Nuova teologia eucaristica (/24): “Quaestio disputata” sul ministero (Gh. Lafont /10)


lafont

Un nuovo articolo del teologo francese affronta il rapporto complesso tra “ministro ordinato” e “presidenza eucaristica”. In questo testo Lafont si mette anche in relazione con altri autori che sono intervenuti sul blog a questo proposito. Da un lato difende la nozione di transustanziazione e ne propone una rilettura in rapporto all’uso del termine “consustanziale” impiegato nella teologia trinitaria; dall’altro recupera una accezione più ampia di parola e di linguaggio, rilevando i limiti della lettura classica delle “parole di consacrazione”. Entra così in rapporto con le analisi già pubblicate da Z. Carra e da L. Della Pietra. Il testo si presenta nello stesso tempo classico nelle movenze e assai audace in alcune conseguenze. Il recupero della “complessità rituale” della eucaristia permette a Gh. Lafont di trarre, dalla tradizione, cose antiche e cose nuove, con grande eleganza e in modo mai scontato.

Quaestio disputata” sul ministero

di Ghislain Lafont

Nell’articolo precedente avevo posto la questione della collocazione della funzione liturgica nella responsabilità globale del vescovo, in lui determinata dal carattere del sacramento dell’Ordine. Su questo tema cerco di riprendere in maniera critica alcune delle questioni relative a questa funzione liturgica, elaborate nella prospettiva del potere del prete (e non del vescovo) dalla teologia precedente, centrata sulla presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo nell’Eucaristia. Considererò prima di tutto la conversione stessa del pane in Corpo e del vino in Sangue, “chiamata in modo conveniente e appropriato transustanziazione” come dice il Concilio di Trento (DS 1642); poi le parole della consacrazione, tratte dal racconto della istituzione dell’Eucaristia da parte di Gesù nel cenacolo, per mezzo delle quali si realizza la conversione; infine la specificità del prete per pronunciare queste parole in modo efficace, qualificazione determinata dal carattere del sacramento dell’Ordine.

1. Sul tema della transustanziazione

Per il momento non discuto qui il termine “transustanziazione” e non è su questo argomento che voglio dirigere la mia critica. Ci sono due ragioni per questo. Anzitutto, a mio avviso, questo termine fa parte della memoria della Chiesa. Per me non è più discutibile del termine “consustanziale” per la teologia trinitaria. I due termini utilizzano la radice verbale e il tema filosofico della “sostanza”. Non vedo perché si dovrebbe accettare il secondo e rifiutare il primo. L’uno e l’altro sono termini forgiati per dire una realtà che ci supera. D’altra parte dicono soprattutto ciò che non è: non ci sono tre dei, ma neppure, come dice un assioma indiano “uno che non ha un secondo”, poiché il nostro Dio ha un Secondo e anche un Terzo. Allora si è fabbricato un termine improbabile, e tuttavia necessario, per dire come è il Dio unico Padre, Figlio e Spirito Santo : le persone sono “consustanziali”. Allo stesso modo: la conversione eucaristica non è un movimento locale, non è una trasformazione organica, ma è il passaggio “diretto” dal pane al corpo, dal vino al sangue. Allora si è forgiato un termine per dire ciò che accade: “transustanziazione”. Consustanziale, transustanziazione: parole improbabili – poiché, di per sé il vocabolo “sostanza” esclude dei prefissi come con- o come -trans – ma parole richieste dalla intelligenza della fede. Ancora una volta, io non le contesto, né per il Credo né per il canone eucaristico, anche se accetto che se ne possano dare spiegazioni diverse. La seconda ragione è che le critiche relative agli altri punti che voglio discutere permangono intatte, che vi sia o meno la “transustanziazione”. In effetti, se siamo d’accorso sul fatto che nell’Eucaristia vogliamo fare nella Chiesa memoria di ciò che Cristo ha fatto nell’ultima cena, se confessiamo che noi mangiamo la sua Carne e beviamo il suo sangue, rimane la questione: come facciamo? O ancora, come scrivevo prima: “chi fa che cosa?”. E’ questo che mi piacerebbe precisare1.

