Terzo uomo e terza Chiesa


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Le edizioni Odile Jacob ristampano il famoso articolo “Il terzo uomo” pubblicato alla fine del 1967 nella rivista Christus [dei gesuiti francesi], dall’allora padre François Roustang sj, con l’aggiunta di un resoconto storico di Etienne Fouilloux e di uno studio sociologico di Danièle Hervieu-Léger.

Essendo allora vicino a padre Maurice Giuliani, fondatore di Christus, e avendo conosciuto attraverso di lui François Roustang, avevo prestato attenzione a quest’articolo in occasione della sua comparsa; padre Denis Huerre, abate del monastero, molto sensibile all’aspetto umano della vita cristiana, l’aveva anch’egli notato, e ne avevamo parlato. La mia sensazione, alla sua lettura, era che questo testo “suonava giusto”. Dico “sensazione”, perché allora non ero in grado di argomentare tale adesione spontanea, d’identificare i passaggi più importanti o più discutibili, di capire perché esattamente questo testo dava fuoco alle polveri presso i lettori, ma anche presso i responsabili della rivista. L’abbandono dell’autore, che lasciava la Compagnia di Gesù poco dopo, aveva smorzato un po’ il mio consenso spontaneo; tuttavia non ho mai smesso di riferirmi a questo testo, e l’ho ancora citato nel mio Piccolo saggio su papa Francesco recentemente pubblicato.

Il “terzo” uomo succedeva nell’immediato post-Concilio dopo il “primo”, conservatore reticente rispetto all’aggiornamento conciliare, e dopo il “secondo”, conquistato alla riforma e impaziente di vederla messa in atto. Questo “terzo uomo”, che François Roustang individuava tra i suoi amici e conoscenti, era altrove. Il Concilio lo aveva come fatto uscire dai binari che aveva esso stesso tracciato. Si potrebbe dire: il Concilio gli aveva permesso di essere uomo, semplicemente. Questo si traduceva certo in un rimettere in questione teorico, ma soprattutto in pratiche differenti. Roustang citava la riconciliazione, atto di verità nei confronti di qualcuno: la propria moglie, un amico… capace di creare un’atmosfera nuova nei rapporti umani, nel senso più ampio, ma indipendentemente dall’accusa dei peccati in un confessionale. Citava anche la sessualità e la maniera di affrontarla: “comprendere e rispettare l’altro, senza imporgli un peso che non può portare, riconoscendo il desiderio dell’altro nella lucida accettazione progressiva del proprio”, ai margini, in questo caso, non del confessionale ma di un magistero esteriore (563). Seguiva la questione della liturgia e dell’Eucarestia, con il passaggio alla lingua volgare che svelava il carattere antiquato delle parole e dei riti, la loro incapacità di creare ciò per cui erano fatti: una comunità.

Insomma, questo terzo uomo, cristiano convinto e discepolo di Gesù-Cristo, è colpito da ciò che gli appare la mancanza di pertinenza umana profonda nelle dottrine o nelle pratiche comuni nella Chiesa, fin nei suoi più recenti aggiornamenti. Così, questi cristiani del tipo “terzo uomo” “si sentono diventati più vicini a tutti gli uomini che incrociano sul loro cammino. Non giudicano più, non si credono più superiori o detentori di una verità preconfezionata; si mettono a cercare insieme agli altri, con tutti quelli che trovano al loro fianco, senza distinzione di credenza” (565). L’autore non nasconde il pericolo di dissoluzione della fede legato a questo nuovo atteggiamento, ma invoca altresì la memoria di Giovanni XXIII, “l’eco incredibile della sua malattia e della sua morte”, da cui nasce un sentimento fraterno rispetto a tutti gli uomini, la percezione di una convergenza tra loro in ciò che in essi è migliore. François Roustang conclude invitando il suo lettore a fare attenzione a questa nuova categoria di cristiani; si preoccupa del fatto che il clero “non sembri affatto preparato a prendere atto di questa mutazione della coscienza cristiana” (567).

Che cosa possiamo conservare, cinquant’anni dopo, di questo testo? Proporrei volentieri che esso sia considerato come una chiave ermeneutica, nel 2019, capace di aprire un accesso al tempo stesso antico e nuovo al Concilio Vaticano II. Si tratta di avere dell’uomo una visione positiva: un uomo maggiorenne, di fronte a se stesso, agli altri, a Cristo, a Dio stesso. Un uomo immagine di Dio “principio dei suoi atti, avendo su di essi il libero arbitrio e il potere” (Tommaso, Somma teologica, Ia-IIae, prologo) – un uomo dunque che discerne, decide e agisce, ma anche che ascolta e risponde, che chiede perdono e perdona. E dunque un Cristo che, venendo nel mondo, ascolta la Parola di Dio suo Padre e risponde ad essa attraverso le sue scelte, il tempo [della sua vita], la sua morte, indicando così la figura di Dio: Colui che crea con la sua Parola, e che subito si rivolge [all’altro], chiede, attende, accompagna, perdona, risuscita. E, se si tratta della Chiesa, bisognerebbe reinterpretare il doppio discorso della liturgia e dell’autorità alla luce dell’Uomo maggiorenne, del Cristo donato alla Parola, e di Dio interlocutore sublime. Non è forse venuto il tempo di riprendere tutto il Concilio alla luce dell’uomo? O ancora: tutto ciò che è buono e durevole, in ciò che è stato pensato e fatto dopo il Concilio, non viene forse da qui?

O, per dire le cose altrimenti: l’avvento del terzo uomo è contemporaneo a ciò che potremmo chiamare “la Chiesa periodo III”. C’è stato in effetti il “periodo I”, durante il quale la comunità nascente dei discepoli ha dovuto situarsi rispetto al giudaismo, da cui usciva, e rispetto al mondo culturale greco-latino, indifferente se non ostile, nel quale si situava e con il quale doveva vivere. Il “periodo II” è cominciato con il Concilio di Nicea e i concili successivi. Si sono poste gradualmente le basi di una dottrina di Dio, di Cristo e dello Spirito; poi una visione della salvezza dominata dalla questione della remissione dei peccati attraverso il sacrificio della Croce, e di conseguenza, della relazione tra la libertà e la grazia; simultaneamente, infine, una visione della società sia civile che religiosa attraversata dal problema dei poteri. Questo periodo è durato, tra progressi e regressi, tra santità, abusi e riforme, fino al Concilio Vaticano I e ai suoi decreti sulla fede (Dei Filius) e sulla Chiesa (Pastor Aeternus). Il Concilio Vaticano II apre verosimilmente un terzo periodo. Non è un concilio di riforma, ma d’instaurazione. Come se tutto quanto precedeva avesse liberato una visione più profonda, cioè più divina e più umana ad un tempo, che si potrebbe riassumere con questa formula: “Dio è amore ed è permesso essere uomini”.

(Traduzione dal francese di Emanuele Bordello)

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