“Sotto le specie” non c’è liturgia. Sui limiti della lettura sostanzialistica della eucaristia (Quaestio de eucharistia /3)
Sollecitato dalle critiche proposte con linearità da Francesco Arzillo, in risposta al mio post precedente, dedicato alle conseguenze sistematiche della III edizione del Messale romano, provo ora a ragionare ancora un poco sulla questione della teologia eucaristica e delle categorie di cui fa uso.
Vorrei organizzare il mio testo in tre passaggi. Nel primo rifletto sul modo stesso con cui vogliamo intendere il confronto teologico “de eucharistia”; nel secondo mi soffermo su ciò che condivido delle osservazioni di Arzillo. Infine ritorno sugli argomenti che ci dividono, e che meritano di essere ulteriormente chiariti.
1. Ciò che il nostro punto di vista afferma…
Nelle discussioni teologiche è molto facile, e per certi versi del tutto fisiologico, fermare la attenzione e concentrare la parola su ciò che il discorso preso in considerazione “nega”. Così possiamo facilmente sostenere che la lettura metafisica della eucaristia non riesce a comprendere la profondità teologica della “dinamica rituale”, e reciprocamente possiamo dire che la lettura rituale rimane catturata dal contingente, e non sale (o scende) alla verità trascendente del sacramento. Vorrei invece provare a comprendere come la lettura “simbolico-rituale” costituisca la integrazione di un punto di vista del tutto legittimo, come quello “transustanziale”, ma che, proprio per le categorie che utilizza da secoli, ma non dall’inizio della esperienza cristiana, porta inavvertitamente la tradizione ad una concentrazione sulla sostanza e ad una presa di distanza sempre più accentuata dall’accidente/specie. Trattare il “corpo di Cristo” come una “sostanza” non è una scelta priva di rischi.
Questo fenomeno, d’altra parte, non dipende né dalla volontà di chi lo utilizza, e neppure dalle categorie di sostanza/accidente, considerate i se stesse, ma semplicemente dalla concreta tradizione teologica latina cattolico-romana, che ne ha proposto e poi imposto un uso del tutto singolare, con un impatto forte e capillare sulla prassi e sulla mentalità.
Bisogna ricordare, infatti, che la terminologia della coppia “sostanza/specie” o “sostanza/accidenti” deriva da una riflessione aristotelica sull’essere, che esordisce con la famosa espressione secondo la quale l’essere “pollakòs légetai”, “si dice in molti modi”. Sostanza e accidenti/specie sono, per l’appunto, modi diversi di dire l’essere. Non sono categorie volte ad affermare o negare, ma a salvaguardare la differenza nell’essere. Pertanto, mediante l’uso di queste nozioni, non si tratta di affermare o negare l’essere, ma di articolare l’essere dell’eucaristia su piani diversi. L’operazione di “messa a punto” della nozione di “transustanziazione” va compresa precisamente in questa direzione, ossia come una “differenziata affermazione dell’essere”. Essa corrisponde, potremmo dire, ad una “composizione simbolica” di essere e non essere per spiegare un “divenire”. Il punto-chiave della discussione consiste nel considerare, con pazienza e con audacia, in quale misura questo “strumento concettuale” – ossia la comprensione dell’essere come sostanza e come accidente – salvaguardi la realtà concreta dell’eucaristia, nella sua natura di azione, o come invece, spostando il centro della attenzione, induca una esperienza troppo astratta del “fenomeno” che dovrebbe essere assunto come autorevole.
2. I punti di aperta condivisione
In tale considerazione, come è evidente, è possibile dividersi su fronti contrapposti e un dibattito legittimo è sempre esistito in proposito. Ma anzitutto voglio considerare ciò che unisce queste diverse prospettive. Mi soffermo sui due punti principali:
a) Proprio alla fine del sue scritto, F. Arzillo invita “alla presa di coscienza dell’esigenza di non restringere gli orizzonti della razionalità, sia pure usata in maniera sapienziale, nel lavoro teologico”. Credo che in questo intento siamo animati esattamente dal medesimo anelito: ampliare gli orizzonti della ragione. La teologia ne ha bisogno, senza paure e senza blocchi. Essa deve dialogare in profondità con la cultura e deve ascoltare non soltanto i discorsi classici, ma anche le nuove visioni, i nuovi slanci e i nuovi paradigmi; vedendovi non anzitutto il pericolo di perdere la tradizione, ma piuttosto l’occasione per ritrovarla e per comprenderla più a fondo.
