Sul Sessantotto, senza esagerare


 

quadroandria

L’anno scorso, su richiesta della rivista ADISTA, ho scritto un testo per i 50 anni del ‘68, che si intitolava: Dal Post-concilio al C9: la lunga “riforma” della Chiesa , su “Adista”, 52/19(2018), 11-12.. Dopo la pubblicazione degli “appunti” di J. Ratzinger sul tema degli abusi, il dibattito sul ‘68 è tornato prepotentemente di attualità. Allora ho pensato di riproporre quel testo, con alcune necessarie precisazioni e con un nuovo titolo.

Il ‘68, il Concilio e la Chiesa nella società aperta

Per comprendere che cosa è successo nel mondo e nella Chiesa, a partire dal 1968, vorrei cominciare dalle parole di un caro collega americano, il compianto abate e prof. Patrick Regan. Egli raccontava di essere giunto dagli USA a Parigi, per studiare liturgia, proprio nell’anno 1968. E di aver assistito ai primi “moti” del 68 parigino, con lo stupore e la meraviglia di un americano, che stava vivendo nello stesso anno l’assassinio di Martin Luther King. La prima cosa che il 68 ci consegna è infatti la progressiva e parallela globalizzazione e differenziazione delle culture. E, in effetti, al centro del 68 emerge una “esperienza di libertà” che, sintetizzata in una battuta, assomiglia molto al dogma trinitario, applicato però ad ogni uomo: “tutti sono uguali e ognuno è diverso”. Questo è anche, in forma brevissima, e certo non priva di problemi, una sorta di carta di identità di quella che chiamiamo “società aperta”. La società appare “aperta” – e non più chiusa – se ognuno può essere se stesso “incondizionatamente”. Questo è il sogno. La autorità della libertà diventa massima, mentre la libertà della autorità diventa minima. Ecco il punto di partenza della società differenziata, secolarizzata, complessa.

Nonostante la sua storia del XIX e XX secolo, la Chiesa cattolica è riuscita, in qualche modo, ad anticipare il ‘68. Tra gli anni 59-65, sotto lo stimolo potente prima delle profezie vivaci di Giovanni XXIII e poi delle narrazioni ispirate del Concilio Vaticano II, introduceva nella propria disciplina – e forse ancor più – nella propria dottrina una “prospettiva inaudita”. Il Concilio Vaticano II, infatti, non è anzitutto un atto di “riforma”, ma è la percezione e la espressione di una forma più elementare e più radicale di Dio e dell’uomo, di Cristo e della Chiesa, della verità e della carità.

Il Concilio come “esperienza del mistero”

Se leggiamo i testi del Concilio Vaticano II, soprattutto le 4 Costituzioni, ma anche i Decreti e le Dichiarazioni, scopriamo che al centro vi è il delinearsi di una nuova esperienza del mistero di Dio. Rinunciando sia a “formulare nuovi dogmi”, sia a “condannare nuovi abusi”, il Concilio si converte dal magistero negativo a quella positivo, e “racconta” il Mistero del Dio di Gesù Cristo nella esperienza del culto, nella relazione alla Parola, nella struttura della comunità ecclesiale e nella chiesa che vive in rapporto col mondo. Le costituzioni conciliari, avvalendosi di linguaggio più opportuni, rinunciano a definire e preferiscono “ri-narrare” 4 punti di partenza, nella loro diversità e nella loro inesauribilità. La “indole pastorale” che caratterizza il Vaticano II è precisamente questo: scoprire che l’accesso alla “sostanza della antica dottrina del depositum fidei” può avvenire nella “riformulazione dei suoi rivestimenti” e che questa differenza incolmabile non è un limite, ma una virtù della tradizione. Questa differenza apre, necessariamente, alle “riforme” in ognuno di questi ambiti. Riforma liturgica, riforma nel rapporto con la Parola, riforma nella strutturazione della esperienza ecclesiale e riforma nel rapporto con il mondo.

Il Concilio come “esigenza di riforma”

Come è evidente, su ognuno di questi 4 ambiti, nella loro comunanza di fonte, ma anche nella loro differenza di forme, si è sviluppato un processo di riforma che ha conosciuto fasi alterne e tensioni complesse. Sicuramente la liturgia è stata la più rapida nel proporre un proprio volto rinnovato, in cui la valorizzazione della eguaglianza e della differenza dei soggetti ecclesiali poteva essere finalmente concretizzata. Poco si è riflettuto sull’impatto che su questa “logica di riforma” hanno portato non soltanto le singole costituzioni, ma anche il Decreto Dignitatis Humanae, con il suo storico riconoscimento della “libertà di coscienza” come patrimonio comune non solo di tutta la cristianità, cattolicesimo compreso, ma anche al servizio di tutta la umanità. Pensare che “partire dalla coscienza del soggetto” sia anzitutto un rischio è la eredità di un mancato ripensamento del Vaticano II e dei suoi innegabili rapporti con la elaborazione dell’esperienza anche ecclesiale all’interno di una società aperta. Nel momento in cui si ammette il principio di libertà di coscienza la società e la chiesa “si aprono”. Ciò le rende più ricche e più complesse, più fragili e più audaci. Ed è stata la libertà moderna a rendere visibile la famiglia, come soggetto ecclesiale. Proprio mentre la minacciava in radice, la promuoveva altrettanto radicalmente. La “comunione di vita e di amore” è perciò una definizione del matrimonio che solo la cultura moderna ha reso dicibile e pensabile nella Chiesa. Questo perché una comunione, in cui ogni membro non sia pensato come soggetto indisponibile, non è comunione autentica.

