I Vescovi e la teologia del Messale: era così difficile?


Messale_Romano

Dopo lo scalpore sollevato dal triste documento apparso sul sito della Conferenza Episcopale Umbra  – e che evidentemente non si ritiene di ritirare, visto che continua a campeggiare con ostinazione sul sito della CEU  (cui ho già dedicato attenzione qualche giorno fa) – proprio in relazione a quel testo era giunto un commento su FB, da parte di Don Franco Gomiero, con una giusta indicazione, che merita di essere ripresa con alcune annotazioni. Nel suo intervento Don Gomiero si limitava saggiamente ad indicare alcuni numeri dell’OGMR (Ordinamento Generale del Messale Romano, III ed.) precisando che, anzitutto per i Vescovi, la forma della “traditio eucharistica” dovrebbe essere reperita anzitutto su quel testo, e  non in elucubrazioni imprecise, svolte in modo maldestro e approssimativo, che creano solo problemi di equilibrio dottrinale e di fedeltà alla fede della Chiesa. Penso che possa essere utile soffermarsi per qualche minuto sui testi citati da Don Gomiero e sul senso del suo giusto richiamo.

Prima di tutto una osservazione. Curiosamente il comunicato della CEU non cita mai il documento richiamato da Don Franco. Si cita Theilard de Chardin, ma non si cita OGMR. Questo non deve sorprendere. La forza interpretativa e teologica dei “prenotanda” ai rituali riformati – ed in primis di questo grande testo che introduce il Messale Romano – è spesso disattesa o sconosciuta addirittura. Purtroppo è così anche per alcuni Vescovi. Questo testo è parte integrante della recezione della Riforma, ne costituisce una sorta di “ermeneutica in atto”. La riforma del rito dell’eucaristia, infatti, non è solo una prassi che muta, ma è anche una teologia che si rinnova. Non è semplicemente un aggiustamento “tecnico” delle rubriche, ma è una “forma mentis et corporis” con cui disporsi nell’atto rituale, per riscoprirne il significato, non come avvocatucci tristi, preoccupati solo di difendere assetti e privilegi. Di questa mens rinnovata fanno parte anche le “parole con cui parliamo dell’eucaristia”. Per un Vescovo, ricordare sempre questa “parola originaria”, espressa nel modo più breve e più intenso nell’OGMR, è assolutamente decisivo. E’ memoria custodita nella azione: per questo è così preziosa. Per di più, nel  momento in cui accadono fatti straordinari, come la pandemia che stiamo vivendo da più di un mese, occorre una bussola sicura per muoversi in forma eccezionale nell’ambito delle “evidenze ecclesiali”. Proprio a questo livello di “memoria agita” uno strumento prezioso, che proprio i Vescovi dovrebbero conoscere meglio degli altri, è la “teologia eucaristica” che parla “per ritus et preces”, ossia quella “intelligenza rituale” della messa che lo stesso “ordo liturgico” provvede a fornire, nei suoi testi e nei suoi gesti. Quanto prezioso sarebbe stato se i Vescovi, che si sono espressi in modo tanto scomposto ed teologicamente sgrammaticato nel documento CEU, avessero semplicemente ripreso ciò che dice l’ultima versione dell’Ordinamento Generale del Messale Romano. Ne riporto qui il dettato, accompagnandolo con un breve commento.

La teologia eucaristica dell’OGMR (3 edizione)

La prima osservazione che si deve fare è di carattere squisitamente terminologico. L’uso dei termini più adeguati è spesso il primo segno di uno stile ecclesiale e di un metodo adeguato. Il testo normativo ufficiale, nel descrivere la esperienza di “celebrazione eucaristica” non usa mai il termine “messa senza popolo”. La “griglia” che viene usata dal OGMR III ed., per parlare delle diverse “forme” di celebrazione eucaristica, è la seguente:

-Messa con il popolo

-Messa concelebrata

-Messa cui partecipa un solo ministro

Ciò accade perché l’ORDO sa, a differenza del documento CEU, che la messa non puoi celebrarla “privatamente”, neppure se sei il papa. La messa è, antropologicamente e ecclesialmente, un fenomeno plurale. Umanamente non inizia mai dall’1, dal singolo, ma dal  “2”, da una comunità. Questa è la medesima sapienza che rimane scritta anche nella legge canonica, quando al canone 906 dice “Il sacerdote non celebri il Sacrificio eucaristico senza la partecipazione di almeno qualche fedele, se non per giusta e ragionevole causa”.

Quando si fanno queste affermazioni in modo così accurato, si mette in cima il valore del “celebrare comune” e si recupera il “caso di necessità” solo come una eccezione, dolorosa e pesante. La sapienza teologica sta nel percepire e comunicare queste differenze, sottili come un capello, ma decisive. I vescovi umbri, invece, in un documento scritto con i piedi, hanno irresponsabilmente girato la frittata, arrivando a fare della eccezione la norma, e della norma l’eccezione. Se si dice, infatti che, “L’assemblea partecipa alla celebrazione ma non è la protagonista costitutiva dell’atto sacramentale, come lo è invece il ministro ordinato, presbitero o vescovo” si invertono le priorità e si tradisce la tradizione nel suo cuore pulsante. Sarebbe come dire che si è padri per il fatto oggettivo di avere generato, non per il fatto di avere rapporti soggettivi con il figlio. Che la oggettività dell’essere padri non dipende dal rapporto con il figlio… e forse l’esempio è davvero calzante per il modo con cui talora viene  pensata – ed attuata –  la “paternità spirituale”.

