Stile curiale e sguardo sul reale. Calendario e riti del tempo pasquale, confessione e indulgenze in condizioni di pandemia


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“La realtà è superiore alla idea”. (EG 233) Con questo lampo di luce Francesco, nel suo primo documento magisteriale, nel 2013, ha invitato la tradizione ecclesiale a “onorare la realtà”, uscendo da quelle forme di “idealizzazione” che spesso sono non servizio alla realtà, ma violenza contro la realtà. Mi pare che questo criterio generale potrebbe essere utilizzato per valutare i documenti che ieri sono stati resi noti dalla Curia Romana. Si tratta di un Decreto della Congregazione per il Culto Divino (CCD) e di un Decreto e di una Nota della Penitenzieria Apostolica (PA). Esaminiamo nel dettaglio ciascuno dei tre documenti.

1. Il contenuto dei tre testi

a) Il Decreto “In tempi di Covid-19” della CCD provvede a definire una serie di modifiche dei riti pasquali, a causa della epidemia che ha costretto i governi alla limitazione delle possibilità di “raduno”. Viene confermata la data della Pasqua, si rimanda ai Vescovi la possibilità di differire la Messa crismale, si modificano in parte i riti del Triduo Pasquale del giovedì santo, del venerdì santo e della Veglia Pasquale.

b) Il Decreto della Penitenzieria Apostolicaconcede il dono di speciali Indulgenze ai fedeli affetti dal morbo Covid-19, comunemente detto Coronavirus, nonché agli operatori sanitari, ai familiari e a tutti coloro che a qualsivoglia titolo, anche con la preghiera, si prendono cura di essi”.Le condizioni per “lucrare” sono ovviamente limitate dalla situazione di presidio sanitario, che dovrebbe escludere ogni possibile celebrazione (con raduno) e movimento (pellegrinaggio). Si descrive così la pratica sufficiente per la concessione della Indulgenza plenaria “a quei fedeli che offrano la visita al Santissimo Sacramento, o l’adorazione eucaristica, o la lettura delle Sacre Scritture per almeno mezz’ora, o la recita del Santo Rosario, o il pio esercizio della Via Crucis, o la recita della Coroncina della Divina Misericordia, per implorare da Dio Onnipotente la cessazione dell’epidemia, il sollievo per coloro che ne sono afflitti e la salvezza eterna di quanti il Signore ha chiamato a sé”.

c) La Nota, della stessa Penitenzieria, interviene sulla prassi del sacramento della penitenza, identificando ufficialmente la condizione di pandemia come “caso di necessità” che rende possibile la celebrazione della III forma del sacramento, con confessione e assoluzione in forma generale. Dice infatti: “Questa Penitenzieria Apostolica ritiene che, soprattutto nei luoghi maggiormente interessati dal contagio pandemico e fino a quando il fenomeno non rientrerà, ricorrano i casi di grave necessità, di cui al summenzionato can. 961, § 2 CIC.”

2. Onorare la realtà: il male della epidemia non è negato

Tutti e tre i documenti, come è evidente, rispondono a domande scaturite dalla esperienza ecclesiale delle ultime settimane, e che ha investito anche Roma, e dunque toccato direttamente la vita e le prassi della Curia romana. Le disposizioni assunte in vista delle celebrazioni pasquali, che riguardano in modo speciali le liturgie eucaristiche e le liturgie penitenziali, assumono tutta la serietà delle sfide sanitarie che Roma, l’Italia e il mondo intero stanno vivendo, con il carico di sofferenza, di incertezza e di paura che esse comportano.

A ciò bisogna aggiungere che sarebbe ingiusto leggere questi documenti con attese esagerate: non abbiamo a che fare con “pronunciamenti magisteriali”, non vi è implicato direttamente l’”annuncio del vangelo” o il “significato ultimo” delle realtà intorno alle quali si sta provvedendo per decreto. Quindi valutiamo dei documenti “di ufficio”, e lo facciamo tenendo conto dei limiti strutturali in cui essi devono essere collocati e letti. La tradizione “de ecclesiasticis officiis” è qui all’opera.

