Il nuovo direttore di San Vittore: quale ruolo per i volontari?


Lo scorso 12 giugno abbiamo incontrato al Fopponino il nuovo direttore di San Vittore. Il dr. Siciliano è arrivato accompagnato da don Marco Recalcati, il cappellano, e dalla scorta, dovuta alle minacce di un noto mafioso. È direttore da molti anni ed ha guidato vari istituti, da ultimo Opera. L’arrivo a san Vittore è stata una “botta”, ci spiega, perché ogni carcere è diverso, per il tipo di detenuti che ospita o per il contesto geografico e sociale in cui si inserisce. San Vittore in particolare è un quartiere, contiene tutti: chi gioca, chi legge, chi si dispera, chi spera, chi litiga, chi scherza, chi fa il bene, chi fa il male. È un quartiere, a tutti gli effetti, fra gli altri quartieri. Ma troppo spesso è invisibile, è al centro della città, ma è trasparente, per i più; non lo si vede, se non ci si capita dentro (e non è poi tanto difficile che succeda). A san Vittore, arrivano gli imputati, cioè chi è in attesa di giudizio ed è questa la sua principale caratteristica: i detenuti rimangono in media più o meno 3 mesi, quindi molto poco, e questo fa sì che diverso sia il loro atteggiamento. L’imputato per definizione è “innocente”, ci spiega il direttore, fa di tutto per dimostrare di esserlo, raramente confessa perché altrimenti si autocondanna e, secondo una reazione psicologica del tutto comprensibile, non è disposto a mettersi in discussione, non si preoccupa delle vittime e del male che ha fatto; nei confronti degli agenti si pone con atteggiamento di chi vuole “tutto e subito”. L’imputato peraltro vive in una condizione paradossale: mentre il condannato può beneficiare di una serie di provvedimenti e di misure cautelari (domiciliari…), per l’imputato vi sono meno strumenti agevolativi utilizzabili, e lui/lei risulta di fatto “punito”. Gran parte dei carcerati (circa il 60-70%) sono stranieri, extracomunitari, che arrivano catapultati in un altro mondo; vissuti in un contesto culturale radicalmente diverso, con abitudini alimentari, comportamentali, livelli culturali, lontani dai nostri ed anche con una limitata capacità di confronto. In carcere ogni cosa va organizzata, con cura, attenzione, come fosse un’azienda, appunto una città nella città. Qualche anno fa, l’Italia è stata condannata perché le sue carceri non erano in grado di garantire una permanenza dignitosa ai suoi detenuti, ovvero per trattamento degradante, ed è stato deciso che le dimensioni minime della cella debbano essere pari a 3 mq per persona. Va da sé, sottolinea Siciliano, che non è un problema di quantità ma di qualità. Occorre prendersi cura, farsi carico delle persone a prescindere da quello che hanno compiuto. “E si può cambiare!! Possono cambiare anche i mafiosi”, ma questo in genere richiede tempo, un lungo percorso di elaborazione interiore. A san Vittore, i tempi di permanenza sono talmente brevi che non si può pensare che la persona “cambi”, che possa prendere coscienza di quello che ha fatto, e maturare una consapevolezza del male che ha fatto. A chi sta fuori, coloro che commettono reati minori, quindi gran parte dei detenuti, danno fastidio, paradossalmente, più dei mafiosi. Nel pensiero comune, sottolinea il direttore, per chi sta fuori chi commette furti, in casa o attenta alla nostra sicurezza per la strada, o i tossicodipendenti e gli stranieri, risultano essere più fastidiosi della mafia e forse il nostro sistema pecca di eccessiva carcerizzazione. Ma Siciliano ci tiene a sottolineare che Milano è molto attenta al “suo” carcere, “basta chiedere e si ottiene”. Per chi sta dall’altra parte, gli agenti, il direttore ammette che lavorare nel carcere è difficile, poiché essi rappresentano l’istituzione che è il nemico da combattere. Ed è proprio per questo che i volontari sono importanti; quello che li rende insostituibili è proprio il loro disinteresse, il fatto di non essere pagati. Chi opera nel carcere senza alcun tornaconto personale, chi decide di passare il suo tempo con loro, solo costui “buca”, riesce cioè ad entrare in “relazione” con i detenuti, ad ottenere più facilmente la loro fiducia e il loro rispetto. Certo il volontario non può “giudicare”, deve occuparsi del detenuto indipendentemente da quello che ha commesso, con l’unico obiettivo di aiutarlo a fare un percorso di vita nuova. Purtroppo i tempi brevi di permanenza già ricordati lo