“Il latino in liturgia: la vera storia” di C. U. Cortoni


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Una parola chiara e competente sulla vicenda del latino nella liturgia dell’occidente cristiano. Un contributo importante per la revisione di Liturgiam Authenticam.

La liturgia latina: una tradizione che nasce dalla traduzione

di Claudio Ubaldo Cortoni (Pontificio Ateneo S. Anselmo)

Liturgiam authenticam non è che l’ultimo documento di una serie che hanno interessato la pratica della traduzione all’interno della chiesa. Ma anche in questo caso vanno certamente fatte delle eccezioni, perché il dibattito non si arresti ancora una volta sul come tradurre, ma possa riscoprire come di una necessità la chiesa ne ha fatta una virtù.

Il primo passo è quello di valutare come la chiesa, nella parte occidentale dell’impero, sia arrivata all’uso del latino nella liturgia, e come l’utilizzo di una nuova lingua possa aver dato origine ad una tradizione autonoma:

 1) La liturgia in Occidente ha dovuto cambiare repentinamente registro linguistico sotto l’imperatore Decio (in carica 249-251), il quale proseguì la riforma dai Severi, con la quale al recupero della cultura latina autoctona corrispose, nella parte occidentale dell’Impero, il ritorno al lemma tradizionale latino, di fatto mettendo in crisi il bilinguismo culturale dell’epoca precedente. La nuova lingua liturgica in Occidente si stabilizzò così già sotto papa Damaso nel 380. In questo caso la traduzione, che si rese necessaria, dalla lingua greca a quella latina, fu anche l’occasione per una tradizione di trovare una delle sue molte forme, che si sono succedute lungo la storia. Infatti per giungere a quello che Floro di Lione (800 ca.-860) chiamava ritus Romanus i passaggi furono molteplici, come il loro latino che spesso lascia trasparire, nelle forme grammaticali corrotte, una lingua di partenza volgare, o almeno una nuova forma mentis a cui corrisponde un latino volgare;

 2) Non è neppure possibile pensare che le tensioni tra Girolamo e Ruffino, quando anche Agostino, possano essere equiparate all’odierna preoccupazione di mantenere inalterata una presunta tradizione testuale legata ad una altrettanto particolare lingua, il latino, quando i loro problemi spesso sono di ordine dottrinale, come la liceità di tradurre Origene [Girolamo-Ruffino], o pastorali, come quello di non disorientare l’assemblea con una nuova lezione del testo biblico [Agostino-Girolamo]. Ponendosi tutti, più o meno, alla fine del processo di latinizzazione della chiesa la pratica della traduzione diventa il veicolo primo per lo sviluppo del pensiero teologico latino;

 3) Se aggiungiamo alla lista Gregorio Magno, lo scrittore ecclesiastico tra due epoche, tra Tardo Antico e Alto Medioevo, scopriamo che è stato all’origine di una doppia polemica, quella con i traduttori dal greco al latino e viceversa, e una ancora più singolare sul latino in uso presso la chiesa, il quale si sarebbe dovuto differenziare da quello letterario, per una maggiore fedeltà alla traduzione biblica dal greco. Gregorio è tra i primi che pensa ad una grammatica cristiana per un latino veramente cristiano, e cioè che possa avvicinarsi a quello delle Scritture. Ovviamente l’operazione è di un qualche interesse anche per il nostro dibattito, perché anche in questo caso la traduzione è all’origine di una nuova, sperata , lingua della fede, che presume di ricollegarsi alle Scritture bibliche, come fonte della propria Tradizione, le quali però son ben lontane dall’amore per l’originale ebraico, o dalla più comune traduzione greca. È proprio Gregorio Magno che elenca un numero cospicuo di traduzioni della Bibbia alle quali attingeva per la sua esegesi, ed è lui a raccontare il grande clamore che si sollevò nella chiesa latina per l’invocazione Kyrie eleison, ritenuta dai più incomprensibile.

 4) Ma proprio con Gregorio si affaccia un ulteriore problematica legata all’evangelizzazione degli Angli, e all’inculturazione della fede cristiana in società già strutturate. Una delle testimonianze più significative, nel panorama della chiesa altomedievale impegnata nella missione, è il racconto della difesa dello slavo antico di Cirillo al presunto sinodo di Venezia, dove si confrontarono due posizioni, quella che sosteneva la possibilità che la chiesa parlasse solo le lingue sacre, quelle usate per l’iscrizione posta sulla testa del Cristo in croce [ebraico, greco, latino], e quella che riteneva utile al fine di introdurre i popoli slavi alla conoscenza del mistero celebrato nella liturgia, la traduzione nella lingua parlata dei testi liturgici e della Scrittura. Uno dei testi portato a sostegno della traduzione fu Mc 16,15-17, e cioè il dono di parlare lingue nuove, la glossolalia viene interpretata come un dono dello Spirito per portare il vangelo nel mondo: la liturgia, in una più ampia visione dettata della missione, è interpretata prima come annuncio poi come lode. Nel sec. XI il problema si presenta nuovamente sotto la spinta missionaria verso Est, legata alla politica degli Ottone, che nuovamente pone il problema della traduzione in lingue parlate, dei testi liturgici e della Sacra Scrittura. A questo va aggiunto il problema delle traduzioni paraliturgiche che si accompagnavano ai riti in lingua latina ad uso del popolo o del clero meno colto, alle quali, senza molta efficacia, volle porre un freno Gregorio VII.

