“Pusilli animi est…” (AL 304): continuità e meschinità nella tradizione ecclesiale su matrimonio e famiglia


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In un intervento sull’Avvenire del 3 agosto scorso, Mons. Camisasca si sorprendeva per il fatto che venga offerta una immagine della evoluzione della pastorale familiare che sottolinea la discontinuità del papato di Francesco rispetto ai predecessori. E affermava che il popolo cristiano deve essere aiutato a comprendere la continuità, non la discontinuità della tradizione.
Trovo che questo intervento abbia il merito di mettere il dito in una piaga, che non riguarda soltanto la pastorale e la dottrina su matrimonio e famiglia, ma l’intero “depositum fidei”. Su questo mi pare importante non cadere in una serie di trappole, che facilmente impediscono di comprendere ciò che sta accadendo. Ma procediamo per ordine.

1. In primo luogo non debbo certo ricordare a Mons. Camisasca che il Concilio Vaticano II è sicuramente il punto di riferimento primario per comprendere che la continuità con la grande tradizione può essere assicurata solo assumendo su di sé il compito della riforma della Chiesa. Dalle parole di Camisasca, e di molti altri critici verso il rinnovamento dell’Istituto GPII, non trapela mai che la “condizione della continuità” è la riforma. Ora, ogni riforma comporta inevitabilmente una serie di discontinuità. Pertanto il Vaticano II impone di assicurare una più profonda continuità mediante alcune decisive discontinuità. Se si gioca sulla opposizione netta tra continuità e discontinuità, si resta fermi, immobili, bloccati. E’ quello che è capitato alla teologia del matrimonio e della famiglia. Che ha ritenuto di essere “fedele alla tradizione” restando bloccata su soluzioni e linguaggi tipici della seconda metà de XIX secolo.

2. In particolare, un testo di AL segnala in modo assai chiaro dove stia il “punto di svolta” che diversi professori dell’Istituto GPII hanno duramente e reiteratamente osteggiato. E’ uno dei testi chiave, nei quali viene attestato il superamento del modello ottocentesco di teologia del matrimonio. Esso dice così:

“È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano.”

Il testo latino inizia la frase con la espressione: “pusilli animi est”: “è proprio di un animo piccolo, debole, meschino”. Ma si deve dire, con tutta la chiarezza del caso, che proprio questa è stata la strategia ecclesiale prevalente sul matrimonio, che è iniziata con Pio IX, passando per Leone XIII, il Codice del 1917 e Pio XI, per arrivare fino al Vaticano II. Tale scelta è stata quella del “primato dell’oggettivo”, con una considerazione minima e marginale del soggetto implicato. Questa strategia, che è stata la “forza” del XIX, è diventata la debolezza del secolo XXI.

3. Bisogna aggiungere, però, che proprio la teoria centrale dell Istituto GPII, elaborata in origine da Carlo Caffarra, portava alle estreme conseguenze questa impostazione ottocentesca: ossia operava una duplice e pericolosissima riduzione: riduceva la teologia del matrimonio alla morale, e la morale ad una serie di “assunti canonici” che diventavano il vero centro della dottrina sul matrimonio. Un diritto canonico elevato a criterio fondamentale per bloccare ogni asserto dogmatico, morale e pastorale. E chi non seguiva questa impostazione angusta veniva accusato di “magistero parallelo”: mons. Camisasca non farà fatica a ricordarlo.

4. Questa operazione, compiuta agli inizi degli anni 80, e blindata con la Esortazione apostolica “Familiaris consortio”, opera così un blocco totale della tradizione. Facendo passare per rivelato ciò che è una legittima ma contingente scelta storica, ha preteso di dire la “parola definitiva” sul matrimonio e sulla famiglia. Come è evidente per essere in continuità con la grande tradizione antica, medievale e tridentina, occorreva uscire da questo imbuto, nel quale ci eravamo rinchiusi dal 1981. I due Sinodi del 2014 e del 2015 hanno operato questa svolta.

5. La riforma della pastorale matrimoniale e familiare aveva bisogno di riscoprire, dopo quasi 40 anni, che la scelta operata allora, risultava, alla luce della realtà della Parola di Dio e della esperienza dei cristiani, una soluzione “meschina”: una astrazione pericolosa, e anche assai violenta, che risentiva in modo troppo accentuato di una comprensione astratta e inadeguata della antropologia, della ecclesiologia e anche della funzione “dinamica” dello stesso diritto canonico.

6. Per questo io mi sorprendo della sorpresa di Mons. Camisasca. Avrebbe già dovuto preoccuparsi negli anni 90, quando era coinvolto in un insegnamento, che operava pericolose astrazioni sulla pelle delle coppie sposate. Che ricostruiva in contumacia le loro vicende. Che non ammetteva la storia del vincolo e che idealizzava in modo esasperata le storie di vita, di comunione e di generazione.

7. Non mi sorprende invece che oggi egli chieda “continuità”. In realtà quella continuità, a cui lui accenna, non è più possibile. Perché è in gioco una continuità superiore, quella del depositum fidei sul matrimonio e sulla famiglia, che deve trovare un rivestimento e una formulazione migliore, adeguata, non rigida. Per questa via si è avviato con coraggio il Sinodo dei Vescovi e il magistero di Francesco. Che oggi può riconoscere come “debole” quello che sembrava “forte” e come “meschino” quello che sembrava “necessario”.

8. D’altra parte qui è in gioco molto più delle sensibiità episcopali e curiali. Che sono molto brave a ricostruire le cose a loro piacere. E possono auspicare che tutto cambi perché tutto resti come prima; che si possano dire, contemporaneamente, le frasi di 40 anni fa e quelle di oggi; che si possa addirittura fare di papa Francesco un “discepolo di Luigi Giussani”. La confusione che si deve evitare è quella tra la domanda di continuità, che è una cosa seria, e la pretesa di ridurre la continuità alla strategia meschina di una “societas perfecta” incapace di considerare le storie concrete dei soggetti.
Ma forse, dietro a tutto questo, la confusione peggiore non è quella tra “continuità” e “meschinità”, ma quella tra “comunione” e “comunione e liberazione”.

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