Dove c’era il manicomio, ora c’è oblio … (2.a parte)


La qualità architettonica e paesaggistica degli ex OPP italiani è notevole: si tratta di villaggi costituiti da volumi semplici, distribuiti con ordine, di non grandi dimensioni, immersi nel verde, con caratteri tecnologici e costruttivi moderni, vicini oggi a città importanti.
Se li si esamina, risulta inevitabile chiedersi perché non porre, a livello nazionale, il problema della loro conservazione, tanto più che in molti casi gli edifici e le aree verdi sono in buono stato e che, inoltre, ci è pervenuta l’ampia documentazione della loro costruzione. Un buon recupero, condotto in modo accurato, esige presupposti di tutela, principi quindi di controllo razionale e di coerenza procedurale nell’intervento. Deve essere valutata con cura la selezione di nuove funzioni e, questione non meno importante, occorre decidere previamente quale memoria di questi luoghi trasmettere: quella tragica della sua lunga attività o quella dell’oblio al quale la legge Basaglia li ha destinati?
Aiuta a comprendere il problema e ad articolare adeguate riflessioni il caso di Rovigo (E. Sorbo, La memoria dell’oblio. Ex Ospedale psichiatrico di Rovigo, Venezia 2017) che, nel 2008, è stato dichiarato di notevole interesse culturale ai sensi del DL. n. 42 del 2004 (Codice dei Beni culturali e del Paesaggio). Se ne è così riconosciuto socialmente il valore nell’ambito della “progettazione delle case di cura all’inizio del Novecento”. Tale suo primario e fondante atto di riconoscimento ha evidente carattere eterogeneo, implicante varie dimensioni di cultura (dall’arte, secondo vari aspetti –oggetti, edifici, giardini e parchi, spazi pubblici, ecc.- all’urbanistica, alle scienze, alle tecniche, e ad altro ancora), che devono essere prese in considerazione nell’accingersi ad un recupero.
A partire da questa eterogeneità, deve essere chiamata in causa la relazione tra materialità del luogo (oggi materia lacerata, ma ben documentata in tutti gli aspetti negli archivi) e sua rilevanza immateriale, di vissuto e di storia (che contiene in sé più strati di oblio: nel vissuto di chi vi ha abitato, nella società che lo ha voluto e implementato, e poi negato).
Come sappiamo, la concezione più accreditata di monumento connette strettamente, si potrebbe persino dire in modo esclusivo, criteri e modi dell’intervento conservativo (di recupero e restauro si è soliti dire) alla/le materia/e di un edificio o di un luogo, in ragione di una memoria concepita come continuità o evidenza testimoniale del loro significato originario e degli eventuali significati sopraggiunti nelle modificazioni successive. Caratterizzano il monumento i due valori di testimonianza e di memoriale.
Ma nell’OPP di Rovigo e grazie al vincolo di tutela si impone l’importanza della memoria come reminiscenza o memoriale di ciò che si è volutamente dimenticato, memoria di un oblio stratificato e multiforme, che non può trascurare i dati materiali ancora esistenti e la loro ricca documentazione negli archivi.
Si tratta dunque, nel progetto di conservazione, di dar luogo alla valorizzazione, criticamente interpretata e narrativamente sviluppata, del carattere di eterotopia (il termine risale a Foucault) dell’ex OPP di Rovigo, il suo essere brano di città e insieme città sui generis doppiamente negata nella storia.
In un certo senso, è questa la tesi della studiosa Sorbo che condivido, si supera qui la nozione di monumento come unico criterio guida, a favore della sua qualificazione come progetto memoriale. Senza sottostimare la componente monumentale, occorre cioè dare rilevanza adeguata alle componenti immateriali, alla vita lì vissuta – in un racconto i cui termini, siano essi museali o di altro tipo, sono parte costitutiva, non facoltativa – nella conservazione del luogo.
Il compito non è facile ed è squisitamente italiano, poiché solo in Italia si è proceduto alla chiusura dei manicomi; è compito urgente, è anche impegno di risparmio di suolo e volumetrie in un territorio fittamente abitato e storicamente stratificato.

Val la pena infine di richiamare qui il perché di tale chiusura, nella sua più ampia accezione culturale, a partire dal pensiero di Basaglia. Nel libro L’istituzione negata, del 1968, egli aveva scritto che, nella moderna “società organizzata sulla netta divisione fra chi ha (chi possiede in senso concreto, reale) e chi non ha [… si è fissata] la mistificata suddivisione fra il buono e il cattivo, il sano e il malato, il rispettabile e il non rispettabile. […] Le posizioni sono – in questa dimensione – ancora chiare e precise: l’autorità paterna è oppressiva e arbitraria; la scuola si fonda sul ricatto e sulla minaccia; il datore di lavoro sfrutta il lavoratore; il manicomio distrugge il malato mentale”.
Sono affermazioni che meriterebbero oggi ampi dibattiti, innanzi tutto sulla nozione di autorità; che non lasciano indifferenti, nel clima attuale profondamente mutato rispetto a cinquant’anni fa ma dal quale molto si eredita; che invocano la liberazione a favore di dignità nei rapporti umani e che concentrano l’attenzione sull’opposizione tra chi ha e chi non ha (in senso concreto, materiale), opposizione tra possesso e non possesso i cui connotati storici si sono nel frattempo complicati e allargati, dando luogo a preoccupanti divisioni ed estraneità tra i gruppi umani.

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