2. Le parole della consacrazione

Sappiamo l’importanza che la teologia classica ha dato alle “parole della consacrazione”, al “racconto della istituzione” nella celebrazione della Eucaristia. Questa insistenza non era priva di legame con l’accento messo sulla transustanziazione: questa in effetti per sua stessa natura non poteva aver luogo se non in un unico istante, e si voleva precisare questo istante: quando, nel canone eucaristico, le parole stesse di Gesù venivano pronunciate. Quelle parole di Cristo avevano realizzato nella Cena quella conversione che esprimevano, e mantengono la medesima potenza quando il prete le pronuncia nella messa. Non voglio dissentire da ciò, ma ci si può domandare se non vi sia in tutto questo un deficit nel modo di considerare il linguaggio eucaristico. Le parole in questione non sono formule magiche, e la ricerca esegetica tenta di collocarle all’interno dell’intera liturgia dell’ultima cena, celebrata da Gesù con i suoi discepoli. Allo stesso modo oggi, il racconto della istituzione è collocato all’interno di una lunga preghiera. L’anafora eucaristica comincia con un appello alla preghiera, all’interno della quale si esprime un sacrificio spirituale significato dall’offerta. Il racconto della istituzione sottolinea l’aspetto memoriale di questa preghiera e di questa offerta: l’invocazione di Dio è attraversata dalla evocazione di ciò che ha fatto Gesù; i due aspetti procedono di pari passo. E questa preghiera “totale” si conclude con una solenne dossologia, che celebra la portata divina e umana del Mistero. Una valorizzazione esclusiva delle parole di Gesù isola un elemento che in realtà non assume senso né efficacia se non nella performance liturgica integrale.

L’accento messo sulle parole in vista della indicazione del momento della consacrazione era tale che si pensava che non avrebbero mai potuto esservi anafore eucaristiche senza il racconto letterale della istituzione, con la pronuncia delle parole di Gesù. Ora, una simile anafora senza parole consacratorie è esistita almeno una volta, molto anticamente, piena di memoria di Gesù Cristo, del suo Mistero e della intenzione del sacrificio spirituale: l’anafora di Addai e Mari. Dunque un vero Memoriale di ciò che Gesù aveva fatto nell’ultima cena, un annuncio della sua morte e resurrezione, presenza e dono del suo Corpo e del suo Sangue, ma che non comportava la pronuncia letterale del racconto eucaristico. Si è creduto per molto tempo che ci fosse stato in origine un racconto e che questo fosse poi andato perduto. Oggi si pensa che non sia così. Almeno in quel caso, non è possibile determinare il momento in cui il pane e il vino sono diventati Corpo e Sangue di Cristo. Ma abbiamo davvero bisogno di conoscere quel momento? Il sacramento dell’Eucaristia è il sacrificio liturgico della Chiesa, offerto a Dio nella preghiera, nella memoria e nella lode, pervaso dalla potenza dello Spirito che risponde alla nostra invocazione. Suo frutto è la grazia di Gesù Cristo diffusa in mezzo agli uomini, che edifica il Corpo spirituale. Tutto questo non è sufficiente?

Come si vede, io provo qui ad estendere ben al di là delle parole consacratorie il discorso completo che il prete, a nome della comunità dei battezzati, rivolge a Dio e che lo Spirito eleva a ciò che si può chiamare una presenza totale, non solo un ricordo, ma un memoriale. E tuttavia occorre procedere ancora più lontano, poiché la preghiera della anafora di cui il prete è il “porta-parola” interviene in un contesto più ampio: di raduno della comunità, di preghiera e di silenzio, di ascolto della Scrittura, parola di Dio e di Cristo, di salmodia responsoriale, di presentazione delle offerte. E la preghiera di conclude con la comunione sacramentale, mediante la quale ogni cristiano, personalmente e con gli altri nella comunità, ratifica ciò che ha vissuto e lo porta a perfezione con la partecipazione al Corpo e al Sangue di cui ha fatto memoria e a cui ha congiunto il proprio desiderio spirituale. L’Eucaristia è questo insieme sinfonico, il cui autore è Gesù Cristo nella comunità evangelica, e di cui tutti i movimenti sono significativi2

Nello scrivere tutto questo non posso evitare di pensare a ciò che Marcel Mauss chiamava un “fatto sociale totale”. Ciò che è totale dà senso a ciascun elemento, ma reciprocamente è costituito dalla convergenza dei singoli elementi e dei singoli attori. Tutto è necessario, non per una necessità solamente logica o giuridica, ma essenzialmente sul piano simbolico, dove tutto si tiene ed entra in comunicazione.

