Ora et labora


Distanziarsi ogni giorno dalle scadenze più o meno immediate e cercare sintonia con la più ampia realtà che ci circonda e sovrasta, ha un valore incommensurabile (fuori mercato) e aumenta il valore del nostro lavoro per il mercato. Ci ricorda che la nostra intelligenza è sempre precaria.
La concretezza dei valori fuori mercato è stata dimostrata dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. «Doveva affrontare la grande sfida di razionalizzare due industrie-chiave. Perciò era di necessità interventista, difficilmente poteva trascurare l’impatto sociale dei mutamenti strutturali di due industrie». «Dal 1954 a fine 1971 spese, a metà con i sei stati membri, 333 milioni di dollari per aiutare 440.000 esuberi a trovare lavoro. Cofinanziò programmi di ricerca su rischi e malattie quali silicosi, bronchiti, avvelenamenti da gas, polvere di carbone, oltre a migliorare le statistiche sugli incidenti. Nel 1956 istituì un Comitato Permanente per la Sicurezza nelle Miniere, con governi, imprenditori e sindacati, per studiare e raccomandare i modi di ridurre i rischi in miniera. Lo istituì poi anche per l’industria dell’acciaio». «In più, a fine 1974 oltre 140.000 case erano state finanziate a basso interesse, in affitto e vendita ai lavoratori» [Michael Shanks, European Social Policy. Today & Tomorrow, Pergamon Press 1977, pp. 1-2].
La CECA dimostrava «che se la Comunità Europea vuole sopravvivere e prosperare deve sviluppare un’efficace politica sociale a fronte di problemi e priorità dell’uomo e della donna della strada, con ruoli chiari rispettivamente della Comunità e degli stati membri» [ivi, p. vii], innovando lo spirito del Trattato di Roma del 1957, «quando la filosofia dominante in Europa Occidentale era il laissez-faire. Era implicito che rimuovere le barriere alla libera circolazione di lavoro, capitale e beni avrebbe di per sé ottimizzato la distribuzione delle risorse, il tasso di sviluppo economico e lo sviluppo sociale della Comunità» [ivi, p. 1]. La Comunità avviò le sue politiche sociali a «fine anni 1960, quando un nuovo spirito si diffuse in Europa» [ivi, p. 3], con le profonde trasformazioni dei ‘Trenta gloriosi’ nel segno «della modernizzazione, della creazione di un’industria nazionale, di un innalzamento generale del livello di vita, il tutto orchestrato da uno Stato onnipresente per indicare la via. L’agricoltura, ad esempio, perdeva massivamente occupati, ma il suo ruolo era esaltato. E i suoi figli ritrovarono lavoro nelle fabbriche, poi negli uffici della nuova società». «Oggi questo ‘riciclo’ è bloccato» [Pierre Veltz, La société hyper-industrielle, Seuil 2017, p. 7].
«Il nuovo universo produttivo è in sostanziale continuità con il precedente mondo industriale. Lo approfondisce nei principi e perciò lo dico ‘iperindustriale’». «Oggi il digitale e la connettività creano una nuova realtà» [ivi, pp. 59-60] che «si organizza intorno a un grande paradosso. Gli immensi progressi di connettività (Internet, ma anche trasporti marittimi e aerei, e mobilità delle persone) lungi dal portare a una ripartizione più egualitaria di competenze e risorse, conducono a una polarizzazione senza precedenti. E gli spazi ‘centrali’ del mondo nuovo, sociali e geografici, sembrano dissociarsi sempre più dalle ‘periferie’» [ivi, pp. 9-10]. La rivoluzione della connettività digitale e fisica è l’asse portante della globalizzazione che dagli anni 1980 sfrutta la ‘catena del valore globale’, basata sulla scalabilità: «capacità di realizzare economie di scala molto rapidamente creando mercati i più ampi possibili, anche per le start up», che creandosi un mercato ampliano e valorizzano quello delle grandi piattaforme digitali [ivi, p. 67]. «Le applicazioni più utilizzate sono americane o cinesi, come tutte le grandi imprese del digitale. Esse captano massivamente il valore, coprodotto dagli internauti di tutto il mondo, a profitto delle metropoli americane, dove hanno le loro sedi, i centri di R&S e marketing, le loro strutture giuridiche e finanziarie» [ivi, p. 111]. «E poi i paradisi fiscali, le zone di transito come l’Irlanda; e Israele, solo paese al mondo che massicciamente investe nel digitale, come gli USA» che «nel 2012 concentravano l’83% della capitalizzazione di borsa mondiale e il 41% del risultato lordo di gestione dell’economia digitale mondiale. Perciò la Cina ha deciso di erigere una grande muraglia sfruttando l’immenso mercato interno. E ce l’ha fatta», mentre «l’Europa appare marginale, ‘colonia digitale’». «E tutto ciò per la sola economia digitale ‘pura’. Ma il digitale è un potente strumento di sviluppo e coordinamento della catena globale del valore in tutti i settori, a loro volta veicoli di valore verso i paesi e le regioni urbane che ne controllano i segmenti strategici» [ivi, p. 112] (inclusi i grossisti tradizionali: Élise Barthet, «A Rungis, l’appétit grandit pour le numérique», Le Monde Éco&Entreprise, 8/12/2017, p. 2).
