Munera 2/2017 – Alessandro Rosina >> Generazione Neet

L’Italia risulta oggi un paese in grave debito nei confronti del futuro. Non solo per l’entità del debito pubblico, ma per tutte le scelte fatte o non fatte che hanno indebolito anziché rafforzato la possibilità che le nuove generazioni siano il pilastro solido attorno al quale edificare il benessere futuro comune.

L’evidenza maggiore di quello che non ha funzionato è rappresentata dall’abnorme numero di giovani che non partecipano a percorsi di istruzione o formazione e nemmeno stanno svolgendo un’attività lavorativa, i cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training).

Il tasso di Neet può essere considerato una misura di quanto una comunità dilapida il potenziale delle nuove generazioni, a scapito non solo dei giovani stessi, ma anche delle proprie possibilità di sviluppo e benessere.

L’acronimo è stato coniato nel Regno Unito verso la fine del secolo scorso, ma il suo uso diffuso inizia dal 2010, quando l’Unione Europea adotta il tasso di Neet come indicatore di riferimento sulla condizione delle nuove generazioni. Rispetto all’usuale tasso di disoccupazione giovanile, nei Neet sono compresi tutti i giovani inattivi, non solo i disoccupati in senso stretto.

Più nello specifico, tale indicatore è espressione delle difficoltà della transizione tra scuola e lavoro. Il numero di giovani che, dopo essere usciti dal percorso formativo, non sono riusciti a entrare nel mondo del lavoro, o si trovano impaludati in un’area grigia tra lavoro e non lavoro, è notevolmente cresciuto con la crisi, soprattutto nei paesi, come l’Italia, che combinano carenze sul fronte sia della domanda sia dell’offerta di lavoro, assieme a una inadeguatezza degli strumenti di incontro tra domanda e offerta.

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