rendono difficile, ma fin da subito occorre insegnare loro a “prendere in mano la propria vita”. Questo, secondo il direttore, deve essere l’obiettivo ultimo di ogni volontario. Di conseguenza, sotto il profilo organizzativo, i volontari entrano a far parte – come gli agenti, i medici, il cappellano – di una rete di operatori che devono interagire, costantemente, lavorando insieme, poiché ognuno vede/si occupa di un tassello, e per comporre il puzzle (che è il sostegno al detenuto) ogni informazione utile deve essere condivisa, in un confronto continuo. Occorre cioè – a parere del direttore – mettere in rete ogni informazione rilevante. Non si tratta di violare la privacy ovviamente, tutt’altro, significa operare tutti insieme per il bene del detenuto. Questa compattezza può rendere forte l’istituzione nel costruire insieme ogni progetto; non il braccio di ferro o il pugno duro, che viene usato invece da chi – Stato/istituzione – è debole e si deve difendere. Tutti e quindi anche i volontari entrano in carcere con un motivo, per realizzare un progetto, più o meno ambizioso. I bisogni all’interno sono molti (abbigliamento, istruzione, lavoretti…), ma è fondamentale tenere occupati i detenuti, per aiutarli a crescere. Occorre tenerli impegnati, farli “fare”, e ciò potrebbe voler dire anche solo ascoltare. Molto è stato fatto, ma molto si può ancora pensare, organizzare e realizzare. Entrare significa fare un servizio, un servizio alla persona, che può comprendere molte cose. All’interno del carcere, ma anche fuori. E quando i detenuti vengono coinvolti in attività pensate specificamente per loro, non succede nulla, perché essi non possono tradire la fiducia di chi li tratta con rispetto, di chi li tratta come “uomini”, perché spesso essi non lo sono mai stati per nessuno. Occorre trovare lo spazio giusto, uno spazio che è legato al progetto e a chi lo propone, poiché “la tua capacità e maturazione ti fanno trovare il tuo posto”. E il carcere fa crescere tutti. Il dr. Siciliano ci ha parlato con concretezza e fermezza, unite ad una grande attenzione alla persona. Non mi stupisco, salutando gli uomini della scorta, che abbia fatto saltare i nervi a qualche prepotente. Lo scorso 12 giugno abbiamo incontrato al Fopponino il nuovo direttore di San Vittore. Il dr. Siciliano è arrivato accompagnato da don Marco Recalcati, il cappellano, e dalla scorta, dovuta alle minacce di un noto mafioso. È direttore già da molti anni ed ha guidato vari istituti, da ultimo Opera. L’arrivo a san Vittore è stata una “botta”, ci spiega, perché ogni carcere è diverso, per il tipo di detenuti che ospita o per il contesto geografico e sociale in cui si inserisce. San Vittore in particolare è un quartiere, contiene tutti: chi gioca, chi legge, chi si dispera, chi spera, chi litiga, chi scherza, chi fa il bene, chi fa il male. È un quartiere, a tutti gli effetti, fra gli altri quartieri. Ma troppo spesso è invisibile, è al centro della città, ma è trasparente, per i più; non lo si vede, se non ci si capita dentro (e non è poi tanto difficile che succeda). A san Vittore, arrivano gli imputati, cioè chi è in attesa di giudizio ed è questa la sua principale caratteristica: i detenuti rimangono in media più o meno 3 mesi, quindi molto poco, e questo fa sì che diverso sia il loro atteggiamento. L’imputato per definizione è “innocente”, ci spiega il direttore, fa di tutto per dimostrare di esserlo, raramente confessa perché altrimenti si autocondanna e, secondo una reazione psicologica del tutto comprensibile, non è disposto a mettersi in discussione, non si preoccupa delle vittime e del male che ha fatto; nei confronti degli agenti si pone con atteggiamento di chi vuole “tutto e subito”. L’imputato peraltro vive in una condizione paradossale: mentre il condannato può beneficiare di una serie di provvedimenti e di misure cautelari (domiciliari…), per l’imputato vi sono meno strumenti agevolativi utilizzabili, e lui/lei risulta di fatto “punito”. Gran parte dei carcerati (circa il 60-70%) sono stranieri, extracomunitari, che arrivano catapultati in un altro mondo; vissuti in un contesto culturale radicalmente diverso, con abitudini alimentari, comportamentali, livelli culturali, lontani dai nostri ed anche con una limitata capacità di confronto. In carcere ogni cosa va organizzata, con cura, attenzione, come fosse un’azienda, appunto una città nella