La Chiesa appare colpita “nell’intimità della sua casa” dalla necessaria prevenzione della epidemia. E’ vero che si onora la realtà, si prende atto di una difficoltà di fronte alla quale non si mette la testa sotto la sabbia, ma la sia affronta, ci si lascia profondamente modificare dalla lotta alla epidemia. Questo è importante. Nella Chiesa c’è stata la tentazione di “negare la realtà”, di dire “noi continuiamo, teniamo alto il vangelo, riempiamo le Chiese di popolo per affermare la vittoria di Cristo anche su ogni male, fisico o morale”. No. Non si è presa questa via e si è responsabilmente accettato di modificare profondamente la proprie pratiche così preziose, così irrinunciabili, pur di garantire un bene comune più alto e più prezioso “del molto oro fino” dei riti antichissimi, ai quali siamo tanto giustamente legati. Questo è un punto acquisito e positivo.

3. Onorare la realtà: lo sguardo curiale e la “comunità sacerdotale” (LG 11)

Vi è, tuttavia, un aspetto su cui, detto francamente, mi sarei aspettato, anche dal punto di vista della elaborazione linguistica dei testi, e senza tradire la classica “brevitas” che si addice agli atti ufficiali, di trovare la confessione di una sofferenza per un fatto importante che si determina a causa del “presidio sanitario”.All’inizio del Decreto della CCD si ricorda infatti che il motivo del Decreto è “il caso di impedimento a celebrare la liturgia comunitariamente in chiesa”. Il testo recepisce però questo problema in modo estremamente sobrio e tende a tradurlo, sostanzialmente, in una disciplina della celebrazioni dei chierici. E’ come se si interpretasse la “comunità sacerdotale” – che LG11 usa per definire la Chiesa nella sua identità complessiva di corpo di Cristo – riferendola soltanto alla comunità dei chierici. Ma la comunità sacerdotale di cui parla LG è la comunità ecclesiale di tutti i battezzati, non la comunità dei chierici. Questo è il cono d’ombra del testo. Ed è, come è evidente, una tentazione tipica della Curia romana. Che in questo caso sembra considerare il problema del Triduo Pasquale quasi esclusivamente come quello delle “pratiche rituali possibili (e impossibili) ai chierici”. I “non-chierici” sono evidentemente una categoria residuale. Ai quali è dedicata, sostanzialmente, solo la parte iniziale del testo, laddove prevede due cose: che alle celebrazioni del Vescovo in cattedrale e dei parroci nelle parrocchie i non-chierici possano “unirsi in preghiera dalle proprie case”, per la qual cosa “sono utili gli strumenti di comunicazione telematica in diretta”. Si aggiunge, però un capoverso, che è l’unica vera considerazione per il “sacerdozio regale” dei fedeli: si invocano dalle Conferenze episcopali e dalle diocesi “sussidi per la preghiera familiare e personale”. E questa è l’unica apertura vera. Tutto ciò che segue riguarda la organizzazione di queste “celebrazioni” del Vescovo e dei parroci. Certo, non si deve dimenticare la logica della necessità eccezionale,che caratterizza questo tempo, ma la “chiusura su di sé” del clero, proprio durante il Triduo Pasquale, senza alcuna espressione della “sofferenza” che questo reca al corpo della Chiesa, appare un dato non positivo. Alcuni dettagli del testo lo illustrano bene: sul giovedì santo, ad es., il problema della rubrica che impone la natura comunitaria della celebrazione, viene superato “ex officio” con la concessione eccezionale ad ogni prete di poter celebrare la messa “senza il popolo”. Ma poi non si aggiunge nulla sulla equivalenza drammatica, che sfugge alla attenzione: perché “messa senza popolo” vuole dire “popolo senza messa”. Invece, la preoccupazione è riservata solo per il presbitero, che nel caso non possa celebrare la messa, può “pregare i vespri”. La fenomenologia del “prete solo” è completa, accurata e dettagliatissima. Il popolo non sembra entrare nello sguardo, appare come un fenomeno irrilevante. Questo è il limite grave del testo. Che tende a confermare come, in alcuni casi, la Curia romana appare la più periferica delle province rispetto alla realtà ecclesiale viva e vera.

