Sulla morte: come superare riduzione privata e rimozione pubblica?


cimitero

Con una recente Istruzione (Ad resurgendum cum Christo, del 15 agosto 2016) la Congregazione per la dottrina della fede è intervenuta sul tema della “sepoltura”, con alcune considerazioni, precisazioni e regole che meritano un esame accurato. Già Lorenzo Prezzi è intervenuto con alcune osservazioni del tutto pertinenti sul tema (cfr. http://www.settimananews.it/liturgia/cremazione-riti-mortuari/). Mi sembra di poter osservare, in linea generale, che il documento in questione si muove in un campo assai delicato, nel quale alla chiarezza dei contenuti deve anche corrispondere uno “stile”, un “tatto” e un “gusto” del tutto particolare. Soprattutto al cospetto della morte, il minimo irrigidimento e la mancanza di tatto si paga a caro prezzo. Non è difficile scorgere che alla correttezza e alla precisione concettuale nella Istruzione non corrisponde sempre una attenzione adeguata per il secondo corno della questione. E questo comporta uno scivolamento del testo in un lessico “censorio” che male corrisponde alla esperienza su cui si ha la giusta intenzione di intervenire. Altra cosa è vigilare per non farsi sorprendere dal ladro, altra cosa è vigilare per lasciarsi sorprendere dal Signore.

1. Le questioni sollevate nella pratica funebre contemporanea

L’Istruzione è preoccupata di ribadire due cose:

– la preferenza della Chiesa cattolica verso la inumazione rispetto alla cremazione

– la resistenza a nuove forme di “sepoltura” che intervengono sulle ceneri sia mediante la dispersione, sia mediante la conversione in monili o oggetti di vario genere.

A fronte di queste prassi, l’Istruzione mira a ristabilire non solo il “primato della inumazione”, ma anche a frenare il ricorso a pratiche “nuove”, interpretate come “errori”. E non vi è dubbio che molti aspetti delle nuove pratiche sollevino questioni non piccole, che meritano un esame attento.

2. Riduzione privata e dispersione pubblica del corpo

Mi sembra importante sottolineare un duplice fronte della questione sollevata e cui si dà risposta:

– la privatizzazione e la rimozione della morte sono fenomeni sempre più evidenti nella società complessa. Da un lato avviene una sorta di “riduzione privata” del morire, dall’altro la perdita in pubblico del defunto. La “riduzione a gioiello” delle ceneri o la loro “dispersione nel bosco” compiono due percorsi opposti, verso il privato e verso il pubblico, ma mettono in questione la natura “comunitaria” del morire e del lutto. Riduzione privata e dispersione pubblica hanno in comune una sorta di “comunità impossibile”.

– D’altra parte la differenza tra il “morire”, con l’accompagnamento ecclesiale al transito, e il destino del corpo, elaborato anche culturalmente, mi sembra una soglia ancora sensibile, che merita di essere trattata con grande cautela. La cultura della “inumazione” è solo una delle culture del lutto, non è l’unica. E se la cremazione non è necessariamente contraria alla fede – come ormai si afferma dal 1963 – credo sia prudente non accentuare troppo un legame diretto tra “forme della sepoltura” e “significato della vita”. La correlazione tra questi due fronti non può essere troppo automatica o sbrigativa.

3. Il modello della argomentazione e il tono della determinazione

Se questo è il problema – ossia una necessaria resistenza ecclesiale alla “riduzione/rimozione” del morire e della pratica del lutto – e se al suo centro vi è un “deficit comunitario”, una fragilità delle forme comunitarie familiari, sociali ed ecclesiali, che non sanno elaborare il lutto e che lo richiudono o nella autoreferenzialità privata o nell’anonimato pubblico, sembra piuttosto sorprendente che la “sanzione” predisposta dalla Chiesa funzioni ancora nella forma di una “scomunica”. Ad un deficit di “communitas” e di “communio” si reagisce in modo troppo tradizionale, ossia “negando le esequie”. A chi manca di comunione, si nega comunione. Questo mi pare un rimedio che, per certi versi, rischia di non incidere sulla questione di fondo. Un più adeguato lavoro sulla “sanzione” avrebbe forse giovato al pronunciamento della Congregazione.

Ovviamente bisogna precisare che questo “rimedio drastico” è giustificato solo “in extremis”, ossia non semplicemente in relazione ad una “prassi oggettiva” – di cremazione e dispersione – ma anche nella misura in cui il defunto abbia “notoriamente disposto la cremazione e la dispersione in natura delle proprie ceneri per ragioni contraria alla fede cristiana”. Si tratta di casi-limite, che non possono mai essere ridotti a “fatti oggettivi”. Se la Istruzione intende combattere “panteismo, naturalismo e nichilismo”, occorre fare molta attenzione a non confondere la domanda di una prassi con la sua interpretazione deviante o ostile alla fede. Questo dovrà essere il criterio di discernimento da adottare, senza arrivare mai a soluzioni affrettate o sommarie.

4. Sulla morte, senza esagerare

Non vi è dubbio che di fronte agli sviluppi culturali, tecnologici e delle forme di vita, alla Chiesa spetti un compito di discernimento e di vigilanza. Ma il modo di intendere questo discernimento e questa vigilanza non è affatto cosa ovvia. Che nella nuova “cultura del lutto” – anche di quella che sembra rifiutarlo – non vi siano solo pericoli di “panteismo, naturalismo, nichilismo”, ma anche nuove forme di linguaggio e di esperienza che possano essere riconosciute come legittime, implica anche una “vigilanza” in senso positivo, che nella Istruzione traspare in modo troppo debole.

Altrimenti il rischio è che una Istruzione possa dare la impressione di una Chiesa che esercita solo il controllo sul reale e che non si lascia stupire dal reale. Con un effetto un poco paradossale, simile a quello che accadde quando si commissionarono al poeta Mario Luzi i testi per la Via Crucis al Colosseo, e poi si giudicarono quei testi poetici con la lente degli “errori dottrinali”, scovandone in essi almeno una decina! Le pratiche del lutto non sono semplicemente “applicazioni di una verità”, ma forme originarie di esperienza di quella verità. Non è detto che sia “pantesimo” disperdere le ceneri in mare, così come non è detto che sia “fede nella resurrezione” allestire una monumentale tomba di famiglia nel cimitero cittadino. Altrettanto dubbia a me pare la esclusione delle esequie per quei battezzati che abbiano espresso il desiderio di “dispersione delle ceneri”. Sia pure con alcuni problemi su cui è legittimo discutere, la anticipazione di 99 anni di ciò che storicamente attende i “resti” di ognuno di noi non è necessariamente il segno di una disperazione materialistica. Avrei preferito che di fronte a queste forme di “tradizioni diverse” non si procedesse con la omologazione agli stereotipi, ma secondo prudente discernimento. Soprattutto quando si tratta di “opere di misericordia”, che non sono anzitutto oggetto di giudizio (ecclesiale), ma criterio di giudizio (finale).

 

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