Le sfortune dei celiaci, la definizione del pane e la societas perfecta
Le reazioni alla lettera che la Congregazione per il culto divino ha scritto il 15 giugno a proposito del pane e vino eucaristici rivelano alcune cose importanti, su cui è bene riflettere con cura. E voglio cominciare con una considerazione che riguarda una condizione – quella dei celiaci – che la lettera considera solo indirettamente, ossia nel definire “materia valida” per l’eucaristia quel pane che contenga almeno un certo livello di “glutine”. I soggetti non sono considerati, se non indirettamente, secondo la “definizione della materia”. Questo stile è classico per il magistero ecclesiale. Esso era maturato nello schema della società chiusa, che aveva bisogno di certezze immediate e immediatamente applicabili. Una definizione netta di “pane” permetteva di separare drasticamente due campi, senza mediazioni, che distinguono tra “materia valida” e “materia invalida”. Questo riduce le variabili, semplifica le articolazioni pastorali, assicura il controllo del popolo. Questa impostazione, se non viene oggi calibrata sulla “società aperta”, produce continue ingiustizie e perde preziose occasioni di riconoscimento. Proviamo a capire perché.
Pane e vino non sono concetti teologici
Una cosa è evidente, nella tradizione cristiana. Che la teologia del corpo e sangue di Cristo viene mediata dal pane e dal vino dati, offerti, ricevuti, mangiati e bevuti, assunti e assimilati. Ma la competenza della Chiesa e del teologo non copre tutta la realtà. Ciò che pane e vino sono in una data cultura non può essere definito dalla Chiesa. Essa riceve, nella cultura, la mediazione del Corpo di Cristo. La pretesa di definire teologicamente, dottrinalmente e disciplinarmente la materia contraddice con la logica complessa della rivelazione in Cristo. Nella eucaristia, come insegna Tommaso d’Aquino, il pane e il vino sono “specie inaggirabili”. Per questo la cultura umana, la storia e la simbolica dell’uomo, sono assunte nella narrazione e nel rito centrale della fede cristiana.
Il celiaco e la dottrina ecclesiale
La Chiesa si è abituata, invece, a definire anche ciò su cui non ha assoluta competenza. Non può definire in modo assoluto né il pane né il vino. Nel pane e nel vino parlano una cultura e una storia che la Chiesa riceve e non può anticipare. Ma non basta. La Chiesa dovrebbe avere imparato, dalla storia degli ultimi 200 anni, che identificare lo “status quo” con la volontà di Dio è un pericolo troppo grande. Questo è un tipico difetto della società chiusa o pre-moderna: essa può correre sempre il rischio di identificare la volontà di Dio con un mondo senza ferrovie, senza donne che praticano lo sport, senza donne giudice o senza scuole pubbliche obbligatorie. Questa tendenza si è mostrata molto forte anche nel modo di interpretare le forme di “disabilità” o di “limitazione”. Attribuire “diritti” al disabile è stata una fatica grande, che la Chiesa ha dovuto imparare dal mondo tardo-moderno. Più semplice, e più devoto appariva semplicemente accettare lo status quo.
La società chiusa non è societas perfecta
Abbiamo appreso che questa via non è né la primaria né la sola. La differenza tra società chiusa e società aperta è precisamente qui: non si accetta più la propria condizione come un “destino di discriminazione giustificata dall’alto”. Qui torna utile rileggere la Summa Theologiae di Tommaso, quando elenca uno dei “luoghi comuni” della società chiusa, che l’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede considerava un testo fondamentale per la teologia del ministero ordinato, mentre si tratta soltanto della onesta fotografia della struttura ingiusta della società chiusa. Quando Tommaso elenca i “motivi di esclusione dalla ordinazione”, fa un elenco dei soggetti che non possono esercitare la autorità. Eccoli: donne, minori e incapaci, schiavi, assassini, figli naturali, disabili. Nella categorie dei disabili rientrano anche, sia pure in una forma particolare, i celiaci. Con una definizione rigida del pane, la Congregazione per il culto ha mostrato di non essere ancora uscita dalla logica di una società chiusa che non è una affatto societas perfecta. E nella quale l’essere celiaci continua a restare “causa di esclusione dalla ordinazione”.
Le diverse forme del pane, del vino e dei soggetti
Come uscire da questa condizione di minorità? Come appare evidente, dal breve ragionamento proposto, accettare che la Chiesa non abbia una autorità assoluta per definire che cosa sia pane e vino aiuterebbe a considerare con un minimo di attenzione alcune cose:
– il pane, dal punto di vista oggettivo, si dà in forme diverse secondo diverse culture. Questo non è anzitutto un pericolo, ma una ricchezza per la tradizione;
– i soggetti che si relazionano al pane lo trasformano a partire dalla loro cultura o dalla loro natura. E questo apporto non può essere né perduto né estromesso;
– pane e vino portano nella eucaristia non solo una “materia fisica”, ma una storia e una simbolica che deve arricchirsi delle logiche del femminile, del minorile, del folle, del carcerato, del figlio naturale e del disabile.
Considerare questi come titoli di merito e di privilegio,piuttosto che come titoli di minorità o di esclusione, non è forse proprio uno dei significati più alti dell’eucaristia? E chi mai dovrebbe parlare di tutto questo se non la Congregazione per il culto divino? Che invece preferisce le rigidità della società chiusa alle ricchezze della società aperta?
cosa dire sul solo accenno che il pane debba essere azimo?
è un fatto legato soltanto alla tradizione “latina”, perché non è così nella tradizione orientale, altrettanto cattolica.
Quanto è legato ad una tradizione, che nel divenire aggiunge toglie cambia, non può essere legato alla “validità”.
Anche il concetto di validità è considerato nella sua dinamica tecnica delle cose e non nelle relazioni. Un Sacramento può essere valido per se stesso? o piuttosto in quanto è celebrato per …, per chi lo celebra, per chi lo accoglie, lo riconosce e ne riceve santificazione?
Polemica costruita sul nulla dato che le ostie per celiaci in vendita in Italia sono perfettamente conformi alle prescrizioni vaticane come si legge a questo link: http://www.celiachia.it/menu/faq.aspx?idcat=14&idfaq=88
Riguardo la differenza tra pane azimo e lievitato nella celebrazione dell’Eucaristia nei riti latini e orientali, mi pare adeguata la risposta di Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae (IIIª q. 74 a. 4 co. ):
Circa la materia di questo sacramento si possono considerare due cose: ciò che è necessario e ciò che è conveniente.
Necessario è che il pane sia di frumento, come si è detto; e senza di esso il sacramento non è valido. Non è invece necessario alla validità del sacramento che il pane sia azzimo o fermentato: perché è consacrabile sia l’uno che l’altro.
È conveniente però che ciascuno osservi il rito della propria Chiesa nella celebrazione del sacramento. Ora, in proposito le consuetudini delle Chiese sono diverse.
Scrive infatti S. Gregorio: “La Chiesa Romana offre pani azzimi, perché il Signore prese carne umana, senza alcuna mistura. Altre Chiese invece offrono pane fermentato, perché il Verbo del Padre si rivestì di carne come il fermento viene a mescolarsi con la farina”. Come dunque pecca il sacerdote della Chiesa latina celebrando con pane fermentato, così peccherebbe il sacerdote greco celebrando nella Chiesa greca con pane azzimo, perché si tenterebbe così di cambiare il rito della propria Chiesa.
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