Chiesa Cattolica e “sindrome Bartleby”. Il fascino della noncuranza e la vocazione alla cura


Bartleby

 

Il grande racconto di H. Melville, Bartleby lo scrivano, disegna la figura di un segretario diligente, preciso, umile, schivo, e che, tuttavia, entra in una dimensione di rinuncia e di spoliazione, che lo pone in una sorta di “indifferenza ascetica”, in bilico tra anarchia e stoica rassegnazione, e che lo conduce, per gradi, alla rinuncia a tutto, fino a perdere la vita. Bartleby compare sulla scena quando viene assunto dall’innominato avvocato – “io narrante” del racconto – il quale entra in un rapporto di cura e noncuranza, di amore e odio, di attenzione e disprezzo nei confronti del suo dipendente. La enigmaticità del personaggio, che non parla mai se non per rispondere, che resta mite e umile di cuore, ma che si esprime prevalentemente con una frase che è divenuta proverbiale – “Avrei preferenza di no” – ha sollecitato infinite interpretazioni. Questa sorprendente mescolanza di “umiltà” e di “presunzione” hanno sollevato un interesse da parte della critica letteraria, che ha trovato in Bartleby un prototipo anarchico o una figura cristologica, la espressione di una critica del capitalismo o un ideale “perfezionistico”, privo di alcuna mediazione.

La figura di Bartleby, con la sua inesauribile ricchezza, può aiutarci a comprendere meglio una tendenza ecclesiale del cattolicesimo degli ultimi 40 anni. Altrove la avevo chiamata “dispositivo di blocco”. Esso costituisce, appunto, un “dispositivo” mediante il quale la Chiesa, in una lunga stagione post-conciliare – che inizia alla fine degli anni 70, e che si afferma tra gli anni 80 e il primo decennio del nuovo secolo – ha risposto ad ogni “segno dei tempi” con una inclinazione “alla Bartleby”: avrei preferenza di no. Il fascino che questa posizione di rigoroso rifiuto di ogni compito, ad ogni cambiamento, assume in Bartleby non è estraneo alla tradizione ecclesiale. La argomentazione che la Chiesa cattolica, almeno nelle sue espressioni magisteriali più autorevoli, ha proposto suona in modo duplice: da un lato, la Chiesa non si riconosce la autorità di poter cambiare; dall’altro contesta con decisa fermezza la pretesa di autorità di chi crede di poter cambiare. La rinuncia alla autorità è, insieme, contestazione e critica di ogni (altro) esercizio della autorità. Si nega il potere di cambiare e, nello stesso tempo, si assolutizza il potere sul non cambiare. In un certo senso, con una qualche somiglianza rispetto alle movenze sorprendenti dello scrivano descritto da Melville, la Chiesa cattolica si è presentata come “mite e umile” nel riconoscere la propria impossibilità di “dire di sì” e contemporaneamente “decisa e inflessibile” nell’escludere ogni altra possibilità. All’”avrei preferenza di no” ha unito “non c’è possibilità per il sì”.

Anche oggi la “sindrome Bartleby” sembra ancora attrarre settori non irrilevanti della compagine ecclesiale. Una Chiesa mite e umile, che dice sempre “avrei preferenza di no” alla comunione sulla mano, alla ordinazione delle donne, ad una traduzione della liturgia che sia fedele non solo al latino, ma anche alla lingua volgare; che dice “avrei preferenza di no” alla possibilità che i diaconi possa “ungere gli infermi”, alla possibilità di cantare al rito di pace, alla possibilità di lavare i piedi alle donne il giovedì santo, alla possibilità di tradurre con “non abbandonarci alla tentazione” la penultima domanda del Padre Nostro ecc. ecc. In questa “chiesa bartlebyzzata” il motto “avrei preferenza di no” diventa il simbolo non solo “tradizionalista”, ma quasi “ascetico” e “ contemplativo” di una decisiva indifferenza ad ogni novità.

Questo fascino e questo attaccamento hanno però subìto un colpo duro con la elezione di papa Francesco. Il quale, pur non essendo affatto insensibile al lato “mite e umile” della figura di Bartleby, e alla sua marginalità, ne contraddice tuttavia la vocazione assoluta alla “stasi”. La contemplazione, già per il Concilio Vaticano II e ora anche per Francesco, non sta nella noncuranza, ma nella cura. Per questo Francesco ha iniziato a “disinserire il dispositivo di blocco” – inventato per delimitare l’impatto del Concilio Vaticano II – e ha rivendicato invece esplicitamente alla Chiesa una “autorità”, limitata ma legittima, condizionata ma mai negata. Per questo, sia pure con una certa necessaria cautela, non è avventato dire che alla “sindrome Bartleby”, che ha segnato almeno 3 decenni di vita ecclesiale, a partire dal marzo del 2013 è subentrata una fase diversa, ancora in fieri, il cui motto è “Avrei preferenza di sì”.

Alle suggestioni di una tradizione garantita dalla noncuranza e dal distacco, pur con tutto il loro fascino, risponde una concezione della tradizione che vive di cura e di coinvolgimento. Tra Bartleby e Ignazio non ci sono somiglianze tanto grandi che non trovino la loro piena verità in una dissomiglianza maggiore.

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