L’Agnello-Pastore


IV domenica di Pasqua – C

At 13, 14. 43-52; Ap 7, 9. 14-17; Gv 10, 27-30

Introduzione

La IV domenica di Pasqua è sempre dedicata alla figura di Gesù-Pastore e si legge ogni anno come brano evangelico un passo del cap. 10 del Vangelo di Giovanni. Come sempre dobbiamo collocare questi testi nel contesto liturgico di questo tempo e coglierli nel loro significato pasquale. Il rischio è quello di parlare in astratto di Gesù come pastore e quindi dei pastori della Chiesa. Nel contesto di questo tempo liturgico non dobbiamo dimenticare che Gesù è presentato come pastore in rapporto alla sua Pasqua.

I quattro versetti che compongono la pericope evangelica del ciclo C sono costruiti molto finemente. Il testo stesso crea rapporti tra Gesù, il Padre e i discepoli. Certo, per cogliere tutta la ricchezza di questo testo dovremmo leggerlo nel suo contesto biblico, nel cap. 10 di Giovanni. Tuttavia anche la liturgia della Chiesa ci dona un contesto nel quale leggere questi versetti: è il Tempo di Pasqua.

La seconda lettura è tratta dall’Apocalisse (Ap 7,9.14-17). Questo testo dell’ultimo libro delle Scritture ebraico-cristiane ci fornisce la chiave per interpretare il brano evangelico nel contesto del Tempo pasquale. In particolare, il passo che più ci interessa è quello che accosta l’immagine del Pastore a quella dell’Agnello. Gesù è Pastore perché è Agnello: cioè è divenuto pastore e guida perché ha donato la vita per l’umanità. La moltitudine immensa di salvati ha lavato la veste nel suo sangue. Ma la loro veste non è stata lavata in modo “automatico” e “distaccato”: essi stessi hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello passando attraverso la grande tribolazione, cioè facendo proprio il dono di vita che l’Agnello-Gesù ha già vissuto, sconfiggendo per sempre la morte. Questa visione finale della storia, che si conclude con la bellissima immagine di Dio che terge ogni lacrima dagli occhi dell’umanità, è lo sfondo sul quale collocare i versetti del Vangelo. Per questo ogni anno non manca mai una domenica nella quale si legge un brano del cap. 10 di Giovanni: perché uno dei frutti della Pasqua che irradia di luce nuova la storia è proprio la costituzione di Gesù come Pastore.

Nella pagina degli Atti degli Apostoli (I lettura) questo frutto della Pasqua viene contemplato nelle vicende della Chiesa nascente, che sperimenta – anche nelle contraddizioni delle vicende umane fatte di chiusure e contrapposizioni – la guida del suo Pastore, che apre strade inattese e insperate, colmando i cuori dei discepoli di gioia e di Spirito Santo.

 

Riflessione

Le mie pecore la mia voce ascoltano… mi seguono

Un primo passo che possiamo fare per la comprensione del testo è provare a vedere quali sono i verbi che denotano l’azione delle pecore e quali quelli che hanno per soggetto il pastore-Gesù.

Innanzitutto le pecore ascoltano la voce del Pastore (“la mia voce”, è Gesù che sta parlando in prima persona). Della voce del Pastore si è già parlato in Gv 10,3.4.16. Il secondo verbo che ha come soggetto le pecore è “seguire”. Le pecore che ascoltano la voce di Gesù lo seguono. Anche nelle altre ricorrenze del verbo “ascoltare” e del termine “voce”, che troviamo nel capitolo 10, c’è la presenza del verbo “seguire”.

Le pecore, quindi, ascoltano e seguono. Ma su cosa si basa l’ascolto della voce di Gesù e la sequela da parte delle pecore? La risposta a questa domanda la troviamo nei verbi che hanno per soggetto Gesù. Egli conosce le pecore e dona loro la vita eterna. Anche queste espressioni sono presenti in altri punti del discorso del cap. 10 sul buon Pastore. Al v. 14 leggiamo che il buon pastore conosce le sue pecore e le sue pecore lo conoscono. Al v. 15 inoltre si afferma che il pastore-Gesù dà (depone) la sua vita per le pecore. Un’espressione diversa che però presenta somiglianze e legami con quella del v. 28a.

