, ma la contrizione, la conversione, la vita nuova ad essere decisiva. Notevoli mediazioni si sono conosciute in questa storia: ad esempio quella di chi ha ritenuto che non si debba richiedere la “pienezza del pentimento”, ma solo un “inizio”, che nel sacramento inizia a perfezionarsi. Per questo mi è parso molto sorprendente che un Vescovo, quasi dimenticando tutta questa storia, abbia semplicemente evocato una sorta di “condizione soggettiva” del perdono di Dio, che finirebbe per far diventare la “assoluzione” quasi un atto dovuto…

Ma un altro profilo è interessante: se noi concentriamo tutta la penitenza nel “sacramento”, allora sì che rischiamo di dimenticare che l’esperienza del peccato perdonato non sta anzitutto nel IV sacramento, ma nel I e nel II che si ripetono di domenica in domenica nel III. E’ anzitutto nella vita eucaristica che facciamo l’esperienza più piena, più ricca e più intensa del perdono di Dio.

Una confessione all’altezza della tradizione

E’ evidente che nel sacramento della confessione è in gioco la riattivazione di uno “scambio”, di un dono e di una ricezione, che diventa controdono. Le forme storiche di questo scambio hanno conosciuto una evoluzione. Ma sempre si è cercato di far spazio ad un “primato della misericordia”, che coinvolgesse i soggetti in modo pieno e responsabile. Ma non per affermare una “proporzione di giustizia”, ma per far spazio ad una più grande “sproporzione di misericordia”.

Né la assoluzione, né il pentimento, né la penitenza sono “opere” con cui ci meritiamo il perdono. Sono piuttosto tutti “segni” di una grazia che si prende cura della libertà degli uomini e delle donne.

In conclusione: “non è detto che il prete debba sempre assolvere”. Vero. Purché lo si intenda in modo duplice. Talvolta il prete non può assolvere, perché nel soggetto non vede altro che peccato e neppure un principio di comunione. Più spesso perché nel penitente vede ancora una comunione viva, vitale, solo minacciata da logiche distorte, ma che nella preghiera e nella vita eucaristica può trovare il suo alimento migliore. Si assolve non il peccatore, ma il peccatore grave. Questa è la logica del “sacramento necessario”. E ricordare quanto ha detto papa Benedetto XVI alla bambina Livia nell’ottobre del 2005 può fare bene a tutti. Potremmo allora capovolgere la frase non infondata del Vescovo in questo modo: “non è detto che il battezzato peccatore abbia sempre bisogno della assoluzione”. Unendo questa frase con quella sottolineata dal Vescovo, restiamo più saldamente nella tradizione millenaria alla quale apparteniamo.

Vorrei finire con una piccola immagine, che debbo ad un mio maestro di teologia, quando ricordava che i cristiani protestanti affermano la salvezza per “sola fede”, ma poi si salvano per le opere. Mentre i cattolici danno importanza anche alle opere, ma poi si salvano solo per fede. La storia della penitenza è la storia di questo incrocio sorprendente di fede ed opere. Come incontro inesauribile, l’incontro di fede ed opere rimane comunque fondamentale. Se, ad esempio, guardiamo al traffico delle nostre città, vediamo una piccola applicazione di questa tradizione complessa e sorprendente: a Roma, città cattolica per antonomasia, la gestione del traffico è chiaramente affidata alla sola fede; mentre a Zurigo non vi è dubbio che dal traffico ci si salvi proprio con una operosa organizzazione. Un equilibrio tra dono e lavoro è il segreto del sacramento. Guai a volerlo forzare in un senso o nell’altro.

Share