 Il quadro storico è approssimativo, ma pone in primo piano due problematiche legate alla lingua liturgica: il fatto che i testi della nostra tradizione liturgica nascano da una traduzione; e che ad un rinnovato interesse per il latino liturgico della rinascenza carolingia, corrisponda la necessità di tradurre questi testi nelle lingue locali, parlate dai popoli interessati dalla nuova spinta missionaria.

Ora la questione che rimane ancora aperta riguarda la natura del latino liturgico, o del latino ecclesiastico in genere, come la lingua della Chiesa. Del latino liturgico, come del resto per il latino ecclesiastico, si può affermare che si tratti di una lingua conclusa, da non confondere con una lingua morta. Perché conclusa? Per rispondere, rimanendo fedeli alla presunta tradizione da molti invocata, dobbiamo distinguere tra le traduzioni tardoantiche e quelle altomedievali, prese qui in considerazione: nel Tardo Antico, almeno in molti casi, il latino era ancora una lingua con locutori non solo viventi ma nativi, e cioè cresciuti in una società che parlava ancora quella lingua nelle sue diverse forme [bassa, ovvero colloquiale, media degli uomini acculturati, alta, cioè letteraria]; nell’Alto Medioevo il latino incomincia lentamente a configurarsi come la lingua delle scuole palatine e di quelle monastiche, e cioè usato prevalentemente come lingua specializzata, per la corte o per la curia, che poteva essere appresa ma che non apparteneva più al mondo del quotidiano. Quest’ultimo passaggio suggerisce che il latino liturgico, come si è sviluppato dall’Alto Medioevo ad oggi, è divenuto una lingua conclusa, per questi tre motivi:

 1) Per una estinzione dal basso verso l’alto (bottom-to-top), che si verifica quando il cambiamento linguistico inizia da un ambiente come la casa [un esempio è l’emergere del sermo provincialis soprattutto nell’Alto Medioevo; un secondo esempio sono i tentativi di riforma della chiesa prima di Lutero, che prevedeva sempre la traduzione della liturgia e della Sacra Scritture in volgare; la prima Bibbia volgarizzata fu data alle stampe in Venezia nel 1471]

 2) Il latino ecclesiastico poi è interessato anche da una estinzione dall’alto verso il basso (top-to-bottom), che si verifica quando il cambiamento linguistico interessa enti con funzioni anche normative o culturali, in questo caso l’abbandono della lingua latina nell’insegnamento delle discipline teologiche e nella riflessione teologica, e a volte anche nella produzione di documenti magisteriali. Infatti non tutti i documenti sono ritrascritti in latino, e cioè stesi in lingua madre e poi tradotti in latino, ma alcuni, perché indirizzati ad una particolare porzione del popolo di Dio, e in situazioni ancora più particolari, sono stati stesi in lingua corrente, perché il messaggio possa essere immediatamente compreso. È il caso delle encicliche in lingua italiana: Il Trionfo del 1814 di Pio VII; Quel Dio del 1831 e Le Armi Valorose del 1831 di Gregorio XVI; Vi è ben noto del 1887 e Dall’alto dell’Apostolico Seggio del 1890 di Leone XIII; Il fermo proposito del 1905 e Pieni l’Animo del 1906 di Pio X; Non abbiamo bisogno del 1931 e l’enciclica in lingua tedesca Mit brennender Sorge del 1937 di Pio XI. In questi casi particolari l’interlocutore è il popolo stesso!

 3) La riscoperta di una chiesa in missione anche nell’Occidente già cristianizzato [una chiesa in uscita, pretende una sistema linguistico aperto].

 

Rimangono allora solo una serie di domande: Come è possibile valutare la possibilità di una traduzione senza prima aver preso coscienza della propria tradizione? Cosa significa ricorrere ancora oggi a lingue concluse per poi doverle tradurre? Cosa significa che la lingua liturgica di un tempo era anche la lingua del popolo che celebrava, e oggi la lingua con la quale alcuni vorrebbero ritornare a celebrare il culto divino, non appartiene più neppure all’elaborazione del pensiero teologico, che rilegge la tradizione nell’oggi e da forma ad un linguaggio della fede per l’oggi? Quale distanza pensiamo esserci tra la fedeltà ad una tradizione e una tradizione fedele al mandato di evangelizzare?

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