città. Qualche anno fa, l’Italia è stata condannata perché le sue carceri non erano in grado di garantire una permanenza dignitosa ai suoi detenuti, ovvero per trattamento degradante, ed è stato deciso che le dimensioni minime della cella debbano essere pari a 3 mq per persona. Va da sé, sottolinea Siciliano, che non è un problema di quantità ma di qualità. Occorre prendersi cura, farsi carico delle persone a prescindere da quello che hanno compiuto. “E si può cambiare!! Possono cambiare anche i mafiosi”, ma questo in genere richiede tempo, un lungo percorso di elaborazione interiore. A san Vittore, i tempi di permanenza sono talmente brevi che non si può pensare che la persona “cambi”, che possa prendere coscienza di quello che ha fatto, e maturare una consapevolezza del male che ha fatto. A chi sta fuori, coloro che commettono reati minori, quindi gran parte dei detenuti, danno fastidio, paradossalmente, più dei mafiosi. Nel pensiero comune, sottolinea il direttore, per chi sta fuori chi commette furti, in casa o attenta alla nostra sicurezza per la strada, o i tossicodipendenti e gli stranieri, risultano essere più fastidiosi della mafia e forse il nostro sistema pecca di eccessiva carcerizzazione. Ma Siciliano ci tiene a sottolineare che Milano è molto attenta al “suo” carcere, “basta chiedere e si ottiene”. Per chi sta dall’altra parte, gli agenti, il direttore ammette che lavorare nel carcere è difficile, poiché essi rappresentano l’istituzione che è il nemico da combattere. Ed è proprio per questo che i volontari sono importanti; quello che li rende insostituibili è proprio il loro disinteresse, il fatto di non essere pagati. Chi opera nel carcere senza alcun tornaconto personale, chi decide di passare il suo tempo con loro, solo costui “buca”, riesce cioè ad entrare in “relazione” con i detenuti, ad ottenere più facilmente la loro fiducia e il loro rispetto. Certo il volontario non può “giudicare”, deve occuparsi del detenuto indipendentemente da quello che ha commesso, con l’unico obiettivo di aiutarlo a fare un percorso di vita nuova. Purtroppo i tempi brevi di permanenza già ricordati lo rendono difficile, ma fin da subito occorre insegnare loro a “prendere in mano la propria vita”. Questo, secondo il direttore, deve essere l’obiettivo ultimo di ogni volontario. Di conseguenza, sotto il profilo organizzativo, i volontari entrano a far parte – come gli agenti, i medici, il cappellano – di una rete di operatori che devono interagire, costantemente, lavorando insieme, poiché ognuno vede/si occupa di un tassello, e per comporre il puzzle (che è il sostegno al detenuto) ogni informazione utile deve essere condivisa, in un confronto continuo. Occorre cioè – a parere del direttore – mettere in rete ogni informazione rilevante. Non si tratta di violare la privacy ovviamente, tutt’altro, significa operare tutti insieme per il bene del detenuto. Questa compattezza può rendere forte l’istituzione nel costruire insieme ogni progetto; non il braccio di ferro o il pugno duro, che viene usato invece da chi – Stato/istituzione – è debole e si deve difendere. Tutti e quindi anche i volontari entrano in carcere con un motivo, per realizzare un progetto, più o meno ambizioso. I bisogni all’interno sono molti (abbigliamento, istruzione, lavoretti…), ma è fondamentale tenere occupati i detenuti, per aiutarli a crescere. Occorre tenerli impegnati, farli “fare”, e ciò potrebbe voler dire anche solo ascoltare. Molto è stato fatto, ma molto si può ancora pensare, organizzare e realizzare. Entrare significa fare un servizio, un servizio alla persona, che può comprendere molte cose. All’interno del carcere, ma anche fuori. E quando i detenuti vengono coinvolti in attività pensate specificamente per loro, non succede nulla, perché essi non possono tradire la fiducia di chi li tratta con rispetto, di chi li tratta come “uomini”, perché spesso essi non lo sono mai stati per nessuno. Occorre trovare lo spazio giusto, uno spazio che è legato al progetto e a chi lo propone, poiché “la tua capacità e maturazione ti fanno trovare il tuo posto”. E il carcere fa crescere tutti. Il dr. Siciliano ci ha parlato con concretezza e fermezza, unite ad una grande attenzione alla persona. Non mi stupisco, salutando gli uomini della scorta, che abbia fatto saltare i nervi a qualche prepotente.

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