Munera 1/2017 – Stella Morra >> Religione/i e cultura/e. Rimozione e integrazione

Vorrei iniziare con due premesse che considero orientative della riflessione che segue.

La prima: siamo in un tempo in cui tutto cambia e cambia talmente in fretta… e dato che il cambiamento è pervasivo e radicale, tutti finiamo per agire una (spesso non voluta e non consapevole) resistenza, tentando di continuare a vivere come se nulla fosse cambiato e se potessimo semplicemente vivere come abbiamo fatto fino ad oggi. Ciò accade perché la resistenza al cambiamento è sempre forte, ma anche perché la vita degli uomini ha tempi che spesso non sono compatibili con la radicalità e velocità del cambiamento.

Inoltre, si tratta di un cambiamento di lungo periodo, di cui nessuna biografia umana è in grado di padroneggiare pienamente la portata: solo la storia sarà in grado di nominarlo e individuarlo. Gestire e comprendere questo cambiamento nella sua totalità è superiore alla nostra portata, ma il flusso di informazioni di cui oggi disponiamo ci mette nella condizione contraddittoria di vederlo (o almeno intuirlo).

E una cosa ci è chiara: siamo nella parte finale di questo cambiamento di lungo periodo, nello “scivolo d’uscita”: negli ultimi due secoli si sono viste crepe, e qualche piccolo crollo, poi sono cadute le pareti e ora siamo circondati da rovine, anche se non possiamo predire quanto durerà ancora.

Perciò nessuno di noi può pretendere di avere, in questa fase di uscita, lo stesso livello di chiarezza e lucidità di categorie interpretative del tempo precedente (che avevano beneficiato di almeno cinquecento anni di elaborazione) fino ad essere definite e ben organizzate. Non possiamo intuire in modo compiuto e allo stesso livello di precisione, la/e forma/e di vita che in qualche modo da questo cambiamento culturale sortiranno.

È necessario uscire dalla pura retorica del cambiamento, accettato a parole e agito invece nella resistenza, perché proprio sui nostri temi la differenza di paradigmi è decisiva. Se non entriamo in uno sguardo nuovo che prenda sul serio il cambiamento reale di quadri interpretativi, di parole, non abbiamo nessuna possibilità di aumentare la nostra comprensione.

La seconda premessa: più mi occupo di questioni culturali e meno mi oriento; quello che vorrei dunque condividere qui è un work in progress, un cantiere di lavoro. Per me è convincente uno scenario di riferimento che è quello dei cultural studies.  È una disciplina relativamente recente, che non a caso nasce non da un ambito teorico e accademico (antropologico, filosofico o epistemologico), ma piuttosto da un luogo pratico: un gruppo di persone che si occupavano di educazione degli adulti (in Inghilterra, per l’alfabetizzazione o rialfabetizzazione dei nativi e, poi, per l’introduzione dei non nativi alla “cultura” del luogo) negli anni ‘60. Specialmente di fronte ai non-nativi inglesi, questi studiosi si sono posti una domanda molto pragmatica: qual è la cultura che serve a un adulto per vivere con tutti gli strumenti necessari, in questo paese? Qual è il “canone culturale” necessario e sufficiente? Domanda che li ha portati molto lontano.

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