Va da sé, «la Silicon Valley apporta ai suoi attori il frutto dei successi conseguiti e un pool senza pari di talenti venuti dal mondo intero. In Europa questo riciclo finanziario non esiste e le imprese devono fare maggior conto sugli investimenti pubblici. Gli effetti di concentrazione sono potenti e, con le esternalità della rete, vertiginosamente rapidi, ma con fragili equilibri dipendenti dalla lealtà dei consumatori, che con un clic possono passare al ‘monopolio’ vicino» [Veltz, cit., p. 68].
Il gigante digitale ha i piedi d’argilla. «Questo massiccio dominio USA profitta all’insieme della società e del territorio americani? Evidentemente no. Questo processo di iperpolarizzazione aumenta le diseguaglianze territoriali. Molto più in USA che in Francia o Germania» [ivi, p. 113]. «Al di là delle ineguaglianze, la questione di fondo è la relazione tra i poli che profittano dalla globalizzazione e gli altri territori». «È una grave rottura storica» [ivi, p. 114]. «Brexit è particolarmente interessante». «Di fatto, gli inglesi hanno espresso il loro sentire che Londra li ha da molto tempo abbandonati per seguire un’altra traiettoria. È un dato: il 70% dei nuovi posti di lavoro in UK dopo il 2008 sono stati creati nella capitale. Londra funziona già ampiamente come città-stato». E «la geografia dei voti per Trump in USA segnala anch’essa in modo lampante il fossato scavato tra i cuori metropolitani, massicciamente pro Hillary Clinton, e le trascurate periferie» [ivi, pp. 118-9].
L’iperindustria ignora problemi e priorità dell’uomo e della donna della strada, che già nel 1977 Michael Shanks poneva al centro dell’attenzione della Comunità Europea. Oggi quest’uomo e questa donna sono arrabbiati, confusi, manipolati. «Divenuta poster di Brexit saltando sulle spalle di un altro Brexiter all’annuncio del risultato in Sunderland, Sam Adamson ne è sicura. “Sono proprio certa che la classe lavoratrice ha parlato forte. Ha sconvolto l’allora primo ministro David Cameron. E il Labour Party. Per la classe lavoratrice era ‘Ora ci avete sentito; ora fate qualcosa’”». Che cosa? Secondo «Ryan Coetzee “quando scoprirono che l’Uomo Nero UE non era in effetti la causa dei loro problemi, cominciarono a scagliarsi contro questo e quello”. Ma lui pensava che i votanti dovessero assumersi la responsabilità delle loro azioni». «Bene, puoi biasimare tutti, ma se credi che il voto sia cosa seria, biasima i votanti. O li consideri adulti, o no. Se sei un adulto e vivi nel Sunderland, dove industria dell’auto e fondi UE sono cruciali per la tua vita, e tu voti leave, bene, spiacente amico, l’errore l’hai fatto tu» [Tim Shipman, All Out War, Harper Collins, 2017, 2a ed., p. 591-2].
In questo conflitto civile nessuno bada al contesto: conta solo labora, vecchio comune sentire che, tra opposti interessi, spiega il paradosso di esclusi che per risolvere i loro problemi escludono a loro volta i più deboli con Brexit, USA Great Again e populismo (sempre più scopertamente neonazista) di varia gamma europea. «Al contrario di uno slogan diffuso, i centri ricchi hanno sempre bisogno di poveri, ma preferiscono quelli di fuori o venuti da fuori, in contratto precario. Non vogliono più poveri coi quali abbiano legami durevoli di solidarietà. Un tempo risorse, le periferie vicine sono diventate molto spesso dei pesi». Dall’alto dei più ricchi, a cascata si recide il legame con il contesto: «analizzando il montare dei movimenti separatisti nel mondo, oggi sono le regioni ricche le più attive su questa strada» [Veltz, cit., p. 116]. Con la loro violenza su rifugiati e immigrati economici, l’uomo e la donna della strada fanno propria e legittimano la violenza fatta loro dai compatrioti più ricchi.