Se c’è un nesso per le pecore tra l’ascolto e la sequela, il testo crea un nesso anche tra conoscere e dare la vita (nei due sensi) per Gesù. Nella Bibbia la conoscenza non è una realtà principalmente razionale, ma riguarda qualcosa di “relazionale” e di “sperimentato”. Si consoce, quando si è sperimentata una cosa/persona e si è rimasti toccati dall’incontro con essa. Quindi “conoscere” appartiene al vocabolario della relazione. Gesù conosce le pecore perché le ha amate al punto da “deporre” la sua vita e così da “consegnare” loro la vita eterna. In Gv 10,14 si dice che il pastore conosce le pecore e le pecore lo conoscono: è una relazione reciproca fondata sull’amore di Gesù per le sue pecore, i suoi discepoli, fino ad dono della vita. Per Gesù conoscere le pecore significa donare per loro la vita perché abbiano la vita eterna (cfr. Gv 10,10).

Questo è uno dei frutti della Pasqua di Gesù: la conoscenza reciproca fondata sull’amore. Nel Vangelo di Giovanni abbiamo un episodio nelle apparizioni del Risorto il mattino di Pasqua che rievoca questa realtà. Anche Maria Maddalena, infatti, nel giardino della risurrezione riconosce il Signore risorto solo quando si sente chiamata per nome, quando ode la sua voce e la sa riconoscere: «Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: Maestro!» (Gv 20, 16).

Io e il Padre siamo una cosa sola

Il secondo paragrafo passa a parlare della relazione tra il Padre e Gesù, come fondamento della sicurezza con la quale Gesù tiene nella sua mano le pecore. È il Padre che ha dato nelle mani di Gesù le pecore e lo ha quindi costituito pastore. Il testo sembra affermare che ciò che conta è che sia stato il Padre ad affidare le pecore a Gesù: su questo fondamento esse stanno sicure nelle sue mani. Ma a questo punto dobbiamo riandare ai molti passi del Vangelo di Giovanni nei quali si afferma che i discepoli sono stati dati a Gesù dal Padre. In particolare non possiamo non ricordare il cap. 17 (6.9.11.12.24). Sempre nel cap. 17, nella preghiera durante la cena, Gesù afferma che lui e il Padre sono una cosa sola.

Come in tutto il Vangelo di Giovanni, anche qui si afferma che il fondamento della relazione tra Gesù e i suoi discepoli è la relazione esistente tra Gesù e il Padre. Questo appare chiaro in Gv 17,22: «Io ho dato loro la gloria che tu mi hai data, perché siano uno come noi siamo uno». Quel “come” per Giovanni ha un valore molto forte: con esso l’evangelista afferma che la relazione Padre/Figlio è il “modello” della relazione Figlio/discepoli. Per questo avviene come un’identificazione della mano del Figlio e della mano del Padre. I discepoli sono sicuri nella mano del Figlio, perché in essa si rende presente la mano del Padre. Nella conclusione, che come abbiamo detto rimanda a Gv 17, questa relazione Padre/Figlio è posta come fondamento di tutto.

Un’altra realtà che emerge dal testo è la mediazione che Cristo esercita tra il Padre e le pecore/discepoli. Se nella prima strofa i due personaggi sono il Figlio e i discepoli e nella seconda il Figlio e il Padre, vediamo anche come il Figlio sia ciò che congiunge e crea la relazione tra il Padre e i discepoli. Anche in questo caso di tratta di un frutto della Pasqua di Gesù: la relazione dei suoi discepoli con Dio Padre, che Gesù ha stabilito nella sua carne. Egli è divenuto la via attraverso la quale l’umanità può rivolgersi a Dio in un modo nuovo.

Partecipi della stessa relazione

I due paragrafi si illuminano a vicenda, e con la premessa ricavata dalla seconda lettura della liturgia della Parola di questa domenica, possiamo cogliere in questo testo un tratto essenziale della Pasqua. Nella sua Pasqua, Gesù è divenuto “Pastore”. Ma la sua investitura come pastore proviene dal Padre in forza della sua vita donata, evento definitivamente sigillato dalla Risurrezione. È una relazione reciproca e non più cancellabile, quella che la Pasqua di Gesù ha creato tra lui e le sue pecore: egli è Pastore perché Agnello che ha dato la sua vita.

Ma che cos’è che rende indelebile e definitiva la “vita” che Gesù può ora donare alle pecore? Egli ci attira nella relazione che intercorre tra lui e il Padre. È perché siamo divenuti partecipi di quella relazione, perché noi viviamo in Gesù la nostra relazione con Dio, che la nostra vita ha già da ora il volto dell’eternità.

Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

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