La messa non è il giochino della torre

La piena comprensione di un necessario “stile liturgico e pastorale” si può leggere nei numeri 91-96 dell’OGMR. Vediamo il primo numero:

“91. La celebrazione eucaristica è azione di Cristo e della Chiesa, cioè del popolo santo riunito e ordinato sotto la guida del Vescovo. Perciò essa appartiene all’intero Corpo della Chiesa, lo manifesta e lo implica; i suoi singoli membri poi vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, dei compiti e dell’attiva partecipazione. In questo modo il popolo cristiano, «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato», manifesta il proprio coerente e gerarchico ordine. Tutti perciò, sia ministri ordinati sia fedeli laici, esercitando il loro ministero o ufficio, compiano solo e tutto ciò che è di loro competenza.”

Dire che la messa “appartiene all’intero Corpo della Chiesa” è la visione di fondo, che nel testo CEU è incredibilmente lasciata da parte, per dar spazio a una “concorrenza” tra soggetti che capovolge il senso stesso della eucaristia. Ognuno è soggetto. La logica non è mai quella che distingue tra autonomo/dipendente. Qui vi è un errore nell’uso delle “categorie”. E’ come se i Vescovi avessero accettato il giochino della torre, classico e perverso: “nella messa, chi butti giù dalla torre? il prete o la assemblea?”

La stessa logica “inclusiva” si legge nel passo dedicato al presbitero, in cui la autorità di presidenza è correlata al servizio a Dio e al popolo. Non si usano le categorie di oggettivo/soggettivo, ma quelle di “servizio a Dio e al popolo”. Tale servizio non può essere scisso, nel senso che come non si può servire il popolo senza servire Dio, così non si può servire Dio, senza servire il popolo: la “offerta del sacrificio” sta nel “presiedere il popolo radunato”.

“93. Anche il presbitero, che nella Chiesa ha il potere di offrire il sacrificio nella persona di Cristo in virtù della sacra potestà dell’Ordine, presiede il popolo fedele radunato in quel luogo e in quel momento, ne dirige la preghiera, annuncia ad esso il messaggio della salvezza, lo associa a sé nell’offerta del sacrificio a Dio Padre per Cristo nello Spirito Santo, distribuisce ai fratelli il pane della vita eterna e lo condivide con loro. Pertanto, quando celebra l’Eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e, nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine, deve far percepire ai fedeli la presenza viva di Cristo.”

Ci si vergogna forse di dire “assemblea celebrante”?

Ciò si riverbera anche nella ricca e articolata lettura del “ministero della assemblea”. Qui sarebbe assai opportuno recuperare, da parte dei vescovi della regione umbra (e probabilmente anche di altre regioni) la forza di questi testi, senza lasciarsi distrarre da documenti gravemente fuorvianti che hanno avuto la sfrontatezza di invitare alla “cautela” nell’uso della categoria di “assemblea celebrante”. E non escluderei che il testo della CEU sia stato influenzato in modo improvvido da queste logiche apologetiche di “lotta agli abusi”, che impediscono di ragionare con “tenerezza” sulle dinamiche ecclesiali. Il Vescovo e il presbitero, dovrebbe sempre essere chiaro, “presiedono una assemblea che celebra”. L’atto del celebrare è costitutivamente plurale. Per questo OGMR 95-96 ricorda che:

“95. I fedeli nella celebrazione della Messa formano la gente santa, il popolo che Dio si è acquistato e il sacerdozio regale, per rendere grazie a Dio, per offrire la vittima immacolata non soltanto per le mani del sacerdote ma anche insieme con lui, e per imparare a offrire se stessi. Procurino quindi di manifestare tutto ciò con un profondo senso religioso e con la carità verso i fratelli che partecipano alla stessa celebrazione. Evitino perciò ogni forma di individualismo e di divisione, tenendo presente che hanno un unico Padre nei cieli, e perciò tutti sono tra loro fratelli. 

96. Formino invece un solo corpo, sia nell’ascoltare la parola di Dio, sia nel prendere parte alle preghiere e al canto, sia specialmente nella comune offerta del sacrificio e nella comune partecipazione alla mensa del Signore. Questa unità appare molto bene dai gesti e dagli atteggiamenti del corpo, che i fedeli compiono tutti insieme.”

Qui è evidente  e toccante il “respiro ecclesiale” di questa ariosa presentazione della esperienza eucaristica. In questo orizzonte di “comune offerta del sacrificio e comune partecipazione alla mensa del Signore”, con la comunione nella parola e nel sacramento, non è possibile giustificare che, sia pure a causa della condizioni di pandemia, si possa dire, pretendendo di esprimere tenerezza, che “i fedeli «compiono la propria parte nell’azione liturgica» (LG 11), ma non sono loro che attuano e rendono presente il gesto di Cristo che si offre al Padre ogni volta che, obbedendo al suo comando, il ministro – a nome della Chiesa e in persona Christi – fa memoria della sua pasqua”. Questo modo di parlare sfigura l’esperienza della Chiesa, la chiude in una “pratica da funzionari assediati” e tradisce non solo il munus episcopale, ma il senso stesso del ministero ordinato. Recuperare il tono dell’OGMR per far fronte alla sfida di un tempo così sorprendente e così spiazzante è l’unico modo per accedere davvero ad un “minimo sindacale” di tenerezza. Se invece di sceglie di usare la parola “tenerezza”, ma si impiegano rappresentazioni e categorie ingiuste e sprezzanti, si unisce danno a danno, sconforto a sconforto, distanza a distanza. Sono convinto che i Vescovi della CEU non possano sopportare un così grande divario tra le loro intenzioni pastorali di calda vicinanza, di cui non dubitiamo, e un linguaggio formalistico che risulta non solo gravemente sviato e sviante, ma anche indifferente come un cartello stradale e gelido come il marmo. In nessun luogo al mondo la tenerezza si può esprimere così.

 

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