Nuova teologia eucaristica (/16): Hoc facite: linee sistematiche del nuovo modello (Zeno Carra /4)


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Dopo aver percorso i primi due capitoli del testo nei post precedenti, procedo ora, esaminando il III capitolo (pp.217-265), con una sintetica presentazione delle conseguenze sistematiche di questa ampia lettura. Esse riguardano anzitutto il mutamento di modello (a livello teologico-fondamentale) e poi anche una nuova visione dei “nodi” fondamentali della dottrina eucaristica.

a) Quanto al modello (teologia fondamentale)

Sul piano di una comprensione generale della rivelazione e della fede, il passaggio dal modello “tommasiano-tridentino” a quello del XX secolo implica tre passaggi assai fecondi:

– l’analisi del mutamento di modello, con i suoi “nodi” e gli assi che li raccordano (Cristo, uomo, Chiesa, rito e oggetti coinvolti nel rito), permette una valutazione “sincronica” e “diacronica” assai fruttuosa, sia in termini di sviluppo della dottrina, sia in termini di rapporto tra dogma ed eresia;

– vediamo così contestata una immagine, abbastanza consueta, che interpreta lo sviluppo della dottrina in questi termini: “la verità che muove la storia si colloca nel contenuto noetico celato sotto le formulazioni verbali dei discorsi teologici” (222). Invece occorre riconoscere che “il reale tutto, nelle sue varie funzioni (parola, pensiero, prassi) è il luogo di inserzione della verità di Dio a noi (non quindi una sua sola parte, cioè il pensiero astratto)” 224.

– Di qui deriva una più adeguata comprensione dei dogmi, i quali “non sono il contenitore di un pensiero vero e assoluto, la polla sorgiva della verità noetica dentro la storia. Essi sono lo sforzo di risposta operato dalla vita credente della chiesa ai moti di deformazione storia delle forme della fede” (226).

Tutto ciò ha conseguenze importantissime sul modo di concepire il rapporto con la verità: “”il vero non va pensato come l’inferenza intellettuale adeguata all’oggetto, ma come l’armonica collocazione del soggetto nei suoi rapporti col reale” (230). Dunque il vero sta “nelle forme del reale”, e, in ultima analisi, in una assunzione dello statuto cristologico della verità (230-231). Ciò ha evidentemente ricadute assai feconde sulla “dottrina eucaristica”.

b) Quanto alla dottrina eucaristica (teologia dogmatico-sacramentaria)

Il percorso compiuto fino a qui ha dimostrano la necessità di “nuovo modello” di teologia eucaristica. E ciò per due motivi:

– il modello classico, elaborato tra medioevo e età moderna, ha in sé numerosi squilibri poiché “relega in secondo piano elementi centrali della tradizione quanto al fatto eucaristico” (233). Quindi Carra così precisa il proprio pensiero: sono “squilibri nati dal fatto di essersi concentrati su alcuni problemi assurti a centrali nel cambio epocale dal mondo antico al medioevo, e di aver lasciato alla sola tutela del principio di autorità quelle componenti che rimanevano fuori dalla sistematizzazione. Si pensi alla comunione dei fedeli: il modello la rende seconda e secondaria a livello teorizzato; registra una effettiva prassi di marginalizzazione di essa nella vita della chiesa; ricorre al livello della parenesi autorevole per tentare di mantenerla in vita” (233).

– lo spostamento del modello classico in un “mondo nuovo” come quello del XX secolo esige una nuova profonda calibratura “per ridare pertinenza sul reale al dato di fede eucaristico” (233). Ciò non può essere garantito da “ritocchi su parti del modello: operare su alcuni suoi nodi significa muoverlo strutturalmente nella sua interezza” (234).

Di qui emergono i “lineamenti” di un nuovo modello, che vengono esposti secondo la scansione: Cristo, sacramento, ontologia.

a) Il presenziato (il Cristo) (234-241)

– è presente non il “corpo storico che è risorto”, ma “il crocifisso risorto”. La Pasqua non è un accidente della presenza reale;

– è presente la promessa del corpo umano, come “compimento della sua natura relazionale”;

– presenza corporea e presenza personale sono “corpo pasquale”, senza contraddizione. Il luogo storico di questa corporeità come “piena relazionalità”  deve essere connaturato ad esso: “non quindi lo spazio statico dell’ente ma il processo dinamico di una struttura di connessioni relazionali: una forma” (237);

– il compimento dell’in-sé di Cristo nella morte-resurrezione è anticipato nella forma rituale della cena, che è costituita dalla sequenza: prese, benedisse/rese grazie, spezzò, diede. Questa forma rituale è “forma crucis e forma Christi“.