3. Il potere delle parole

Se l’Eucaristia è una sinfonia, c’è un direttore d’orchestra, ossia il prete o il vescovo, di cui ora si deve parlare. Nella teologia classica l’attenzione era molto concentrata sulla conversione eucaristica, opera che trascende ogni capacità umana, perciò il direttore in questione era definito dal potere soprannaturale, strumentale, di realizzare la transustanziazione: questo potere era il carattere sacerdotale (e non comportava di per sé alcuna ricaduta pastorale). Per introdurre ciò che vorrei sostenere, mi piacerebbe segnalare qui una sorta di anomalia. Da una parte, si dice che sono le parole della consacrazione ad operare la conversione eucaristica, ma dall’altra si dice che il prete ordinato ha il potere strumentale di consacrare. Allora: le parole o l’uomo? Questa domanda non è affatto assurda: per il battesimo, se in caso di urgenza un laico, oppure un non credente, compie il rito e dice le parole con l’intenzione di fare ciò che vuole la Chiesa, il sacramento è valido. Il ministro improvvisato agisce in persona Christi, in nome di Cristo. Perché ciò non accade nella Eucaristia? Se vi è la necessità di essere prete ordinato per avere una autorità sacramentale forte, non è per assicurare la validità del sacramento, visto che si è detto che le parole consacratorie sono di per sé efficaci. Allora che cosa fonda la necessità che siano dette da parte di un prete? O, nei termini classici: a che cosa serve il carattere definito come potere sacro?

La questione si amplifica se si considera l’obbligazione del prete, quando celebra, a utilizzare letteralmente la formula in vigore nella Chiesa, ossia le parole della consacrazione di cui ho parlato sopra. Questa formula è in se stessa talmente forte che, se il prete la pronuncia sul pane e sul vino, anche al di fuori della liturgia ma con la intenzione di consacrare, egli cadrebbe sicuramente in colpa grave, ma l’efficacia sarebbe assicurata: il pane e il vino diventerebbero Corpo e Sangue. Allora, a che serve la persona del prete? Si può porre la questione in modo diverso: se, per dipendenza da Gesù Cristo, il prete ordinato ha il potere di rimettere i peccati, cosa che fa parte della sua competenza sacerdotale, non ha forse l’autorità di scegliere la formula evangelica che accompagna il gesto sacramentale? Deve assolutamente usare la formula del rituale o può, per esempio, riprendere le parole stesse di Gesù: “La tua fede ti ha salvato, i tuoi peccati sono perdonati, vai in pace”? La risposta è no, e tuttavia se si tratta delle parole di Gesù? Si può pensare a giusto titolo che una formula stabilita ufficialmente può garantire la validità del sacramento, ma qui io non discuto dal punto di vista canonico, ma dal punto di vista teologico. Ci sono state, e ci sono, da una Chiesa all’altra, o da un periodo all’altro della stessa Chiesa, formule canoniche differenti. Si dovrebbe supporre che un prete ben formato potrebbe scegliere l’una o l’altra, ovvero, come ho detto, potrebbe riprendere le parole stesse di Cristo. In questo caso si subordinerebbero le parole alla persona che le pronuncia. E per l’Eucaristia? Spesso ho pensato che non si dovrebbero ordinare preti uomini che non siano in grado di improvvisare una anafora eucaristica! E’ una esagerazione, certo, ma non priva di significato. Ogni organista sa che, per improvvisare all’organo, bisogna aver conosciuto moltissime sfumature e interpretato tantissime opere. Ma quando si posseggono le forme fisse, si è naturalmente spinti a improvvisare! Perché non dovrebbe essere lo stesso per i sacramenti? Bisognerebbe formare talmente bene i futuri preti da non ordinarli prima posseggano solidamente gli elementi di una anafora e che, in virtù anzitutto della loro autorità, ma poi anche in virtù della loro formazione, possano eventualmente improvvisare in funzione della congiuntura eucaristica o sacramentale in cui si trovi la comunità loro affidata. Non è forse ciò che è accaduto nei primi tempi della Chiesa? Si è molto parlato, dopo il Concilio e ancor oggi, degli “abusi” che sono avvenuti nella amministrazione dei sacramenti, e sicuramente ce ne sono stati. Ma non erano in parte dovuti ad un difetto di formazione liturgica? Oggi il prete è ancora considerato dotato di poteri veramente trascendenti, ma sottratti nel loro uso a ogni discernimento.