La grande resistenza al Concilio e il paradosso della “rinuncia alla autorità”

Ma la profezie conciliare era, come tutte le profezie, esposta al discredito e alla diffidenza. I profeti di sventura, evocati nel discorso di inizio del Vaticano II, da 67 anni sono pronti alla chiamata alle armi e alla organizzazione della resistenza. Fantasmi antimodernistici, interessi di immobilismo, alleanze con gli interessi più bassi hanno avuto, per lunghi tratti, una influenza pesante. Non hanno mai del tutto frenato il processo di riforma, ma l’hanno rallentata, svuotata, squalificata e insultata. Come se riformare significasse tradire. Il “modulo” più fortunato di tale resistenza è stato messo a punto tra gli anni 80 del secolo scorso e gli anni 10 del nostro secolo. E’ un modulo capovolto rispetto al famosissimo “la fantasia al potere” di marca sessantottina. Esso pretende una Chiesa il cui potere sia del tutto privo di fantasia. Anzi, in cui il potere neghi se stesso e si impedisca ogni autorità, e quindi ogni possibile riforma. L’unica cosa che si è riformata è stato il codice, perché una riforma fosse impossibile. Nel corso di questi tre decenni ogni questione è stata affrontata con questa riserva: solo gli antichi, i medievali e i moderni avevano una autorità. Noi no. La Chiesa è stata vittima di un modello capovolto rispetto a quello del 68: forse ne è rimasta segnata, bruciata, traumatizzata. E per non ammettere la positività presente in quel modello che la metteva in crisi, ne ha assunto uno che l’ha radicalmente mortificata. Alla ingenuità mondana di un potere senza mediazioni, così come sognato dagli ideali ingenui del 68, si è contrapposta la pretesa di una mediazione senza autorità, che ha paralizzato ogni istanza di riforma, arrivando, alla fine, a delegittimare pesantemente lo stesso inizio conciliare.

Il ritorno al Concilio e il rilancio dell’ “esercizio della autorità”

Con l’arrivo di papa Francesco diversi fattori sono cambiati strutturalmente. Da un lato un papa non europeo non ha il complesso di superiorità della autorità sulla libertà e per questo può stare in modo più sciolto nella vicenda ecclesiale post-sessantottina. D’altra parte Francesco ha, nei confronti del Concilio Vaticano II, un rapporto genealogicamente diverso. Mentre i suoi predecessori – tutti, da Giovanni XIII a Benedetto XVI – erano stati “padri conciliari” e quindi avevano nei confronti del Concilio tutte le ragionevoli apprensioni che i padri hanno verso i figli (forse scapestrati e forse anche degeneri), Francesco è il primo papa “figlio del Concilio” e per questo non responsabile del Concilio, come lo è un figlio verso il padre. Questo dipende da dati elementari, che riguardano la sua biografia ecclesiale: J. M. Bergoglio è diventato prete l’anno dopo il 68, a 4 anni dalla chiusura del Concilio. Questo gli ha consentito di “star fuori” da ogni senso di responsabilità verso il Concilio, che è per lui l’aria che ha respirato sempre, fin dagli anni della sua formazione. Questa condizione di favore ha potuto rilanciare la “autorità ecclesiale”, che ora non si paralizza di fronte alla storia, ma entra in dialogo e in ascolto della vita dei battezzati e provvede a tradurre la tradizione in forme nuove: per quanto riguarda la evangelizzazione, la cura del creato, la famiglia, le forme ministeriali, siamo di fronte a un “inizio di un inizio”, che estrae il disegno conciliare dal congelatore e ne riconfigura possibilità, necessità e urgenze. E’ un inizio, solo un inizio, ma decisivo. Per tale inizio il 68 non è anzitutto paralisi di libertà autoreferenziale, ma recupero di autorità dei processi relazionali.

La riforma della chiesa, 50 anni dopo

La Chiesa immobile è stato ed è l’ideale di ogni antimodernismo ecclesiale. Ma è stato e rimane anche il sottile desiderio di ogni modernismo senza scrupoli. Vi è chi pensa, e forse spera, che questa paralisi non sia una scelta, ma quasi un “destino” della Chiesa cattolica, anche sotto Francesco. A me pare, tuttavia, che alcuni segni decisivi mostrino come il ripensamento della tradizione si sia rimesso in moto. E per farlo ha rimesso in gioco la natura “partecipata” della liturgia, la verità “comunionale” della Chiesa, la “ricca narrazione” della Parola e la preziosa relazione con mondo, come luogo in cui lo Spirito parla e deve essere ascoltato. La radice di ogni riforma, che certo comporta delicati processi di trasformazione istituzionale, consiste in questa nuova trascrizione della esperienza di fede. La condizione della “società aperta” può essere considerata non solo un danno, ma una opportunità per la Chiesa solo se alcune nuove evidenze maturate a partire dal ‘68, sono penetrate anche nella consapevolezza della compagine ecclesiale. Se, come si ripete, Francesco non può essere definito un liberale, ma piuttosto un radicale, tale può essere solo declinando il Vangelo e interpretando la autorità episcopale con una nozione di libertà che ridimensiona l’autoritarismo classico e con una passione per l’altro, che accorcia le distanze e ridimensiona le strutture, come ha imparato anche dalla fantasia del 68. Altrimenti, senza il 68, come avrebbe potuto dire, un papa, al Collegio degli Scrittori della Civiltà cattolica, che le tre caratteristiche fondamentali del teologo di quella rivista debbono essere: inquietudine, incompletezza e immaginazione? Per parlare così, per permettersi una tale parrhesìa, egli deve aver considerato il 68 non solo come un pericolo o come una perversione, ma anche come una occasione di crescita e come un kairòs prezioso per la cultura degli uomini e persino per la tradizione ecclesiale.

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