Arte e fraternità


Mi sono casualmente imbattuta di recente in un lungo saggio di Lev Tolstoj sull’arte. Scritto nel 1897, quando il grande scrittore aveva 69 anni, stimolante in più passaggi confronti interessanti con la situazione attuale, contradditorio per molti aspetti, il lungo testo, che il suo autore dichiara frutto di un lavoro di quindici anni, ruota attorno ad una preoccupazione centrale: individuare per l’arte del proprio tempo, intesa secondo termini molto ampi, una corretta destinazione, coincidente con un suo contenuto di senso valido per tutti, nessuno escluso.

Vale la pena di ascoltare le conclusioni a cui Tolstoj giunge:

“Il compito dell’arte è immenso: l’arte, la vera arte, con l’aiuto della scienza e sotto la guida della religione, deve fare in modo che quella convivenza pacifica degli uomini che oggi viene mantenuta con mezzi esterni – tribunali, polizia, istituzioni benefiche, ispezioni di lavoro, eccetera – sia ottenuta mediante la libera e gioiosa attività della gente. L’arte deve sopprimere la violenza.
E solo l’arte può fare questo.
Tutto ciò che ora, nonostante la paura della violenza e della punizione, rende possibile la vita in comune (e nel nostro tempo una parte stragrande del sistema della vita è già fondata su questo), tutto ciò è stato fatto dall’arte.
[…]
L’arte deve fare in modo che i sentimenti di fraternità e di amore per il prossimo, oggi accessibili solamente agli uomini migliori della società, diventino sentimenti abituali, istintivi in tutti […].
La destinazione dell’arte del nostro tempo è di tradurre dalla sfera della ragione alla sfera del sentimento la verità che il bene della gente è nell’unione e di instaurare, in luogo della violenza attuale, quel regno di Dio, cioè quell’amore che si presenta a noi tutti come fine supremo della vita dell’umanità. Può darsi che in avvenire la scienza rivelerà all’arte nuovi, ancora più alti ideali, e che l’arte li realizzerà, ma nel nostro tempo la destinazione dell’arte è chiara e ben determinata.
Il compito dell’arte cristiana è la realizzazione dell’unione fraterna degli uomini” pp. 174-76.

(Lev. N. Tolstoj, Che cosa è l’arte?, a cura di T. Perlini, C. Gallone editore, Milano 1997)

Lascio, a chi intenda approfondire, di scoprire come Tolstoj leghi l’arte alla scienza, come ne evidenzi l’originaria connessione, con la dimensione religiosa della coscienza umana prima che con le religioni, in quanto istituzioni (il suo è anticipo sintetico, ma chiaro, di un’esplorazione ben più ampia condotta da Mircea Eliade parecchio tempo dopo).
Mi soffermo invece sulla sua messa a punto della destinazione dell’arte per il proprio tempo. Destinazione o compito dell’arte è, per lui, la costruzione di un mondo umano non violento, il potenziamento della vita in comune tra gli uomini, la fioritura della solidarietà, l’innalzamento della dignità umana nel coinvolgimento del numero più alto possibile di uomini, in un passaggio di significati esistenziali, o valori umani di grande levatura, dall’ambito della ragione a quello dei sentimenti, vale a dire di quel comune sentire che si esprime in mentalità. Il vertice di questo percorso è segnato, per lui, dall’arte cristiana, il cui compito è la costruzione di un contesto fraterno.
Sono trascorsi ben 120 anni da queste affermazioni; l’arte dei più vari ambiti ha percorso strade quanto mai complesse, spesso tortuose in ogni sua espressione; è accaduto persino che il termine ’arte’ venisse tendenzialmente soppresso, per poi di continuo tornare in piena vitalità come l’araba fenice, mitologico uccello di fuoco capace di rinascere dalle proprie ceneri.
Nelle parole di Tolstoj emerge un compito infinite volte tradito da allora, eppure tuttora drammaticamente indispensabile, una destinazione o, detto altrimenti, una direzione di continuo evocata e rinata nella tensione tra solidarietà e fraternità, che possiamo provvisoriamente assumere come polarità tra costruzione di comunità e spiritualità personale, tra esteriorità e profondità delle esperienze umane.
Il messaggio dello scrittore russo non ha natura sociologica o politica, pur contenendo di ambedue alcuni contrassegni. La direzione verso la quale si muove è un’altra. A Tolstoj non basta che l’uomo sia buono individualmente, occorre che questa sua bontà venga investita da energia aggregante; ritiene questo propriamente il ruolo dell’opera d’arte, la cui natura è di essere generatrice di rapporti, produttrice di coesione tra coloro che in essa si trovano coinvolti, di solidarietà e di fraternità dunque, l’una e l’altra intese come virtù trasformanti il mondo, costruttrici di popoli abitati dalla pace.
Tolstoj scarta invece decisamente il tema della bellezza poiché non ritiene quest’ultima categoria adatta a cogliere lo specifico contributo dell’arte nella vita dei popoli
Gli interessa infatti l’emergere concreto, in opere e nel proprio tempo, della libera e gioiosa attività della gente, della vitalità che, sola, toglie di mezzo in modo radicale (sopprime) la violenza. Conclude: “E solo l’arte può fare questo”. Perché per lui non c’è arte vera senza libertà in azione, senza serenità di popolo operoso.
Il meraviglioso uccello di fuoco che si insinua nelle nostre azioni, che percorre le nostre strade, che emerge nei gesti più umili di gente comune oltre che in apparati solenni, che diserta spesso le situazioni più altisonanti per rifugiarsi in angoli poco evidenti ma sicuri, l’uccello di fuoco che non passa mai invano, personificazione di un’arte la cui definizione risulta alla fin fine impossibile e che tuttavia riconosciamo con estrema facilità quando ne incontriamo l’evidenza, è un legante degli uomini estremamente potente.
Sembra che oggi ci siamo del tutto scordati della forza aggregante dell’arte, ne trascuriamo le potenzialità inseguendo ansiosamente le nostre percezioni estetiche, senza accorgerci che l’individualismo in cui ci siamo imprigionati la depotenzia infinitamente. Eppure basta soffermarci per un attimo a riflettere per riconoscere che Tolstoj ha non poche ragioni, anche nell’asprezza un poco schematica con la quale le esprime. Di questo fuoco e della sua energia unificante non possiamo fare a meno per lavorare e vivere coralmente, comunitariamente. Come cristiani, per sentirci fratelli.
Per questa ragione dovremmo desiderare belle le nostre chiese, le nostre scuole, i nostri ospedali e le nostre fabbriche più che le nostre case: per rinsaldare ragione e sentimento nei luoghi in cui tutti viviamo, prima e più che nel nostro angolo di vita privata.
Non si può però mettere in cantiere un capovolgimento di questo tipo con una formula chimica o con un processo ideologico; occorre che esso sia, in primo luogo, esito di impegno personale per poter divenire senso comune, destinazione di popolo; ma occorre anche che si radichi in una fiducia diffusa nelle risorse umane d’oggi, coltivata con ostinazione nell’amicizia tra alcuni, come germe già visibile di unità senza violenza tra uomini.

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