– “Indicare il luogo della presenza sacramentale in una forma relazionale diacronica, rispetto ad un ente spazialmente considerato, non è affatto sminuire o indebolire la presenza reale, ma fondarla sulla condizione gloriosa e compiuta del suo Presenziato” (241)

b) Il sacramento (il signum) (241-248)

– “Il sacramento dunque non ha la sua realizzazione in ciò che accade di un ente spazialmente considerato nella sua inseità, attorno al quale si disegnerebbe secondariamente e consequenzialmente una forma rituale. Il fatto del sacramento sta proprio nella forma rituale agita, all’interno della quale anche gli enti (siamo nella storia e quindi possiamo considerarli ancora così) pane e vino sono ineludibilmente collocati” (241-242);

– La forma del sacramento non è la cena tout-court, ma “quel processo in quattro azioni che connette..colui che presiede, pane e vino, discepoli” (242);

– Questo significa “indicare nella azione liturgica, che per l’eucaristia si ha nell’azione di tale forma, il livello essenziale del sacramento. Non la sua cornice cerimoniale.” (243) E’ l’intero processo rituale ad essere riconosciuto come essenziale. Ciò comporta, a livello dogmatico, “il deciso superamento della distinzione classica tra sacramento e uso” (243).

– “Il modello classico si fonda sul pensiero spazializzante ontico greco e per questo non esita a rinchiudere il fatto eucaristico sulla relazione di predicazione logico-performativa tra il pronome hoc, il riferimento al pane in sé, ed il predicato corpus meum, il tutto attraverso la copula est (e lo stesso per il vino). Ma uno sguardo fenomenologico ci mostra come questa sia un’astrazione filosofica che fa una certa violenza al testo. I pronomi dimostrativi (hoc-hic) sono riferiti ad un pane e ad un vino agiti, non ad un pane e vino in sé.” (245)

– “Il modello della transustanziazione impedisce alla ratio sacramenti di avere in sé la tensione escatologica: se transustanziati pane e vino consacrati non possono assolutamente essere l’anticipo storico dell’irruzione progressiva dell’eskaton: essi non sono più se stessi e quindi ciò che avviene di loro non ha nulla a che fare con il destino finale del creato, in cui tutto sarà compiuto in pienezza e non transustanziato! Il modello che andiamo abbozzando permette invece l’istanza escatologica: la presenza del Risorto emerge alla storia nella connessione formale-relazionale tra gli elementi. Questi dunque non perdono se stessi ma si compiono nella loro relazionalità a tutto il resto, proprio in quanto assunti nella posizione della forma sacramentale” (247).

c) L’ontologia (la res) (248-257)

Occorre ancora chiedersi, però, se l’avverbio substantialiter, che ha contraddistinto la tradizione eucaristica degli ultimi 500 anni, possa essere ridotto soltanto a questa interpretazione negativa – diremmo non occasionalistica della eucaristia – e privato di “contenuto positivo”. Per rispondere a questa obiezione, ed elaborare una “ontologia eucaristica”, occorre per Carra procedere su diversi piani:

– “La domanda va dunque posta stando dentro al modello che la riflessione teologica consegna. Cosa ne è di questo pane e questo vino liturgicamente agiti?” (249);

– Ma se l’accesso a Cristo risorto è dato “in una forma relazionale dinamica, anziché in una inseità ontica sostanziale, allora i punti di connessione della forma, gli elementi in essa coinvolti, sui quali essa distende il suo insieme processuale, organico e coeso di vettori connettivi, sono tutti intrinseci alla forma stessa…La forma si compie nella manducazione sacramentale, perché essa ne è parte strutturale… La manducazione è essenziale al sacramento e quindi alla presenza” (251).

– “Anche la chiesa, nel suo rapporto con l’eucaristia, è a pieno titolo corpus Christi: poiché essa è parte intrinseca della forma sacramentale della Sua presenzializzazione. La comunione dei fedeli all’unico pane preso, eucaristizzato, fratto e dato è partecipe della forma presenzializzante. E quindi l’elemento credenti-chiesa, che tale vettore della forma connette, è parte dell’unica presenza corporea del Cristo pasquale” (251-252).

Di qui deriva, ultimamente, anche una acuta rilettura di SC 7 sulla presenza di Cristo: “Non dunque vari modi giustapposti (e non ulteriormente teorizzabili) della presenza reale di Cristo (modo eucaristico, modo ecclesiale, modo di colui che presiede…), ma diversi poli intrinseci all’unica forma organica di presentificazione reale, corporea e non occasionale (quindi “sostanziale”) dello stesso Cristo crocifisso risorto” (252)

Con questa ultima parte si conclude la recensione del testo di Zeno Carra. L’autore, dietro mia richiesta, ha scritto un testo di presentazione sintetica del suo pensiero, che proporrò in questa stessa rubrica, in diversi post, nei prossimi giorni, come arricchimento al dibattito sulla “nuova teologia eucaristica”.

 (4 – fine)
 
 
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