Mi sembra che questa discussione, un poco faticosa, metta in luce un punto: ciò che qualifica una persona per celebrare attivamente i sacramenti, non sono anzitutto le parole o i gesti, poiché in casi straordinari questi possono essere posti efficacemente anche da altri; è qualcosa di più essenziale, che il Concilio Vaticano II ha indicato autorevolmente: una responsabilità di presidenza della comunità cristiana. Perché un cristiano ha ricevuto una chiamata, proveniente allo stesso tempo da Cristo e dalla comunità, a presiedere attivamente una comunità, poiché questa chiamata è stata spiritualmente e sacramentalmente confermata, questo cristiano può e anche deve porre in modo equilibrato l’insieme degli atti che costruiscono e alimentano questa comunità come Corpo di Cristo offerto a Dio in sacrificio spirituale. Il carattere sacerdotale è il segno in lui di questo carisma e di questa missione. Ciò richiede da lui una maturità umana, spirituale e liturgica che gli permetta di porre con discernimento gli atti necessari alla vita della comunità evangelica che gli è stata affidata.

Concluderò dicendo che il sacramento dell’Ordine non si definisce attraverso dei poteri, alcuni sacri, altri “politici”. E’ donato ad un cristiano che riceve dallo Spirito (in un modo che sarà da precisare) il carisma di direzione, di presidenza – o di un altro sinonimo che si voglia impiegare – su una comunità evangelica. Quando celebra l’Eucaristia questa comunità valorizza la sua qualificazione liturgica, che si potrebbe dire anche “cristica”: essa afferma la propria dipendenza dal Mistero pasquale di Gesù, ne riceve di nuovo il proprio essere Corpo e Popolo, offre al Padre in Cristo il sacrificio spirituale che essa stessa è nella sua totalità, e lo incide nella propria carne mangiandone il Corpo e bevendone il Sangue3.

1Non entrerò qui in discussione con il recente libro di Zeno Carra, Hoc facite né con la presentazione sintetica che l’autore ne ha fatto su questo blog. Nel sul libro, a p. 212, note 222, don Zeno constata che, nel mio libro Eucaristia: il pasto e la parola, io mi limito a giustapporre un linguaggio fenomenologico e un linguaggio metafisico. Nello scrivere quel libro, da parte mia avevo l’impressione di aver cercato una continuità piuttosto che una giustapposizione! Ma confesso che, tutto occupato nel mio approccio fenomenologico in quel libro, allora non avevo riletto i testi di S. Tommaso da un punto di vista critico, e rinviavo ad essi senza averli prima verificati. D’altra parte, neppure oggi li ho veramente riconsiderati. Lo studio di Hoc facite mi condurrà senza dubbio a farlo e ad entrare in dialogo.

2Con piacere vorrei sottolineare qui che mi sento in pieno accordo con ciò che scrive Loris della Pietra nella seconda parte del suo studio Eucaristia, una questione di forma, pubblicato su questo blog.

3In questo Mysterium fidei il passaggio dal pane e vino presentati al Corpo e Sangue offerti e poi consumati fa parte del memoriale, ma non dobbiamo più preoccuparci di precisare quando e come ciò accada.

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