b) In secondo luogo, Arzillo è giustamente preoccupato di assicurare una continuità alla tradizione. Mi sento di aderire in pieno al suo auspicio, anche nel momento in cui egli sembra dubitare delle mie intenzioni. Io desidero che la tradizione possa continuare. Ma so che, perché possa farlo, deve anche saper ospitare nuove e inattese discontinuità. Il lavoro di “traduzione della tradizione” è strutturale al lavoro teologico e alla passione ecclesiale per la verità. La quale, pur essendo “già data” una volta per tutte, chiede ad ogni generazioni di farla propria in modo nuovo, diverso e originale. Ciò che hanno fatto antichi, medievali e moderni – introducendo nuovi linguaggi e nuove categorie che prima non si usava – dobbiamo poterlo fare anche noi.
3. Le differenze (per il momento) irriducibili
Il depositum fidei ci vincola, ma non siamo vincolati dalla formulazione del suo rivestimento. Questa affermazione centrale, che inaugura il Concilio Vaticano II nelle parole di Giovanni XXIII, non deve essere letta ingenuamente. Non è il trionfo del liberalismo della “esperienza indicibile”. Essa segna piuttosto il delicato lavoro di “mediazione della tradizione” che potremmo chiamare, come già ho detto, “traduzione della tradizione”. Che questa traduzione sia vincolata alle “forme concettuali” della metafisica aristotelica costituisce una significativa confusione tra tradizione e sua mediazione, che deve essere contestata. Ciò non significa “denigrare” la transustanziazione, ma mostrarne i limiti e cercare di superarli. Senza pensare che solo la metafisica classica garantisca la trascendenza, e che la a-metafisica moderna non possa trasgredire la immanenza. I percorsi della riflessione contemporanea mostrano – ad es. in autori come Blondel, Merleau-Ponty, Marion, Henry – tutta la fecondità di una filosofia che abbia decisamente superato il dualismo tra sostanza e accidenti e che voglia essere “fedele” – e addirittura credente – rinunciando alla posizione metafisica. Esistono “filosofie prime” diverse dalla metafisica: questo non è solo un problema.
Così posso concentrare in poche affermazioni finali la mia distanza dalla posizione presentata da Arzillo:
a) Come anche in altri autori, la oscillazione tra un concetto “generico” e un concetto “tecnico” di “sostanza” non giova affatto alla chiarificazione teologica. La mia difficoltà verso il termine “transustanziazione” deriva precisamente dall’uso tecnico, metafisico e filosofico del termine. Una nozione di sostanza ridotta semplicemente all’idea di “presenza” non fa problema, proprio perché non aggiunge nulla al contenuto del “dogma fidei”.
b) Proprio questa “differenza di accezione” non è motivo di “paura”, ma di “delusione”. L’operazione che la categoria di “transustanziazione” ha compiuto, lungo i secoli, ha garantito un contenuto, e lo ha fatto egregiamente, ma non ha saputo garantire la forma. Potremmo dire che il punto cieco della dottrina della transustanziazione è il distacco del contenuto dogmatico dalla forma rituale. Per avvalorare se stessa, la transustanziazione spinge la tradizione a ridurre tutta la celebrazione a mera esteriorità cerimoniale. E questo, dal Concilio Vaticano II, diventa un attentato alla sua verità.Il fatto che la categoria di “transustanziazione” non abbia nulla da dire della forma rituale è il suo limite costitutivo, che deve essere superato.