4. Onorare la realtà: il sacramento, il codice e le forme di vita colpite dalla pandemia

Circa i due documenti della PA, non mi soffermo troppo sul Decreto sulla indulgenza straordinaria. Certo è che offrire mezzora di lettura della Sacra Scrittura per la cessazione della epidemia come “opera simbolica” per la remissione della pena temporale è una interpretazione della esperienza ecclesiale che fatica a correlarsi con la realtà attuale. Tanto più a causa dei problemi che scaturiscono dalla lettura dell’altro documento dello stesso Ufficio, la Nota sul sacramento della penitenza. Ed è singolare come possano, dallo stesso Ufficio, uscire due documenti che sembrano ignorarsi. Nella Nota, infatti la novità acquisita, e ripresa dalla stampa, è la possibilità di configurare questa condizione di “pandemia” come “stato di necessità” che abilita Vescovi e parroci a far uso della “terza forma” del sacramento della penitenza, ossia senza confessione individuale e specifica e con assoluzione generale. Anche in questo caso: bene, si prende atto della realtà, non si rincorrono idealismi eroici di preti che espongono se stessi (e soprattutto gli altri) al contagio, pur di ascoltare le confessioni.

Ma anche qui, proprio la concezione “formale” che del sacramento si propone nella Nota – mutuandone la realtà solo da citazioni del Codice (cann. 960 e 961) – impedisce di valorizzare la logica di indulgenza che il Decreto precedente vorrebbe alimentare. Provo a spiegarmi meglio. Quando parla di “sacramento della penitenza”, riferendosi al can. 960, la PA avvalora una lettura semplificata – e per certi versi semplicistica – di ciò che il Concilio di Trento chiama “battesimo laborioso”: confessione e assoluzione, nel testo della PA come nel Codex, sembrano sufficienti al realizzarsi del perdono di Dio. In realtà il sacramento, nella sua lunga storia, è sempre stato vitale solo quando ha conservato e custodito, come dice la migliore tradizione, tutti e tre gli atti del peccatore-pentito: ossia, oltre alla confessione, la contrizione e la soddisfazione, le quali, per parlare fuori dai denti, sono la sofferenza del pentimento interiore e la sofferenza del cambiamento esteriore. Ora è curioso che le indulgenze abbiano senso solo se la “pena temporale” – che è appunto la “sofferenza per il cambiamento” – non viene ridotta ad un “ente di ragione”, ma morde nella carne e nel sangue di uomini e donne, che Dio ha già perdonato, ma soffrono nell’animo e nel corpo, nella mente e nel cuore, perché non riescono a perdonarsi e non riescono a cambiare.

Proprio in tempo di pandemia, quando la sofferenza per il male subito senza colpa e il cambiamento di vita imposto addirittura per legge diventano paradossali occasioni addirittura pubbliche per cammini di conversione e di cambiamento di vita, fermarsi sulla soglia di tutto ciò e puntare lo sguardo solo sugli estremi – la nostra parola sul peccato e la parola di Dio che perdona – non sembra entrare davvero nella realtà complessa e nuova che si vorrebbe servire e illuminare. Ci sono intere nazioni che “fanno già penitenza” nel corpo e nello spirito, perché mai questo fenomeno macroscopico non viene ascoltato, letto, interpretato, con gli strumenti di tutta la ricca tradizione, che stanno prima, sotto, accanto, oltre, ma non “nel” Codice? Se un ufficio di curia legge la realtà della penitenza solo con le categorie giuridiche, lascia il 90% della realtà fuori dalla porta. Capisco la logica della “distanza di sicurezza”, ma questa mi pare francamente immotivata.

5. Il tempo dilatato e breve

La risposta ecclesiale alla sfida della epidemia richiede dunque con urgenza un doppio passaggio: una presa d’atto della realtà, e una profonda elaborazione dello sguardo sulla realtà. La prima c’è, la seconda no. Una vera presa d’atto della realtà costringe tutti a cambiare lo sguardo e quindi a modificare lo stile del linguaggio e le forme della vita. Non si può parlare del triduo pasquale o del sacramento della penitenza con lo stile freddo di un regolamento di condominio. Il secondo passaggio, che sicuramente è faticoso, resta quasi totalmente o incompiuto o delegato ad altri. Ma il tempo, che è superiore allo spazio, non fa sconti. Solo con profezia e lungimiranza potremo onorare questa realtà nuova, in un tempo che si è fatto allo stesso tempo molto dilatato e assai breve.

 

 

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