Nel 2016 il 10% più ricco deteneva il 47% del reddito nazionale in USA e Canada, il 46 in Russia, il 41 in Cina e il 37 in Europa [«Inégalités: enquête sur un fléau mondial», Le Monde, 15/1272017, p. 1; 61% in Medio Oriente]. Tra il 1980 e il 2015 l’1% più ricco ha aumentato la sua parte di reddito nazionale dal 10,6 al 20,8% in USA, dal 10,0 al 12,0% in Europa Occidentale; in USA al 50% dei più poveri nel 2015 è rimasto il 13,0% contro il 20,8 del 1980; in Europa occidentale il 22,8% contro il 23,5 di trentacinque anni prima [«Face à l’Europe, les Etats unis perdent la partie», Le Monde Éco&Entreprise, 15/12/2017, p. 5]. La meno disastrosa esplosione dell’ineguaglianza è uno dei tre vantaggi strategici europei, argomentati da Veltz per la Francia. «Anzitutto, spesso derisa, la nostra passione per l’uguaglianza ci preserva dall’accettazione beata della competizione generalizzata: ad esempio fatichiamo a accettare l’abbandono di certi territori, pur non sapendo che fare in concreto. Inoltre, i processi di redistribuzione e circolazione della ricchezza sono potenti. Funzionano a scala nazionale, e regionale intorno alle metropoli regionali. Attenuano molto le tendenze ultrapolarizzanti dell’economia produttiva. Infine, il sistema di metropoli provinciali, territori tra i più dinamici, è una configurazione del tutto eccezionale, connette il paese e lo collega superbamente con i paesi vicini. Vista dall’alto, la Francia appare come una metropoli distribuita». «In un contesto di globalizzazione a grana fine dobbiamo accettare un dato profondamente mutato. Come insieme più o meno integrato l’‘economia francese’ non esiste più, solo l’economia europea potrà far fronte alle economie regionali americane e asiatiche. Ma le nostre città e le nostre regioni rigurgitano di competenze per creare, attirare e marcare i lavori del futuro, e partecipare in buona posizione alla invenzione del nuovo mondo iperindustriale» [cit., p. 119-120].
Così è per l’insieme dell’Europa, che da sempre ha nel mondo il contesto e da secoli sa che il segreto della riuscita è ora et labora, in quest’ordine, a preservarci dall’alienazione e dal ciascun per sé, fonti dell’odio che ci ha dannati nella prima metà del secolo scorso e si sta riaffacciando.

Tra noi. Il trentasettenne Anthony Levandowski, laureato a Berkeley, ex di Google X e licenziato da Uber in maggio, ha fondato la chiesa del dio robot. «Quello che sta per essere creato è in effetti un dio. Qualcosa un miliardo di volte più intelligente degli esseri umani, come volete chiamarlo?». «Ciò che vogliamo è una transizione serena e pacifica del controllo del pianeta dagli umani a quel che sia che verrà» [Corine Lesnes, «Le culte de dieu robot», Le Monde Éco&Entreprise, 1/12/2017, p. 7]. Probabilmente è una chiesa-bidone, ma da tempo c’è chi si sente dio perché dà vita e morte, come in Kosovo, secondo genocidio europeo in poco più di mezzo secolo, e nelle sempre più numerose e vicine guerre civili regionali, volute da uomini cosiddetti di stato, tali solo perché impuniti. Quando occupazione, economia e finanza sono affari privati e, in UK e USA, lo sono anche sanità, istruzione e sicurezza, al potere pubblico resta come pilastro solo la forza armata, anche in affitto da privati.
Il degrado sociale e politico dei ‘traini’ USA e Cina non nasce da un nuovo paradigma, bensì dall’onda tecnologica digitale di «economie di scala della domanda» [Veltz, cit., p. 46], che si traducono «nel consistente aumento delle ineguaglianze, soprattutto in USA e Cina, una enorme concentrazione di ricchezza a profitto di una nicchia sociale sempre più smilza» [ivi, p. 41]. Non è l’«interconnessione generalizzata che costituisce la vera innovazione» [ivi, p. 43]. «I processi industriali non hanno avuto, né sembrano destinati ad avere nel futuro prossimo, mutazioni comparabili alla introduzione della macchina a vapore, della chimica industriale o dell’elettricità. I robot – e i ‘cobot’ collaborativi della azione umana specie nei lavori penosi – diventano più efficaci e intelligenti. Ma sono in linea con una meccanizzazione ultradecennale. In questo, chi sostiene che siamo in una ‘stagnazione’ della innovazione, capofila Robert Gordon, indubbiamente non ha torto» [ivi, p. 42].

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