c) Come la metafisica aristotelica, con la sua grandezza, non è il destino espressivo della teologia eucaristica, altrettanto si deve dire della pretesa di attribuire al Concilio di Trento la “parola definitiva” in ambito di dottrina eucaristica. A differenza dei padri conciliare di Vaticano II, che ne avevano una coscienza assai ridotta, oggi possiamo notare quale sia il nuovo spazio che la teologia liturgica ha saputo guadagnare nella ermeneutica della celebrazione eucaristica. Anche Giuseppe Colombo, quasi “obtorto collo” ha riconosciuto, in uno scritto della fine degli anni 90 (la prefazione al bel libro di A. Bozzolo, La teologia sacramentaria dopo K. Rahner), questo acquisito primato della “teologia liturgica”sulla “teologia sacramentaria”. La scoperta del valore dogmatico della “partecipazione attiva” sa additarci un grande cambio di paradigma: grazie al quale potremmo scoprire che una parte di ciò che Trento difendeva come dogmatico era solo frutto di una ecclesiologia clericale, e ciò che allora veniva contestato in radice era solo il primo sorgere di una Chiesa consapevole di essere “dono ultimo” e “oggetto di grazia” del sacramento.
d) Il problema della continuità deve quindi essere declinato diversamente: restando fermi ad un vocabolario vecchio, si inducono esperienza distorte e anche viziate. Pensare il mistero del Signore che viene in mezzo ai suoi mediante il “magistero della azione” implica una profonda revisione delle categorie che hanno emarginato e sterilizzato l’azione rituale. Per questo, il fatto di collocare le mie parole nella scia della riflessione rahneriana, per quanto con altri strumenti e in parte anche con altri intenti, non lo riterrei affatto un vizio o un difetto, ma forse uno dei pochi meriti del mio tentativo di riflessione sulla eucaristia. Tuttavia mi pare che anche il riferimento a Guardini, così come proposto da Arzillo, non possa essere scelto in un modo troppo arbitrario. Se per discutere le questioni eucaristiche trascuro tutto ciò che Guardini ha scritto sulla eucaristia, e cito un brano che viene dalla sua riflessione etico-politica, rischio davvero di confondere le parole e di non entrare, con Guardini, nella sfida che la “forma fondamentale” ha lanciato alla teologia eucaristica post-tridentina. In tal modo, ripetendo semplicemente il dettato del Concilio di Trento, non riuscirei a prendere sul serio la voce profetica ed esigente che arriva ancora a noi dalle parole del grande teologo italo-tedesco.
e) Infine, vorrei dire che la novità della sollecitazione che giunge dalle nuove sensibilità bibliche, patristiche, liturgiche ed ecumeniche, nel momento in cui riconoscono la loro vocazione sistematica, potrebbe essere formulata così: non si tratta di chiedere “meno” di ciò che la categoria di transustanziazione assicura. Si tratta di chiedere “di più”: in gioco vi è un grande incremento di esperienza e di sapere. Ciò che la categoria di “transustanziazione” assicura è troppo poco rispetto a ciò che la tradizione attesta a riguardo della celebrazione eucaristica. L’incremento di “esperienza di presenza” che la celebrazione eucaristica assicura, non può risolversi nella assunzione “isolata” della presenza sostanziale. Proprio qui il sapere classico non è più sufficiente e deve essere integrato e tradotto.
La teologia Eucaristica non può fissarsi solo sulla questione sostanza certo. Ma ascoltando San Tommaso l’idea di sostanza non è propriamente quella aristotelica.
L’efficaia dell’Eucarestia dipende dalla Croce, dalla Resurrezione e dalla Ascensione gloriosa di Gesù. Assicuarre il realismo della Eucarestia è il risultato di una assunzione teologica del mistero della Redenzione. Vanno bene tutte le altre acquisiszioni certamente aucaristiche di Blondel e anche di Ricoeur. Ma alla fine senza una ontologia non ambigua crolla tutto il resto. Si torni alla Patristica latina greca e siriaca e copta. Una sola discussione sulla sostanza non permette nemmeno di entrate nel mistero dell’Eucarestia
Certo, vi è una buona ragione in queste parole. Ma che cosa significa “ontologia non ambigua”? Perché se non ambigua significa “sostanziale” allora si ritorna da capo. In questo senso una rielaborazione del riferimento alla sostanza è inaggirabile.