Adorazione eucaristica e indulgenze: in dialogo con F. Ferrario e G. Lorizio


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Adorazione eucaristica e indulgenze: un dialogo ecumenico da proseguire

 

La teologia cattolica che cosa ha da dire sulla adorazione eucaristica e sulle indulgenze? La risposta che Giuseppe Lorizio (su “Avvenire” del 21/4) ha rivolto alla domanda indiretta di Fulvio Ferrario è una buona possibilità, che denota saggezza e prudenza, senza chiudere il discorso. Ricostruisco brevemente il dibattito.

Fulvio Ferrario aveva osservato, con realismo, che sotto la pressione di circostanze eccezionali, ogni tradizione cristiana tende a tornare alle “specialità di casa”. E perciò, a differenza degli evangelici, i cattolici tornano alla adorazione eucaristica, ai crocifissi miracolosi, alla Madonna della neve e alle indulgenze. In questa costatazione non era difficile leggere anche una piccola dose di sana provocazione.

La rilettura che Giuseppe Lorizio, per rispondere, ha proposto di queste tradizioni segue la via sicura di una apologetica non polemica, signorile, lungimirante, sensibile. Ma sempre di apologetica di tratta, sia pure con tutta la sua nobile intenzione. Siamo di fronte ad un comprensibile e anche lodevole atteggiamento, che mira alla difesa di una “pratica”, scoprendone logiche fondanti nascoste o poco conosciute, che ne dovrebbero sorreggere il senso in modo nuovo. La pratica è la stessa, ma la spiegazione cambia. Larga parte della teologia si fa così. E ogni teologo lavora apologeticamente per larga parte del suo tempo.

Penso che nella obiezione di Ferrario, tuttavia, vi fosse, indirettamente, un’altra provocazione. Mi sembra che Ferrario si chiedesse, indirettamente: questo modo di proporre le ragioni teologiche di una pratica è ancora veramente efficace? Sicuramente questa opzione sistema le relazioni ecumeniche, arrotonda ogni spigolo, colma le valli e abbassa le cime, ma crea veramente la condizione di un colloquio sulla “res”?

Provo a mostrare alcuni limiti di questo procedimento apologetico considerando due delle risposte proposte da Pino Lorizio.

a) Adorazione eucaristica, presenza reale e teologia eucaristica

Nella sua risposta, che ha una sua spettacolare efficacia, Lorizio gioca “in campo altrui”. Ed è sempre bello che un cattolico usi Lutero come una autorità, e, magari, domani, Ferrario possa usare Bellarmino in prospettiva evangelica. Però la affermazione della “presenza del corpo di Cristo” fatta da Lutero a me pare troppo poco per fondare pienamente la “pratica” della adorazione, soprattutto in relazione alla “preghiera della Chiesa”. Qui mi sarei aspettato che la provocazione di Ferrario non avesse come risposta una sorta di paradosso: noi nella adorazione siamo più fedeli a Lutero di quanto non siate voi. Ovviamente Lorizio non dice così, ma il non detto del testo si muove in questa direzione. Tuttavia la correlazione tra “presenza” e “azione rituale di comunione” è in Lutero e non nella adorazione. La quale, per questo, con tutta la sua rilevanza, paga un certo prezzo alla pretesa di separare il sacramento della presenza dalla memoria ecclesiale del sacrificio. La teologia eucaristica è investita di un compito che non è solo apologetico. Piuttosto che sulle posizioni di Lutero, sarebbe interessante meditare sulle scelte con cui il Concilio di Trento, per rispondere a Lutero, ha impostato il discorso e la esperienza della eucaristia con una separazione tra Decreti, che ha di fatto assicurato che noi cattolici abbiamo potuto, per quasi 400 anni “sentire messa senza comunicarci”, “adorare senza fare la comunione”, “fare la comunione dopo la fine della messa”. La adorazione eucaristica, come gioiello di casa, e come patrimonio storico della tradizione cattolica, forse merita una ripulita e anche una collocazione più adeguata nelle stanze di famiglia.

b) Le indulgenze e il terreno penitenziale su cui si posano

Il tema delle indulgenze è ancora più delicato. Ovviamente in questo ambito è difficile per il teologo cattolico esordire citando a proprio favore un testo di Lutero. Può essere utile, per stemperare la tensione, introdurre Bonhoeffer con Sanctorum Communio e spostare la questione delle indulgenze sul piano della relazione tra chiesa militante, chiesa purgante e chiesa trionfante. Però a me pare che il tema delle indulgenze meriti, anche qui, una considerazione non soltanto apologetica. Provo a spiegarmi. Se usiamo questa “istituzione”, dobbiamo rispettarne la logica e non possiamo tradurla in una sorta di “preghiera per i defunti”. Le indulgenze sono, fondamentalmente, una delle “culle” del purgatorio. Ma la loro evidenza si fonda su una dinamica elementare, che è presente nella Chiesa cattolica come nelle chiese evangeliche e orientali. Ed è la dinamica penitenziale. Tale dinamica, per come storicamente è stata compresa, ha tematizzato la “pena temporale” come la risposta al perdono di Dio nella libertà del cristiano. Perciò, almeno originariamente, la indulgenza è un “atto festivo” con cui la Chiesa, sulla base del potere delle chiavi, o sulla base della preghiera, “rimette la pena temporale”. Ossia “sconta” al soggetto che è stato già perdonato, la “fatica della risposta”. A me pare che oggi il tema della indulgenza manchi del terreno su cui poter irrompere con la propria logica festiva. Se i vivi, battezzati e cristiani, non sono più abituati a pensare al “fare penitenza” come ad una parte ordinaria della loro vita cristiana, che senso ha la “indulgenza plenaria” per chi non ha alcune coscienza di una pena temporale da “scontare”? E se questo vale per i vivi, non vale “a fortiori” per i defunti? Tanto più in un tempo di pandemia dove la prossimità ai soggetti mi pare che debba essere impostata molto più sul registro feriale della condivisione del fare penitenza che sul registro festivo di una “remissione della pena”. E forse, proprio nella riscoperta di questa “penitenza quotidiana” – che investe la libertà del soggetto – proprio alcuni testi luterani potrebbero servire a rileggere con singolare efficacia i gioielli di casa cattolica. Sempre ricordando che alla Chiesa compete certo custodire scrupolosamente il depositum, ma le spetta anche discernere, come dice il poeta, tra “ciò che non muore e ciò che può morire”.

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